venerdì 27 aprile 2018

Perché la sinistra in questi anni ha sbagliato tutto (e non ha visto il mondo cambiare).

Le trasformazioni sociali degli ultimi tempi sono state gigantesche. Ma invece di studiarle, si è inseguito un “elettore mediano” che stava scomparendo.

Dopo l’articolo di Paola Natalicchio 
e quello dei ricercatori Salvatore Borghese, Valeria Fabbrini e Lorenzo Newman, nel dibattito sulla sinistra intervengono l’economista Marta Fana (autrice di “Non è lavoro, è sfruttamento”, 2017) e il sociologo Lorenzo Zamponi (coautore tra l’altro di “Organising workers’ counter-power in Italy and Greece”, 2015).

 
L'Espresso Marta Fana e Lorenzo Zamponi
La sconfitta della sinistra alle elezioni del 4 marzo arriva da lontano.
Non c’è socialdemocrazia europea, del resto, se non nelle eccezioni britannica e portoghese, che negli ultimi anni non abbia visto crollare il proprio consenso elettorale.
Perché la sinistra in questi anni ha sbagliato tutto (e non ha visto il mondo cambiare) A essere sconfitto è stato quello che Nancy Fraser ha chiamato il “neoliberismo progressista”, cioè la linea politica seguita da tutti i centrosinistra europei dagli anni ’90 in poi: l’idea che si potesse cavalcare da sinistra la forza della globalizzazione, delle privatizzazioni, dell’apertura al mercato di spazi sempre più ampi della nostra società, livellando verso il basso i diritti sociali e comprandosi il consenso popolare grazie alla crescita economica e a qualche avanzamento sui diritti civili. 
Matteo Renzi ha spinto ai massimi livelli questa tendenza, portando il Pd ad allinearsi con il centrismo liberal-populista di Macron e dichiarando guerra a parti importanti della propria base, come il sindacato (con il Jobs Act) e gli insegnanti (con la cosiddetta Buona Scuola).


Negli spazi tradizionali dell’elettorato popolare e democratico, nei luoghi del lavoro dipendente, nelle scuole, nelle università, nelle organizzazioni sociali, nel sindacato, la quota di persone che ha deciso di non votare più “il Partito”, è enorme, senza precedenti. La mappa elettorale vede le ex regioni rosse del centronord (Emilia Romagna, Toscana, Umbria e Marche) ridotte a una manciata di province. Eppure, questi elettori in fuga dal Pd non hanno scelto i suoi concorrenti a sinistra, nelle versioni più moderate o più radicali. In parte, queste forze politiche hanno pagato la propria scarsa credibilità. In parte, però, hanno pagato (insieme al Pd) un prezzo di un cambiamento più profondo. Per i 25 anni della Seconda repubblica, i partiti di sinistra si sono fondamentalmente spartiti il consenso del vecchio blocco sociale del Pci, costruito intorno a classi popolari che si facevano realmente o fittiziamente ceto medio, cui il lavoro dava dignità sociale e mezzi economici, e il cui orizzonte di vita prevedeva una crescita continua del benessere e delle opportunità.

Quel mondo è strutturalmente cambiato. E l’inasprirsi delle diseguaglianze ha profondamente solcato la struttura sociale del nostro paese.


I processi di ristrutturazione del capitalismo, accompagnati dalle riforme politiche dell’ultimo quarto di secolo, hanno spinto verso una condizione di subalternità sociale ed economica non solo chi sta nelle periferie del mercato del lavoro, ma fasce sempre più ampie della popolazione.
Sono i “working poor” di qualsiasi settore economico, i lavoratori delle cooperative a cui vengono appaltati i servizi pubblici e pezzi del ciclo produttivo privato (come la logistica e la grande distribuzione), sono i troppi per cui un rapporto di lavoro a termine non dura più di due giorni, i pendolari che affollano le stazioni e i treni regionali, i disoccupati in balìa di un corso di formazione per un mondo produttivo in costante declino.

Una trasformazione di questo tipo non può essere priva di conseguenze politiche.
La democrazia non è una semplice procedura elettorale, è un modo di tenere insieme una società. 
Perché funzioni, non basta stampare le schede elettorali e assicurarsi che ognuno ne infili una nell’urna.
Servono basi materiali e culturali che permettano ai cittadini di partecipare. E a una parte degli italiani è stata sottratta la possibilità di partecipare attivamente alla vita sociale e politica del Paese.
Per chi intende la politica come atto di trasformazione della società verso una reale giustizia sociale e una democratizzazione dei processi economici, politici e sociali, questo è un problema strutturale.

La politica italiana, anche a sinistra, si è invece spesso persa nell’inseguimento forsennato dell’elettore mediano, il centrista moderato appartenente al ceto medio, da conquistare per avere la maggioranza.
Il crollo del Pd renziano, che ha portato al massimo questa tendenza, dimostra che quegli elettori, oggi, sono minoranza. Quel ceto medio si è impoverito, e non solo: come abbiamo visto prima, si è impoverito in maniera ancora maggiore chi sta nelle periferie del mercato. Eppure è fallita anche l’opzione politica di chi riteneva che l’impoverimento portasse automaticamente a sinistra. Chi riteneva che, dato il diffuso malcontento nei confronti della proposta politica neoliberista, bastasse sbandierare l’antiliberismo per raccogliere quel malcontento, è stato sconfitto ancora più nettamente.

L’impoverimento raramente produce in maniera automatica attivazione e organizzazione del cambiamento. Più spesso, produce isolamento, senso di abbandono, sfiducia, chiusura nel privato. Il fatto che esista nella società italiana una maggioranza che avrebbe bisogno urgentemente di politiche redistributive non comporta automaticamente che questa maggioranza esista come soggetto di azione politica: anzi, la costruzione politica di questa maggioranza dovrebbe essere il primo compito delle forze politiche che si pongono l’obiettivo del cambiamento e della trasformazione della società.

Spesso, invece, il discorso pubblico ha chiamato in causa i ceti popolari in maniera ipocrita, invocandoli o evocandoli senza conoscerli. Nelle organizzazioni politiche, erette a rappresentare istituzionalmente pezzi di società, è diventata sempre più rara l’abitudine di vivere e analizzare la società stessa.

In questo quadro, si è fatta strada in maniera sempre più forte la proposta del Movimento 5 Stelle, e in particolare l’idea per cui il consenso si esprima attraverso una delega totale verso le strutture che si propongono come rappresentanti, preimpostate e senza una costruzione adeguata in termini organizzativi agli obiettivi dichiarati.

Si tratta di un’estremizzazione di processi già in atto dentro la maggioranza dei partiti, percepiti dall’esterno come comitati d’affari o più banalmente elettorali. Partiti sempre meno interessati a trattare i rappresentati come soggetti che hanno diritto a una partecipazione e a coinvolgerli attivamente nei processi politici. Partiti la cui struttura si è via via trasformata in una macchina di consenso interno, dove la selezione degli organismi avviene per cooptazione e fedeltà alla linea senza mettere in discussione la necessità di una formazione politica e culturale, in un processo di burocratizzazione delle strutture mentre queste strutture si andavano indebolendo sempre di più, anche per la sciagurata decisione di cancellare il finanziamento pubblico.

Serve a poco dribblare il problema affidandosi ipocritamente alla “società civile”, di per sé non più virtuosa o più efficace dei partiti. Serve, piuttosto, studiare. Studiare a fondo le trasformazioni dei processi economici e politici, le esperienze di altri paesi, non per copiare modelli impossibili da importare in un contesto per forza differente, ma per capire se con la fine del fordismo è finita anche la politica come l’avevamo conosciuta o se c’è, invece, ancora un modo per dare alle persone strumenti (culturali, materiali e organizzativi) di partecipazione, collettiva per emanciparsi.

Ricostruire comunità, trovare nessi simbolici e concreti per l’identificazione collettiva, mettere insieme con pazienza e sguardo lungo una maggioranza politica che risponda ai bisogni delle maggioranze sociali. Questo dovrebbe essere, oggi, il primo compito della sinistra.

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