domenica 29 aprile 2018

"Certificare i prodotti ma a partire da chi li produce. NoCap è l'inizio di una rivoluzione in agricoltura".


Intervista a Yvan Sagnet.
Risultati immagini per Yvan Sagnet Non servono molte parole per descrivere Yvan Sagnet. L’uomo che ha guidato la rivolta dei braccianti agricoli contro i caporali nelle campagne di Nardò, nel 2011, possiede la semplicità dei grandi. Carismatico, arguto, moderato nei toni, eppure inflessibile negli intenti. Parla dritto al cuore della gente, senza giri di parole. Insignito, nel 2016, cavalierato dell’Ordine al Merito della Repubblica italiana, Yvan è un giovane camerunense cresciuto sognando una nazione dorata. L’Italia del calcio, l’Italia dal sole tiepido, l’Italia dalle mille opportunità. Arrivato a Torino col suo bagaglio pieno di sogni, e la sua borsa di studio al Politecnico. Poi, per mantenersi agli studi, trova lavoro nelle campagne salentine. È qui che scopre il caporalato. È qui che inizia a viverlo sulla sua pelle. Oggi, a distanza di sette anni, il “cavaliere nero” – come pure è stato ribattezzato – è l’emblema del cambiamento che fiorisce dal basso, un simbolo di riscatto dall’oppressione.

“Non so come descrivermi. C’è chi dice che sono uno scrittore, perché ho pubblicato dei libri. C’è chi dice che sono un sindacalista, perché ho lavorato per tanto tempo nel sindacato. C’è chi dice che sono un attivista, perché ho fondato l’associazione internazionale No Cap. Quel che è certo, è che ormai non sono più un ingegnere. Ma resto un uomo.” Festeggiare la Liberazione vuol dire celebrare l’avvio del processo che ci ha portati a sostenere quei valori e principi intangibili che sono alla base della nostra Costituzione. Forse, oggi, a maggior ragione è opportuno ricordare che la nostra resta una Repubblica fondata sul lavoro. Ecco, Yvan, ma fondata sul lavoro di chi?
Sei andata dritta al punto. Negli anni della Resistenza partigiana si viveva l’oppressione della democrazia. Oggi viviamo un altro tipo di oppressione, quella del mercato. Generata da un modello di sviluppo economico ampiamente votato al capitalismo e al neoliberismo, che con le sue ramificazioni condiziona la vita delle persone, rendendole schiave. Siamo schiavi di una società incentrata sul principio della massimizzazione del profitto, condizionata dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Questa è la nuova libertà da conquistare, questo è il nuovo fascismo contro cui dobbiamo lottare: il fascismo del mercato e del capitalismo. La nuova liberazione si può realizzare insieme, come massa popolare, attraverso la cultura, la coscienza, la lotta all’indifferenza, la rivolta, gli scioperi. Dobbiamo sperimentare nuovi strumenti di lotta che ci consentano di renderci indipendenti da questa forma di schiavismo e di oppressione.
Nel sistema capitalistico che descrivi, il caporalato è un “male necessario”?
Esattamente. Il caporalato è essenziale. E il modello economico usa il caporalato come una leva per incrementare il profitto.
Il profitto ai danni dei lavoratori di qualunque razza, etnia, genere. Il caporalato è un fenomeno assolutamente trasversale. E a Nardò, nel 2011, avete vinto perché siete riusciti a coinvolgere la società civile. Avete parlato al mondo del lavoro, senza categorizzarlo. Con voi hanno scioperato i braccianti, i disoccupati, le associazioni, i cittadini. È stata una battaglia di dignità e di civiltà.
Certamente. Quando abbiamo iniziato con gli scioperi, a Nardò, ho capito immediatamente che le strategie di lotta utilizzate fino a quel momento non avevano prodotto risultati efficaci. Isolare o etichettare le battaglie marginalizzandola entro i confini di un colore, o di una razza, non agevola il risultato. Il paradigma va cambiato: se la battaglia riguarda il mondo del lavoro, allora è universale e trasversale. Quando a Nardò le associazioni antirazziste ci venivano a dire che dovevamo andare in strada e manifestare anche contro il razzismo, io mi sono opposto. Stavamo lottando per il lavoro, per i diritti, non per il razzismo sul lavoro. E abbiamo vinto perché abbiamo parlato a nome di tutti i lavoratori, compresi quelli italiani. Non a caso, durante gli scioperi abbiamo ricevuto largo sostegno dai lavoratori e disoccupati italiani. Hanno capito che stavamo lottando anche per loro. È questo il modo giusto per affrontare le cose: unire i nuovi poveri, unire gli ultimi e i penultimi. Se noi portiamo avanti queste battaglie disuniti offriremo un alibi ai capitalisti. Il loro motto è sempre lo stesso: dividi et impera.
Imprenditoria della rabbia: significa, forse, che la nuova ventata xenofoba cui si assiste è un tentativo per nascondere e confondere le masse sui reali problemi di questo sistema-Paese?
Certo. Il razzismo che viviamo oggi è un’arma di distrazione di massa utilizzata dall’imprenditoria della rabbia per distogliere l’attenzione dei lavoratori italiani dai veri responsabili della loro condizione sociale. È più facile far passare il principio che i nemici sono i migranti. Ma la nostra risposta deve essere unitaria, le battaglie vanno fatte insieme.
Eppure qualcosa dal 2011 lentamente è cambiato. Basti pensare agli 8 mila processi che si sono avviati sulla base della nuova legge contro il caporalato. Ecco, soffermiamoci un attimo su questa normativa: è un primo passo importante, uno strumento repressivo sicuramente utile che tuttavia non guarda alla complessità della filiera. Sostanzialmente, si inaspriscono le sanzioni contro i caporali, ma non si scardina il sistema.
Hai assolutamente ragione. Lo strumento è limitato, si ferma a tutti i soggetti che concorrono alla fenomenologia criminale del caporalato o che ne sono direttamente interessati. Non interviene a contrastare tutti quelli che alimentano il sistema anche in modo indiretto: in poche parole, il mercato. La politica avrebbe dovuto creare i presupposti per un processo di responsabilizzazione, introducendo meccanismi di certificazione della filiera, dalla produzione alla distribuzione. Quel che manca è un’azione preventiva rispetto alle dinamiche caporali. La repressione è un passo, uno strumento molto importante, ma serve la prevenzione. E la prevenzione passa attraverso la tracciabilità. Solo così si può fare in modo che tutti risultino reciprocamente condizionati: anche i pezzi grossi, le grandi imprese della produzione e della distribuzione.
La verità è che introdurre la tracciabilità implica andare a incidere sugli interessi veri, specie quelli delle grandi compagnie che monopolizzano la filiera. In un contesto, per altro, condizionato alle radici: è sempre possibile sospendere la libera circolazione delle persone, ma mai quella delle merci nel mercato. Il mercato è libero.
Assolutamente vero. Chi parla di tracciabilità vuole regolamentare il mercato. Ma in un sistema in cui lo Stato non riesce o non vuole regolare il mercato, quest’ultimo si regola da solo. In questo momento non esiste un solo strumento che riesca a controllare efficacemente il mercato nelle sue varie forme. Ci sono piccole scintille, piccoli strumenti, come l’etichettatura. Ma ha i suoi limiti, agisce solo su un aspetto, ma non su tutto. Per agire sul tutto, serve un’azione strutturale.
Di fronte all’egemonia del mercato il lavoratore è sempre più solo. Anche perché sta progressivamente venendo meno il ruolo dei corpi intermedi, di quelli che in teoria avrebbero dovuto mediare le istanze provenienti dal basso. Mi riferisco ai sindacati. Per le nuove generazioni i sindacati spesso sono, al più, quegli sportelli cui recarsi per inoltrare domanda di disoccupazione. La dimensione di lotta, di mediazione, di concertazione si sta perdendo. Le associazioni di categoria, impegnate a siglare larghe intese, stanno progressivamente dimenticando le persone?
Questo è uno degli aspetti, una delle cause per cui il mondo del lavoro oggi è in queste condizioni. I corpi intermedi sono venuti meno alla loro funzione primaria, cioè quella di tutelare effettivamente i lavoratori. Una tutela che passa attraverso un’azione di lotta, nel vero senso del termine. Il sindacato non ha saputo reggere la trasformazione epocale che si stava avviando già alla fine degli anni Ottanta con la caduta del muro di Berlino. Non ha saputo trasformarsi per affrontare le nuove sfide. Lo dico senza temere nulla: scendendo a patti con il sistema il sindacato ha fallito il proprio obiettivo. Non si può pensare ai corpi intermedi come organi di sola concertazione. Va bene, la concertazione è importante, bisogna pur mediare, ma fino a un certo punto. L’ago della bilancia, nei rapporti di forza, deve sempre pendere a favore dei lavoratori. Non si accettano i compromessi al ribasso. Non possiamo pensare che il sindacato serva solo a fare i 730, le domande di disoccupazione o i Caf. Ma è questo il meccanismo a cui si è piegato, a questo è stato ridotto. Prima i sindacalisti non perdevano di vista il contatto con le realtà lavorative come quelle, ad esempio, dei ghetti.
Ecco, appunto, i ghetti. Quei luoghi in cui vivono stipati i lavoratori stagionali senza alcuna garanzia, senza alcun diritto, senza alcuna forma di tutela. La Puglia da cui sono partite le tue battaglie, la stessa Regione che già nel 2016 siglava protocolli d’intesa per arginare il fenomeno del caporalato – coadiuvata dalle massime associazioni di categoria – è forse quella maggiormente caratterizzata dal fenomeno della “ghettizzazione massiccia”. Dallo sgombero del Gran Ghetto di Rignano è nato il Gran Ghetto di Borgo Mezzanone. Quanto è centrale l’incontro tra domanda e offerta di lavoro in queste dinamiche?
Il lavoro è assolutamente centrale, tutto il resto è conseguenza del fatto che la legalità nel lavoro viene meno. Il lavoratore che vive nei ghetti, ci resta semplicemente perché i suoi diritti non vengono riconosciuti. Io sono stato un bracciante e ti assicuro che non volevo affatto vivere in quelle condizioni, volevo fittare una casa, avere una vita dignitosa. Ma i miei diritti erano violati, ero pagato a cottimo. Allora, per risolvere il problema dei ghetti, è necessario responsabilizzare le imprese, i datori di lavoro. Le imprese spesso non partecipano ai tavoli istituzionali e tutti i protocolli, di conseguenza, vengono firmati in assenza di una buona fetta della filiera. Nel settore agricolo, le associazioni di categoria che rappresentano gli interessi delle imprese ai tavoli di concertazione, come Coldiretti o Confagricoltura, controllano solo il 30 per cento delle imprese. E non ci assicurano che le aziende, una volta sottoscritti i protocolli, li rispettino.
Se i protocolli non bastano, o nascono depotenziati, che strumenti restano?
Si potrebbe agire, ad esempio, sulle nuove forme di collocamento. Ma anche in questo caso, le opinioni sono divergenti. Anche perché, in questo Paese, persino quando il collocamento pubblico poteva ritenersi efficace resisteva la prassi dell’intermediazione sindacale. Cioè le imprese recuperavano manodopera tra gli iscritti ai sindacati e questi ultimi, da parte loro, operavano una forma di controllo. Ma serve a poco immaginare strumenti ad hoc se chi deve avviare il lavoratore al lavoro, cioè l’impresa, non si assume le proprie responsabilità. La Puglia e la Campania hanno strumenti normativi regionali che favoriscono l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Ma quegli strumenti, senza essere inseriti in una legge-quadro nazionale, non costituiscono un obbligo per le imprese. Parliamoci chiaro: lo Stato non può sostituire l’impresa nel sistema di accoglienza. Nei contratti collettivi di lavoro è scritto a chiare lettere che vitto e alloggio sono a carico dei datori di lavoro. Quindi è una questione di rispetto degli impegni assunti, di rispetto delle regole. Alcuni imprenditori si nascondono usando l’alibi della crisi. Ma anche gli alibi vanno verificati. Lo Stato ha paura di intervenire su mercato e impresa, ma così agisce solo sulle macerie. Bisogna, invece, responsabilizzare le cause.
Certo, questo è probabilmente il modo per invertire la rotta insieme alle realtà positive. Perché ci sono associazioni che nascono puntando a valorizzare l’intera filiera del lavoro, dalla produzione alla distribuzione; che si ispirano a principi e valori sani. Penso alla costituenda associazione internazionale No Cap, di cui tu sei l’ispiratore. È un progetto nuovo, dirompente, che attraverso il bollino etico punta al riconoscimento e alla certificazione dei prodotti.
È un progetto rivoluzionario. Il nostro obiettivo è quello di cambiare il sistema d’impresa e di produzione a livello internazionale. Vogliamo che i nostri principi ispiratori siano i capisaldi di un nuovo modo di concepire il mondo del lavoro. Il bollino etico è uno degli strumenti di cui ci serviremo per premiare quelle imprese che vorranno avviare il percorso virtuoso che stiamo promuovendo. Mi preme sottolineare che il bollino guarda all’intera filiera, dalle imprese della produzione a quelle della distribuzione.
Valorizzazione della filiera corta locale, sostenibilità ambientale, decarbonizzazione, rispetto dei diritti nel lavoro, rifiuti zero e promozione della trasformazione: più che un decalogo, Yvan, quella di No Cap sembra una dichiarazione programmatica d’intenti. È così?
Assolutamente sì. L’eticità del lavoro, l’economia circolare, il rispetto dell’ambiente e della salute pubblica, nonché la valorizzazione della filiera corta, sono i principi fondamentali che assicurano il rispetto di tutto ciò che concorre a formare il “sistema”, quello alternativo che vogliamo promuovere. Questo è quello che oggi serve. Nel nostro percorso ci accompagneranno attivisti esperti in ognuno dei punti del nostro decalogo, che si recheranno tra le imprese per controllare ed esigere il rispetto di questi principi. Solo a quel punto, No Cap rilascerà il bollino etico. Saremo operativi a brevissimo, abbiamo già dei contatti in Francia, Germania, Spagna e anche in alcuni Paesi del Nord Africa, tra cui la Tunisia. Inizieremo a lavorare con questi partner, ma gli obiettivi sono molto più ambiziosi.
No Cap è una realtà emergente, assolutamente positiva, come pure ne esistono tante in Italia. Penso a Casa Sankara e al progetto portato avanti dall’associazione Ghetto-Out in un contesto difficile come quello della Capitanata. O al microcosmo di associazioni e di attivisti che faticano a uscire dai ghetti, quelli dell’informazione. Se la divisione sconfigge in partenza, la soluzione non sta nel creare una rete efficace e pervasiva sui territori?
Casa Sankara è un progetto che nasce dal basso, in un contesto molto difficile, per offrire soluzioni a un territorio in preda alla crisi, alla criminalità organizzata e allo sfruttamento lavorativo in ogni forma. La cosa bella di Casa Sankara è che è stata fondata da un gruppo di ex lavoratori sfruttati che si sono impegnati per passare dalla protesta alla proposta. Erano schiavi, si sono ribellati e alla fine hanno deciso di restare per mettere in campo degli strumenti propositivi. Sono sulla strada giusta, la stessa tracciata da No Cap. Loro, in una realtà piccola, stanno dimostrando che un altro tipo di agricoltura è possibile. Le due cooperative che gestiscono Casa Sankara fanno impresa nel rispetto della legalità. In questo caso, un plauso va fatto anche a quella parte sana delle istituzioni che ha messo a disposizione di questi ragazzi questi preziosissimi 20 ettari di terreno. Questi, insieme a No Cap, i Gruppi di acquisto solidale (Gas), Slow Food, sono i meccanismi che vanno incentivati e sostenuti. E qui ne approfitto per lanciare un appello rivolto alle istituzioni e, soprattutto, ai consumatori. Il nostro Paese è abitato da circa 60 milioni di persone. Tra queste, circa 40 milioni sono consumatori. Fino a quando non ci chiederemo da dove arrivano i prodotti che mangiamo, fin quando non genereremo consapevolezza, sarà molto difficile combattere lo sfruttamento. Ecco perché mi rivolgo a voi: avete un potere enorme, ma non ne siete consapevoli. Tra i prodotti che arrivano sulle nostre tavole, tre su cinque sono stati realizzati attraverso lo sfruttamento, la fatica e l’umiliazione di uno schiavo. Mi rivolgo al consumatore, in questa giornata della Liberazione, perché possa contribuire insieme a noi alla resistenza. Quella resistenza di un sistema nuovo, positivo, che esiste già e aspetta solo di rivelarsi.

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