Gli
ultimi giorni di Mussolini sono una vicenda emblematica di come sia
necessaria, a volte, una cronaca “momento per momento”, un dettaglio
quasi pedante anche sui particolari, da inserire in un’operazione più
ampia, che crediamo sia – in futuro – da estendere necessariamente anche
ad altri episodi della Guerra di Liberazione. Abbiamo scelto di usare
lo stesso approccio della memorialistica revisionista, ovvero
l’insistenza sul dettaglio, con lo scopo – però – di superare il
revisionismo, cioè di “Rivedere (o revisionare) il revisionismo“.
È
infatti indubbio che alcune delle versioni di questi fatti che per
prime uscirono – e vennero adottate come ufficiali nel dopoguerra e fino
ai ’70 – fossero talvolta imprecise o romanzate: la lotta partigiana,
d’altronde, si meritava un’epopea, e l’ebbe. Negli anni 60/70, tuttavia,
vennero pubblicate ricostruzioni complete del periodo della lotta di
Liberazione, adeguatamente integranti la memorialistica di dettaglio in
precedenza uscita: si fa riferimento qui per semplicità ai testi in
[2-5]. A questa si aggiunge l’ulteriore opera di Giorgio Bocca sulla
Repubblica di Mussolini [6], che costituisce, già nel 1995, un esempio
di storiografia che tenne anche in conto delle testimonianze di parte
repubblichina.
Il
luogo comune che “la storia la scrivono i vincitori” è qui fuori luogo.
I partigiani furono dei vinti – anzi dei traditi – quando nel
dopoguerra si ritrovarono in un’Italia democristiana, erede di quella
dei notabili di inizio secolo, nella quale gli ex fascisti si trovavano a
loro pieno agio, dimenticato il loro passato e pienamente accolti fra i
moderati al potere; per i più estremisti, che al fascismo continuavano a
richiamarsi esplicitamente, c’era il MSI, diretto erede della RSI, con
una forte rappresentanza in Parlamento. Dopo tre anni dalla Liberazione,
non vi era, fra i fascisti sopravvissuti alla Resa dei Conti,
praticamente più nessuno in galera.
Non
era quella l’Italia nuova sperata dai partigiani e per la quale essi
avevano combattuto: tuttavia ebbero riconosciuta la loro eredità ideale
nella Costituzione, sebbene essa sia stata in parte disattesa negli
anni. I partigiani poterono perlomeno raccontare, e lo fecero
ampiamente. A partire dagli anni ’80, però, le versioni ufficiali
vennero pian piano erose e smentite da nuova memorialistica e
storiografia, in parte revisionista, il cui contributo iniziale fu
talvolta utile per far emergere particolari e fatti nuovi.
Purtroppo,
queste rivelazioni non vennero fatte da chi aveva partecipato alla
lotta di liberazione fra i partigiani ed era rimasto fedele agli ideali
di allora, inquadrandole in un racconto corretto, come venne fatto ad
esempio in [6], ma spesso da revisionisti di vario genere, mentre troppo
raramente da storici professionisti e “non di parte”, ad esempio [7];
il risultato ultimo è stato di mescolare l’analisi di nuovi particolari e
fatti utili con interpretazioni discutibili, fino ad arrivare ad un
quasi capovolgimento delle versioni originali, in favore di un’altra –
nuova – vulgata.
Quest’ultima
nuova versione revisionista della guerra di Liberazione ha trovato un
certo spazio specialmente fra i giovani, e non soltanto più fra i pochi
neofascisti, anche per la popolarità di opere non appartenenti secondo
noi alla storiografia, ma al romanzetto storico ed alla propaganda
politica mal mascherata, ed alle quali non si concede qui neppure il
riconoscimento di una citazione: ci Pansi qualcun altro, non noi. La
vulgata che ne risultò si può riassumere così: “Quello che ci ha
raccontato la storiografia ufficiale sulla lotta di liberazione è in
buona parte falso, e ciò è stato fatto per coprire la realtà vera dei
fatti. Fra partigiani e fascisti fu una guerra civile e gli uni non
erano molto meglio degli altri. Ci sono poi molti misteri insoluti.”
Ebbene,
è proprio questa nuova vulgata revisionista che va, appunto, smontata:
ma non a parole, bensì con il lavoro sui fatti e anche sui particolari,
proprio quello dal quale è partito il revisionismo, per arrivare però
velocemente alla fantasia, fino ad una vera e propria distorsione della
realtà, assai peggiore della precedente parziale “reticenza” della
storiografia e memorialistica ufficiale.
Riesaminando
invece i fatti, ci si accorge che il grosso delle versioni iniziali di
parte alleata o partigiana era rispondente alla realtà, nella sostanza:
farebbe specie che – uscendo dal ghetto delle fonti neofasciste – il
revisionismo arrivasse a velare la realtà fattuale con una tal cortina
fumogena di illazioni da ridurla a mitologia, nella quale partigiani e
fascisti sono messi sullo stesso piano. Invece – pur nella realtà di un
feroce fine guerra – il comportamento degli antifascisti fu lineare e
del tutto spiegabile ed adatto alle circostanze. Con qualche punto nero,
che non mancheremo mai di rimarcare: ma furono pochi, a fronte di un
nero quasi totale che c’era stato dall’altra parte per oltre un
ventennio.
Se
è pur vero che i morti meritano, di qualunque parte siano, rispetto,
non si può però astenersi dal diritto di critica e condanna delle loro
scelte, azioni, crimini commessi da vivi. Da vivi, non si era tutti
uguali, durante la guerra di Liberazione. E questo va detto e fermamente
mantenuto.
Il
tempo passa non invano. Se, per fare soltanto un esempio Walter Audisio
(il “Colonnello Valerio”, l’esecutore “ufficiale” di Mussolini) non
poté o non volle – 60 o 70 anni fa – raccontare certi dettagli riguardo
quei giorni [8], ciò non vuol dire che Audisio abbia raccontato solo una
bella favola. Riesaminata, la sua versione è molto aderente ai fatti.
Dire questo, al giorno d’oggi, è così poco di moda, da esser ormai
divenuto politically incorrect ed impopolare. Così come era vero
il contrario sessant’anni fa: Giorgio Bocca [6] fece giustamente notare
il fatto che – per almeno un trentennio – la storia della guerra di
Liberazione sia stata scritta puntando l’attenzione su una parte sola.
Certamente, perché l’altra parte faceva così ribrezzo che il suo ricordo
voleva essere seppellito nella coscienza collettiva della nuova Italia.
Ma quanto questa Italia “nuova” era davvero nuova?
Se
consultiamo, nei secondi anni quaranta, i ruolini delle forze
dell’ordine e degli amministratori dello Stato, vediamo come essi siano
ripieni di ex-fascisti, riammessi in ruolo dopo un brevissimo oblio,
silenziosamente. Anzi, ricercati – per quanto riguarda le forze
dell’ordine – e preferiti agli altri. Mentre gli ex-partigiani che,
finita la guerra di Liberazione, videro nell’esercito o nelle forze
dell’ordine un possibile sbocco lavorativo, vennero – sempre
silenziosamente – cacciati pian piano quasi totalmente.
Solo
negli alti gradi della classe politica – ma dal 1948 all’opposizione –
rimasero. Al Governo, ci andarono quelli che nella Resistenza avevano
avuto una parte minima: i democristiani, i socialdemocratici, i
liberali. L’ambiguità, l’attendismo, l’opportunismo trionfarono ancora
una volta.
Il
Governo Italiano, con sede a Roma, ebbe lo stesso spirito della
cosiddetta “resistenza” romana, fatta di grandi stuoli di attendisti che
fecero di Roma l’unica città italiana che non insorse contro il
tedesco. Con l’eccezione di pochi eroi come i gappisti romani, che anzi
dovettero, negli anni del dopoguerra, fronteggiare accuse e processi,
cosa che capitò a molti protagonisti reali della Guerra di Liberazione.
Il “vento del Nord” non prevalse, fu spazzato via dalla calma piatta
degli eredi di Badoglio.
Resistenza
tradita? Giorgio Bocca concluse con un salomonico ma giusto “Resistenza
incompiuta” la sua analisi storiografica del periodo. Noi, si parva
licet, ci permettiamo di proporre un più aderente ai fatti “Resistenza
tollerata”. La tollerarono obtorto collo gli anglo-americani,
la tollerò nel dopoguerra chi stava al Governo d’Italia, cioè in
sostanza i democristiani, la tollerarono ancora gli Stati Uniti dopo il
1945. L’Italia democristiana è riuscita pian piano a dimenticare e far
dimenticare la Resistenza, e successivamente l’ha appiattita ed
annacquata in un abbraccio generale all’insegna del “siamo tutti
fratelli”.
Proprio
per questo è importante, anche a distanza di ormai oltre sette decenni,
documentare. Insistere sui particolari e sull’insieme. Chiarire.
Dirimere. Specialmente con i giovani, che sono le vittime di questa
pluridecennale campagna di disinformazione strisciante. Ed è proprio per
questo motivo che ora va fatta chiarezza: i “misteri” di quel periodo
non sono poi così insolubili, e la loro persistenza, al giorno d’oggi,
non fa più il comodo dei vincitori, ma dei revisionisti. Ai quali va
ribadito quanto abbiamo già scritto: se pure i morti meritano rispetto,
essi – da vivi – non erano tutti uguali. C’era chi – di ogni colore
politico tranne il nero – lottava contro l’invasore e per la libertà, e
c’era invece chi si schierava con una ideologia che – se predicava la
“bella morte” per i propri adepti – procurò invece a milioni di vittime
innocenti la “morte orribile”: quella dei campi di sterminio.
Riferimenti
1. Massimo Zucchetti, Mussolini ultimi giorni, Smashwords editore, ebook 2018.
2. Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Laterza, Bari 1966.
3. Roberto Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1964.
4. Paolo Emilio Taviani, Breve storia della Resistenza italiana, Museo storico della Liberazione, Edizioni Civitas, Roma 1995.
5. Piero Calamandrei, Uomini e città della resistenza, Laterza, Bari 1955, 1977, 2006.
6. Giorgio Bocca, La Repubblica di Mussolini, Mondadori, Milano, 1995.
7. Gianni Oliva, I vinti e i liberati 8 settembre 1943-25 aprile 1945, Mondadori, Milano 1994.
8. Walter Audisio, In nome del popolo italiano, Teti, Milano, 1975.
9. Fonte iconografica: Plus Minus, articolo del 24.4.2015, http://www.rp.pl/galeria/1195863.html (aperto il 27/4/2018).
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