venerdì 27 aprile 2018

Wellcome to the hell: un’esperienza "biblica" nella scuola italiana.

La domanda è: Di cosa hai paura? Alcune risposte: “Ho troppa paura di perdere le persone più importanti della mia vita. Specialmente una”. “Di rimanere solo”. “La solitudine”. “Ho paura della sfiducia e della povertà”. “Io ho paura di rimanere da sola ma soprattutto di essere giudicata dagli altri per ciò che sono”. “La morte”. “Dei giudizi degli altri”. “L’ignoranza”. “Ho paura della morte, ma della vita pure”.


micromega MONICA LANFRANCO

monicalanfrancoI fogli sono tutti spiegazzati, la scrittura in maggior parte a stampatello, sospetto perché non si scrive più, se non i testi sincopati con due dita sullo smartphone. C’è pure un errore imbarazzante: "ho" senza l’acca. Niente, si sa che senza correttore ormai l’italiano è una lingua morta, o opinabile, grammaticalmente parlando.
Wellcome to the hell of italian school.  
Dietro, e oltre, le cronache (annunciate) di ordinaria violenza (indoor) nelle classi e (outdoor) fuori dalla scuola con le aggressioni di genitori verso docenti, seguite da regolari video degli accadimenti sui social, c’è l’irrilevante (a livello mediatico) lavoro quotidiano di decine di insegnanti, che qualche volta provano, con quasi zero appoggio da parte delle burocrazie interne, a inserire sassolini minuscoli negli ingranaggi della violenza relazionale ormai normalizzata.
Eccomi nel Nord Italia, in un istituto professionale: classe del secondo anno di 21 elementi, maggioranza maschi, segnalata come estremamente problematica. Il quadro in sintesi: ripetuti episodi di bullismo, sessismo, omofobia. Dentro e fuori le aule.

Una ragazza nera in classe è stata insultata dai suoi stessi compagni perché nera. Un docente, gay dichiarato e sposato, ha ricevuto pesanti insulti dalla classe. L’episodio più leggero è stato questo: qualche simpaticone gli ha chiesto se, prima del matrimonio, si definiva fidanzato o fidanzata. Uno spasso: almeno non lo hanno menato.
Un’insegnante (eroica) mi contatta: è venuta a sapere del mio lavoro di formazione e presenta alla direzione didattica il progetto che le propongo. Obiettivo: provare, attraverso incontri non frontali e laboratori, in presenza e interattivi, a ragionare con la classe di violenza contro le donne, educazione al rispetto nelle relazioni, uguaglianza, costruendo strumenti che restino alla classe e a quelle a venire.
Secondo il brutto copione al quale sono ormai avvezza il (già ridicolo) budget è pesantemente tagliato, quindi gli incontri si riducono a due rispetto agli almeno quatto previsti.
Due mattine, 8 ore complessive. Come dire il nulla, ma accetto lo stesso perché l’insegnante è davvero motivata e preoccupata, e non si merita che anche io le volti le spalle.
Il corpo, questo sconosciuto
Prima mattina: la classe è al completo. È subito evidente chi siano gli abusanti. Il gruppo è composto da quattro maschi, tra cui spicca un ragazzone che farebbe simpatia, nel suo essere morbido e scoordinato; dimostra molti meno anni nonostante la mole, sembra a disagio in quel corpo imponente nel quale si muove sgraziato e con impaccio evidente.
È un personaggio centrale in questo dramma collettivo: tenetelo a mente, ricorrerà come un elemento importante nell’escalation della narrazione.
Il gruppetto si mette subito in modalità branco, come un corpo solo fatto di molti arti senza coordinamento: si siedono vicini, stravaccati, continuano a spostare le sedie con gran rumore, anche se non ce n'é bisogno. Propongo un gioco con il quale muoversi, vista la difficoltà a mantenere l’attenzione, e qui si presenta la prima criticità: non sanno interagire con le altre persone se non colpendole.
Nessuna capacità di coordinamento. I loro corpi sono un ingombro per loro stessi e quindi anche per chi hanno accanto. La disabilità fisica al contatto empatico echeggia quella organizzativa e relazionale anche a livello d’interazione verbale.
Non sanno parlare a turno, non sanno attendere, non ascoltano, non riescono a stare seduti, in piedi, fermi ma nemmeno il movimento sembra dar loro sollievo.
Tutto è difficilissimo: le ragazze si rifiutano di stare in un piccolo gruppo che non sia solo il loro o, al massimo con due compagni, che non a caso sono i meno offensivi, i ‘secchioni’, comunque non quelli del branco. Ce n’è una palesemente fidanzata: non si sposterà mai dalla sedia vicina a lui, né parteciperà a gruppi senza la sua presenza.
La sensazione è di avere dinnanzi un gruppo di adolescenti disturbati di almeno quattro, cinque anni più giovani: peccato che nel giro di uno o due anni questi soggetti saranno maggiorenni, voteranno, avranno la patente. Ovviamente potrebbero riprodursi domani mattina.
Se per caso questo incipit vi ha fatto preoccupare, occhio che il peggio deve ancora arrivare.
La disconnessione con il corpo, il proprio e l’altrui, è una caratteristica di quasi tutti i ragazzi qui, e di molti che ho incontrato in questi ultimi anni, in scuole diverse, dal classico al professionale. Le ragazze fanno eccezione, sono più consapevoli, dolorosamente. È l’unico dato costante, e fa pensare.
Coetanee dei compagni, eppure più adulte di diversi anni quanto a maturità relazionale, le alunne annuiscono vigorosamente quando tocco il tema della violenza sulle donne.
Dopo la visione del video Parole d’amore chiedo se sia capitato loro di essere apostrofate come nel video, un crescendo di frasi offensive (spesso inconsapevoli) che intossicano la quotidianità del fraseggio in ogni ambito della vita. “Di continuo”, rispondono senza nessuna esitazione.
Ritorno sulla sequenza di Parole d’amore chiedendo se ci siano considerazioni ulteriori.
“Bè, - esordisce uno dei componenti del gruppo di bulli - comunque se la mia ragazza mi tradisce come la devo chiamare? È una puttana!”.
Il consenso sulla definizione, tolte le ragazze e i due maschi considerati secchioni, è unanime. Siamo al tifo da stadio. Il repertorio si snocciola secondo il solco conosciuto: non è puttana solo la traditrice, ma anche una qualunque ragazza con la gonna troppo corta. Il suo è un invito alla molestia: come si fa a non reagire di fronte a tanto ben di Dio in mostra, siamo maschi no? Tutto sto gran parlare di violenza: alla fine non scherziamo, te la cerchi se giri vestita in un certo modo, o se sei da sola in certi posti: mica si può pretendere di passarla liscia con le tette in bella vista. La confusione, nella maggioranza, tra guardare e molestare è totale.
Si passa a parlare di femminicidio: il rimedio è presto trovato. Gettonatissima la pena di morte, o in subordine la castrazione, ma la prima soluzione trova consenso quasi generale.
Grande apprezzamento, a sorpresa, per gli Emirati arabi, dove il cugino di qualcuno una volta ha ritrovato il portafoglio abbandonato al bar. “Era nello stesso identico posto dove lo aveva dimenticato. Lì tagliano le mani, a chi ruba: in Italia mica lo avresti ritrovato”. Ovazione.
Solo un ragazzo prova a far notare che tra il dire le tre parole (pena di morte) e il fare c’è l’abisso della pratica: “Si fa presto a dire pena di morte, tanto la morte non la devi dare tu direttamente”. Ma è una voce isolata.
Propongo a quel punto di fare il cerchio della fiducia, una seconda attività di gioco a gruppi: l’effetto, quasi surreale, è di gettarli nel panico. Non sono capaci nemmeno di immaginare di avere un contatto di sostegno: devo mostrare loro che le mani servono anche ad aiutare, non solo a colpire. Rassicuro la metà dei maschi presenti, che si ostinano a tenere le mani a coppa sui genitali come i giocatori nelle partite di calcio: la proposta, spiego, prevede di tenere le braccia all’altezza delle spalle, tranquilli. Ma ce ne vuole prima che mollino la presa. Un disastro.
Osservando questi giovani vedo le perfette prove incarnate a testimonianza della rottura del patto educativo nel mondo adulto: questi ragazzi e queste ragazze sono figure tragiche, inconsapevoli del rovinoso fallimento dell’educazione scolastica nella scuola pubblica, e della generalizzata inadeguatezza del nucleo educativo primario, la famiglia. Insieme scuola e famiglia sono a loro volta lo specchio di quello che larghe fasce di popolazione sono diventate la nostra società.
Sì: a scuola si studiano, e con fatica, brandelli di italiano, sprazzi di matematica, nozioni assortite d’altro; ma non si insegna, quasi mai, a stare nello spazio e nel tempo con il proprio corpo in relazione con i propri simili. Il che significa, oltre alla drammatica assenza d’insegnamento della storia civile e sociale del paese, dell’educazione civica e quindi della cittadinanza, che non si stanno formando persone adulte consapevoli di diritti e di doveri.
Mi assale una tremenda, e dolente, nostalgia dei diari di Domenico Starnone, che descriveva con umorismo e passione la sua scuola senza cellulari, aule lim, registri elettronici. Per carità: la tecnologia è una benedizione, ma solo se è strumento per accedere a contenuti che fanno germogliare il valore della condivisione e della responsabilità. Altrimenti può diventare assai pericolosa.
Quando terminano queste prime quattro ore ho il cuore sotto le scarpe. Con una sottile vena di sadismo, pur dopo aver dichiarato dall’inizio che non sono una insegnante annuncio che darò un compito a casa. ‘Noooooooo’ è il coro atterrito della classe. Il compito si rivelerà, con generale sollievo e immediata generale indifferenza, essere la risposta anonima alla domanda ‘Di cosa hai paura’: porgo loro il foglietto bianco mentre suona la campanella. Con gran rumore e fretta lo sconnesso gruppo inforca la porta e scompare.
Le parole dell’ignoranza e dell’odio
Il secondo giorno li ritrovo leggermente più tranquilli, ma sarà il momento di raccogliere le risposte e mostrare loro qualche materiale scomodo.
Qualche lieve incrinatura d’imbarazzata sorpresa, che potrebbe preludere al baluginare di un pensiero, forse quasi di un dubbio, la noto mentre mostro Amore dimmelo. Nel video ci sono i padri e le madri di ragazzi e ragazze omosessuali che parlano. Magari, penso, vedere degli adulti che prendono parola, manifestando amore, desiderio di capire e difficoltà li spiazzerà.
Il ragazzone rumoroso, che si è alzato già parecchie volte nel corso della mattina, interviene un po’ spaesato. “Però anche a loro sembrava ci fosse qualcosa che non andava nel figlio o nella figlia gay. L’omosessualità non è una cosa normale. Io ho avuto un’educazione biblica, quello che è giusto è donna con uomo. Questa è la mia opinione”. La classe si anima, con la consueta caciara, ma questa volta tutti stano dicendo la stessa cosa: “Biblica? Cos’è”? Manca poco che qualcuno aggiunga: “Roba che si mangia”?
Il vostro compagno sta parlando della Bibbia - spiego. È il libro maestro dell’ebraismo.
Il giovane allevato secondo le Tavole continua a chiarire il suo punto di vista: ora ha voglia di parlare e di essere ascoltato. La famiglia normale per lui è solo quella tra un uomo e una donna. Punto. Tutto il resto è anormale. Quando ha finito gli faccio notare che ogni opinione è legittima, ma che le opinioni possono cambiare con l’evolvere della storia. Evidenzio alla classe che solo qualche decennio fa le donne, secondo l’opinione di molti, era bene e giusto e normale che non lavorassero, non studiassero, non uscissero dall’ambito domestico, non esistessero per la legge, che fossero minori anche da adulte. Aggiungo poi che in molti luoghi del mondo le donne sono ancora oggi private di diritti e di uguaglianza, e che in alcuni paesi chi è omosessuale rischia la pena di morte. Non sembra che questo li colpisca.
Non vi ho detto che il ragazzone è figliolo della sua mamma; mamma che, mi aveva informato l’insegnante poco prima di entrare ieri in classe, ha sentenziato, nella riunione illustrativa del progetto: “Sia chiaro: se negli incontri si dirà che l’omosessualità è una cosa normale mio figlio lo tengo a casa”.
Parto con il video Italia è arrivato il momento. Il ragazzone, quando il filmato svela che la love story tra un lui e una lei è in realtà la doppia storia di due coppie, una lesbica e l’altra gay, si alza con grande rumore di sedia trascinata e lascia l’aula.
Alla fine di questa esperienza sono convinta che oltre, e accanto, all’arroganza e al disprezzo evidenti, che asseverano la maschera del duro viriloide e mainstream, ci sia in lui (come in molti altri) la profonda paura di tutto quello che esce anche solo di un centimetro dal binario delle certezze superficiali e respingenti apprese in famiglia, e poi dalla tv generalista e infine dai social imbevuti di odio veicolato attraverso il dictat del ‘fatti una risata’: di solito è una risata di dileggio a scapito di qualcuno.
L’omofobia e il razzismo che sono circolati in questi due giorni trovano alimento in una concezione sessista e rozza della primaria relazione tra donne e uomini che, in questa classe come in molte che ho visitato in questi anni, è storicamente precedente agli anni ’70.
Suona come un’assurdità, eppure è proprio così. La visione culturale e sociale dei due sessi, pur presenti in questa comunità, è ancora quella le cui regole di ingaggio erano dettate dalla rigida armatura del patriarcato prima del femminismo. È un’Italia anni ’50, con un aspetto contemporaneo soltanto esteriore: è come se la storia recente non fosse mai entrata né nelle loro case né nelle aule di scuola.
Sì, le ragazze sono sedute lì, e ci sono pure le docenti: è possibile che molte loro madri lavorino fuori casa, qualche donna in posti di prestigio sociale l’avranno pure vista. Quello che ho avuto davanti, però, per dirla con Gaber, è che questi giovani sembrano arrivare dritti dall’800, non dal secolo scorso.
Nudi, simbolicamente e forse pure in realtà, al netto degli orpelli materiali e caratteristici di questo nuovo secolo tecnologico, sono persone ottocentesche, e nemmeno delle più aperte.
Tolti due spiritosi, che alla domanda su cosa temessero hanno risposto ‘i ragni’ e ‘le bionde’, penso che abbiano davvero ragione a temere la solitudine: il mondo che hanno raccontato in otto ore, due mattine a scuola, così privo di curiosità, empatia, voglia di ragionare sui diritti, la libertà e quindi la gioia, è il mondo delle persone opache, ottuse e senza qualità che li stanno allevando, a casa e fuori casa; sono i nostri figli e figlie, ai quali è evidente abbiamo smesso di insegnare il valore della responsabilità, del rispetto e forse anche della bellezza, perché gli abbiamo detto che prima vengono il denaro, se possibile il colpire prima e l’essere furbi a scapito di non importa chi.
Sono giovani pieni di oggetti, magari anche molto costosi, ma vivono in una pericolosa e desolante miseria simbolica, spirituale e politica.
Mi consolo pensando che può andare meglio di così, il che è anche vero. Esperienze anche recenti mi hanno mostrato classi e comunità scolastiche vivaci e aperte, relazioni tra adulti e giovani generazioni feconde e promettenti, ma continuo a sentire il cuore sotto le scarpe, e provo sollievo quando esco dall’aula. Compatisco, e ammiro, l’eroica prof. che ogni giorno lotta per dare un senso al suo svegliarsi ogni mattina per provare a portare il pensiero critico dove si fa fatica anche a portare il pensiero. E basta.
Monica Lanfranco
(24 aprile 2018)

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