La
domanda è: Di cosa hai paura? Alcune risposte: “Ho troppa paura di
perdere le persone più importanti della mia vita. Specialmente una”. “Di
rimanere solo”. “La solitudine”. “Ho paura della sfiducia e della
povertà”. “Io ho paura di rimanere da sola ma soprattutto di essere
giudicata dagli altri per ciò che sono”. “La morte”. “Dei giudizi degli
altri”. “L’ignoranza”. “Ho paura della morte, ma della vita pure”.
micromega MONICA LANFRANCO
I fogli sono tutti spiegazzati, la
scrittura in maggior parte a stampatello, sospetto perché non si scrive
più, se non i testi sincopati con due dita sullo smartphone. C’è pure un
errore imbarazzante: "ho" senza l’acca. Niente, si sa che senza
correttore ormai l’italiano è una lingua morta, o opinabile,
grammaticalmente parlando.
Wellcome to the hell of italian school.
Dietro, e oltre, le cronache (annunciate) di ordinaria violenza (indoor) nelle classi e (outdoor)
fuori dalla scuola con le aggressioni di genitori verso docenti,
seguite da regolari video degli accadimenti sui social, c’è
l’irrilevante (a livello mediatico) lavoro quotidiano di decine di
insegnanti, che qualche volta provano, con quasi zero appoggio da parte
delle burocrazie interne, a inserire sassolini minuscoli negli
ingranaggi della violenza relazionale ormai normalizzata.
Eccomi nel Nord Italia, in un istituto
professionale: classe del secondo anno di 21 elementi, maggioranza
maschi, segnalata come estremamente problematica. Il quadro in sintesi:
ripetuti episodi di bullismo, sessismo, omofobia. Dentro e fuori le
aule.
Una ragazza nera in classe è stata
insultata dai suoi stessi compagni perché nera. Un docente, gay
dichiarato e sposato, ha ricevuto pesanti insulti dalla classe.
L’episodio più leggero è stato questo: qualche simpaticone gli ha
chiesto se, prima del matrimonio, si definiva fidanzato o fidanzata. Uno spasso: almeno non lo hanno menato.
Un’insegnante (eroica) mi contatta: è
venuta a sapere del mio lavoro di formazione e presenta alla direzione
didattica il progetto che le propongo. Obiettivo: provare, attraverso
incontri non frontali e laboratori, in presenza e interattivi, a
ragionare con la classe di violenza contro le donne, educazione al
rispetto nelle relazioni, uguaglianza, costruendo strumenti che restino
alla classe e a quelle a venire.
Secondo il brutto copione al quale sono
ormai avvezza il (già ridicolo) budget è pesantemente tagliato, quindi
gli incontri si riducono a due rispetto agli almeno quatto previsti.
Due mattine, 8 ore complessive. Come dire
il nulla, ma accetto lo stesso perché l’insegnante è davvero motivata e
preoccupata, e non si merita che anche io le volti le spalle.
Il corpo, questo sconosciuto
Prima mattina: la classe è al completo. È
subito evidente chi siano gli abusanti. Il gruppo è composto da quattro
maschi, tra cui spicca un ragazzone che farebbe simpatia, nel suo
essere morbido e scoordinato; dimostra molti meno anni nonostante la
mole, sembra a disagio in quel corpo imponente nel quale si muove
sgraziato e con impaccio evidente.
È un personaggio centrale in questo
dramma collettivo: tenetelo a mente, ricorrerà come un elemento
importante nell’escalation della narrazione.
Il gruppetto si mette subito in modalità
branco, come un corpo solo fatto di molti arti senza coordinamento: si
siedono vicini, stravaccati, continuano a spostare le sedie con gran
rumore, anche se non ce n'é bisogno. Propongo un gioco con il quale
muoversi, vista la difficoltà a mantenere l’attenzione, e qui si
presenta la prima criticità: non sanno interagire con le altre persone
se non colpendole.
Nessuna capacità di coordinamento. I loro
corpi sono un ingombro per loro stessi e quindi anche per chi hanno
accanto. La disabilità fisica al contatto empatico echeggia quella
organizzativa e relazionale anche a livello d’interazione verbale.
Non sanno parlare a turno, non sanno
attendere, non ascoltano, non riescono a stare seduti, in piedi, fermi
ma nemmeno il movimento sembra dar loro sollievo.
Tutto è difficilissimo: le ragazze si
rifiutano di stare in un piccolo gruppo che non sia solo il loro o, al
massimo con due compagni, che non a caso sono i meno offensivi, i
‘secchioni’, comunque non quelli del branco. Ce n’è una palesemente
fidanzata: non si sposterà mai dalla sedia vicina a lui, né parteciperà a
gruppi senza la sua presenza.
La sensazione è di avere dinnanzi un
gruppo di adolescenti disturbati di almeno quattro, cinque anni più
giovani: peccato che nel giro di uno o due anni questi soggetti saranno
maggiorenni, voteranno, avranno la patente. Ovviamente potrebbero
riprodursi domani mattina.
Se per caso questo incipit vi ha fatto preoccupare, occhio che il peggio deve ancora arrivare.
La disconnessione con il corpo, il
proprio e l’altrui, è una caratteristica di quasi tutti i ragazzi qui, e
di molti che ho incontrato in questi ultimi anni, in scuole diverse,
dal classico al professionale. Le ragazze fanno eccezione, sono più
consapevoli, dolorosamente. È l’unico dato costante, e fa pensare.
Coetanee dei compagni, eppure più adulte
di diversi anni quanto a maturità relazionale, le alunne annuiscono
vigorosamente quando tocco il tema della violenza sulle donne.
Dopo la visione del video Parole d’amore
chiedo se sia capitato loro di essere apostrofate come nel video, un
crescendo di frasi offensive (spesso inconsapevoli) che intossicano la
quotidianità del fraseggio in ogni ambito della vita. “Di continuo”,
rispondono senza nessuna esitazione.
Ritorno sulla sequenza di Parole d’amore chiedendo se ci siano considerazioni ulteriori.
“Bè, - esordisce uno dei componenti del
gruppo di bulli - comunque se la mia ragazza mi tradisce come la devo
chiamare? È una puttana!”.
Il consenso sulla definizione, tolte le
ragazze e i due maschi considerati secchioni, è unanime. Siamo al tifo
da stadio. Il repertorio si snocciola secondo il solco conosciuto: non è
puttana solo la traditrice, ma anche una qualunque ragazza con la gonna
troppo corta. Il suo è un invito alla molestia: come si fa a non
reagire di fronte a tanto ben di Dio in mostra, siamo maschi no? Tutto
sto gran parlare di violenza: alla fine non scherziamo, te la cerchi se
giri vestita in un certo modo, o se sei da sola in certi posti: mica si
può pretendere di passarla liscia con le tette in bella vista. La
confusione, nella maggioranza, tra guardare e molestare è totale.
Si passa a parlare di femminicidio: il
rimedio è presto trovato. Gettonatissima la pena di morte, o in
subordine la castrazione, ma la prima soluzione trova consenso quasi
generale.
Grande apprezzamento, a sorpresa, per gli
Emirati arabi, dove il cugino di qualcuno una volta ha ritrovato il
portafoglio abbandonato al bar. “Era nello stesso identico posto dove lo
aveva dimenticato. Lì tagliano le mani, a chi ruba: in Italia mica lo
avresti ritrovato”. Ovazione.
Solo un ragazzo prova a far notare che
tra il dire le tre parole (pena di morte) e il fare c’è l’abisso della
pratica: “Si fa presto a dire pena di morte, tanto la morte non la devi dare tu direttamente”. Ma è una voce isolata.
Propongo a quel punto di fare il cerchio della fiducia,
una seconda attività di gioco a gruppi: l’effetto, quasi surreale, è di
gettarli nel panico. Non sono capaci nemmeno di immaginare di avere un
contatto di sostegno: devo mostrare loro che le mani servono anche
ad aiutare, non solo a colpire. Rassicuro la metà dei maschi presenti,
che si ostinano a tenere le mani a coppa sui genitali come i giocatori
nelle partite di calcio: la proposta, spiego, prevede di tenere le
braccia all’altezza delle spalle, tranquilli. Ma ce ne vuole prima che
mollino la presa. Un disastro.
Osservando questi giovani vedo le
perfette prove incarnate a testimonianza della rottura del patto
educativo nel mondo adulto: questi ragazzi e queste ragazze sono figure
tragiche, inconsapevoli del rovinoso fallimento dell’educazione
scolastica nella scuola pubblica, e della generalizzata inadeguatezza
del nucleo educativo primario, la famiglia. Insieme scuola e famiglia
sono a loro volta lo specchio di quello che larghe fasce di popolazione
sono diventate la nostra società.
Sì: a scuola si studiano, e con fatica,
brandelli di italiano, sprazzi di matematica, nozioni assortite d’altro;
ma non si insegna, quasi mai, a stare nello spazio e nel tempo con il
proprio corpo in relazione con i propri simili. Il che significa, oltre
alla drammatica assenza d’insegnamento della storia civile e sociale del
paese, dell’educazione civica e quindi della cittadinanza, che non si
stanno formando persone adulte consapevoli di diritti e di doveri.
Mi assale una tremenda, e dolente,
nostalgia dei diari di Domenico Starnone, che descriveva con umorismo e
passione la sua scuola senza cellulari, aule lim, registri elettronici.
Per carità: la tecnologia è una benedizione, ma solo se è strumento per
accedere a contenuti che fanno germogliare il valore della condivisione e
della responsabilità. Altrimenti può diventare assai pericolosa.
Quando terminano queste prime quattro ore
ho il cuore sotto le scarpe. Con una sottile vena di sadismo, pur dopo
aver dichiarato dall’inizio che non sono una insegnante annuncio che
darò un compito a casa. ‘Noooooooo’ è il coro atterrito della classe. Il
compito si rivelerà, con generale sollievo e immediata generale
indifferenza, essere la risposta anonima alla domanda ‘Di cosa hai
paura’: porgo loro il foglietto bianco mentre suona la campanella. Con
gran rumore e fretta lo sconnesso gruppo inforca la porta e scompare.
Le parole dell’ignoranza e dell’odio
Il secondo giorno li ritrovo leggermente
più tranquilli, ma sarà il momento di raccogliere le risposte e mostrare
loro qualche materiale scomodo.
Qualche lieve incrinatura d’imbarazzata
sorpresa, che potrebbe preludere al baluginare di un pensiero, forse
quasi di un dubbio, la noto mentre mostro Amore dimmelo. Nel
video ci sono i padri e le madri di ragazzi e ragazze omosessuali che
parlano. Magari, penso, vedere degli adulti che prendono parola,
manifestando amore, desiderio di capire e difficoltà li spiazzerà.
Il ragazzone rumoroso, che si è alzato
già parecchie volte nel corso della mattina, interviene un po’ spaesato.
“Però anche a loro sembrava ci fosse qualcosa che non andava nel figlio
o nella figlia gay. L’omosessualità non è una cosa normale. Io ho avuto
un’educazione biblica, quello che è giusto è donna con uomo. Questa è
la mia opinione”. La classe si anima, con la consueta caciara, ma questa
volta tutti stano dicendo la stessa cosa: “Biblica? Cos’è”? Manca poco
che qualcuno aggiunga: “Roba che si mangia”?
Il vostro compagno sta parlando della Bibbia - spiego. È il libro maestro dell’ebraismo.
Il giovane allevato secondo le Tavole
continua a chiarire il suo punto di vista: ora ha voglia di parlare e di
essere ascoltato. La famiglia normale per lui è solo quella
tra un uomo e una donna. Punto. Tutto il resto è anormale. Quando ha
finito gli faccio notare che ogni opinione è legittima, ma che le
opinioni possono cambiare con l’evolvere della storia. Evidenzio alla
classe che solo qualche decennio fa le donne, secondo l’opinione di
molti, era bene e giusto e normale che non lavorassero, non studiassero,
non uscissero dall’ambito domestico, non esistessero per la legge, che
fossero minori anche da adulte. Aggiungo poi che in molti luoghi del
mondo le donne sono ancora oggi private di diritti e di uguaglianza, e
che in alcuni paesi chi è omosessuale rischia la pena di morte. Non
sembra che questo li colpisca.
Non vi ho detto che il ragazzone è
figliolo della sua mamma; mamma che, mi aveva informato l’insegnante
poco prima di entrare ieri in classe, ha sentenziato, nella riunione
illustrativa del progetto: “Sia chiaro: se negli incontri si dirà che
l’omosessualità è una cosa normale mio figlio lo tengo a casa”.
Parto con il video Italia è arrivato il momento. Il ragazzone, quando il filmato svela che la love story
tra un lui e una lei è in realtà la doppia storia di due coppie, una
lesbica e l’altra gay, si alza con grande rumore di sedia trascinata e
lascia l’aula.
Alla fine di questa esperienza sono
convinta che oltre, e accanto, all’arroganza e al disprezzo evidenti,
che asseverano la maschera del duro viriloide e mainstream, ci
sia in lui (come in molti altri) la profonda paura di tutto quello che
esce anche solo di un centimetro dal binario delle certezze superficiali
e respingenti apprese in famiglia, e poi dalla tv generalista e infine
dai social imbevuti di odio veicolato attraverso il dictat del ‘fatti
una risata’: di solito è una risata di dileggio a scapito di qualcuno.
L’omofobia e il razzismo che sono
circolati in questi due giorni trovano alimento in una concezione
sessista e rozza della primaria relazione tra donne e uomini che, in
questa classe come in molte che ho visitato in questi anni, è
storicamente precedente agli anni ’70.
Suona come un’assurdità, eppure è proprio
così. La visione culturale e sociale dei due sessi, pur presenti in
questa comunità, è ancora quella le cui regole di ingaggio erano dettate
dalla rigida armatura del patriarcato prima del femminismo. È un’Italia
anni ’50, con un aspetto contemporaneo soltanto esteriore: è come se la
storia recente non fosse mai entrata né nelle loro case né nelle aule
di scuola.
Sì, le ragazze sono sedute lì, e ci sono
pure le docenti: è possibile che molte loro madri lavorino fuori casa,
qualche donna in posti di prestigio sociale l’avranno pure vista. Quello
che ho avuto davanti, però, per dirla con Gaber, è che questi giovani
sembrano arrivare dritti dall’800, non dal secolo scorso.
Nudi, simbolicamente e forse pure in
realtà, al netto degli orpelli materiali e caratteristici di questo
nuovo secolo tecnologico, sono persone ottocentesche, e nemmeno delle
più aperte.
Tolti due spiritosi, che alla domanda su
cosa temessero hanno risposto ‘i ragni’ e ‘le bionde’, penso che abbiano
davvero ragione a temere la solitudine: il mondo che hanno raccontato
in otto ore, due mattine a scuola, così privo di curiosità, empatia,
voglia di ragionare sui diritti, la libertà e quindi la gioia, è il
mondo delle persone opache, ottuse e senza qualità che li stanno
allevando, a casa e fuori casa; sono i nostri figli e figlie, ai quali è
evidente abbiamo smesso di insegnare il valore della responsabilità,
del rispetto e forse anche della bellezza, perché gli abbiamo detto che
prima vengono il denaro, se possibile il colpire prima e l’essere furbi
a scapito di non importa chi.
Sono giovani pieni di oggetti, magari
anche molto costosi, ma vivono in una pericolosa e desolante miseria
simbolica, spirituale e politica.
Mi consolo pensando che può andare meglio
di così, il che è anche vero. Esperienze anche recenti mi hanno
mostrato classi e comunità scolastiche vivaci e aperte, relazioni tra
adulti e giovani generazioni feconde e promettenti, ma continuo a
sentire il cuore sotto le scarpe, e provo sollievo quando esco
dall’aula. Compatisco, e ammiro, l’eroica prof. che ogni giorno lotta
per dare un senso al suo svegliarsi ogni mattina per provare a portare
il pensiero critico dove si fa fatica anche a portare il pensiero. E
basta.
Monica Lanfranco
(24 aprile 2018)
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