L’ipotesi
complottista di un burattinaio occulto capace di costruire
l’immaginario collettivo, o di pilotare le dinamiche strangolanti
dell’economia mondiale, somiglia molto a un teorema privo di fondamento
e, francamente, scevro di credibilità.
Le strutture sociali, i progressi
tecnologici, i residui di passato e le azioni di singoli o gruppi, si
incrociano producendo effetti non sempre prevedibili. Tuttavia, chi li
studia a posteriori tende a tracciarne l’evoluzione come se si trattasse
di una dinamica univoca e di facile lettura. Siamo noi, con le nostre
analisi, a disegnare la linearità dei processi storici. Perché li
srotoliamo a partire dal punto d’arrivo.
Tuttavia, questo lavoro archeologico di scavo tra le tracce di un
sistema di trasformazioni è necessario e interessante, sebbene non debba
cadere nel tranello della presunta intenzionalità (nel senso
psicologico del termine), per riconoscere l’impersonalità delle
dinamiche sociali. Il che non deresponsabilizza affatto chi quei
processi è deputato a governare e controllare, né chi alimenta le crisi
più drammatiche per trarne profitti personali.
Partiamo da un esempio concreto. In un loro recente lavoro, Federico Chicchi e Anna Simone hanno studiato La società della prestazione
(Ediesse, 2017). Analizzando in modo sistematico letteratura
scientifica e dati empirici, essi rintracciano, come linea di sviluppo
sociale degli ultimi decenni, il passaggio dalla società salariale alla
società prestazionale. I primi processi di precarizzazione del lavoro
hanno universalizzato una condizione (con aggregata retorica)
precedentemente propria dei lavoratori autonomi e della dimensione
d’impresa. In particolare la piccola impresa. La trasformazione del
mercato del lavoro, con annessa sovrastruttura ideologica
rapidissimamente capace di penetrare linguaggi e modelli, ha sgretolato
tutto, e tale frammentazione sociale si configura come dato talmente
evidente, che i nostri contemporanei hanno dimenticato che sia frutto di
un passaggio epocale.
Come Marx aveva ben spiegato in merito alla capacità feticistica del
capitalismo di immobilizzare in una dimensione astorica pezzi di mondo
che sono invece il frutto di un processo, anche oggi la società
prestazionale sembrerebbe ai molti esistente da sempre, ovvia, naturale.
E invece, appena qualche decennio fa, le cose non stavano affatto nei
termini in cui le descriviamo oggi. A partire dagli anni Ottanta e
Novanta (e negli Stati Uniti con qualche anno di anticipo), in una
progressiva trasformazione delle condizioni contrattuali, del lessico
condiviso e dell’immaginario sociale, tutti gli individui sono spinti a
percepirsi come capitalisti di sé stessi, detentori del proprio capitale
umano.Cosa significa? Apparentemente siamo noi a gestire la formazione e il potenziamento delle nostre capacità e competenze; stiamo sul mercato, gestendo noi stessi come merce capace di produrre valore. In fondo, poi, era questo l’ideale illuminista, il cuore della sensibilità moderna, almeno velatamente realizzatosi con un paio di secoli di ritardo. Superati i privilegi nobiliari, avrebbero dovuto essere talenti e virtù individuali a definire i meriti per l’accesso alle posizioni più importanti nella struttura sociale. Ma per arrivarci siamo dovuti passare attraverso quasi due secoli di sfruttamento selvaggio delle classi operaie, fino a renderci conto, dopo aver toccato il fondo dell’autoritarismo organizzativo con il fordismo, che attraverso la teoria delle risorse umane (pensiamo a Elton Mayo) non solo si aumenta la produttività e si riduce il conflitto sociale, ma in parte è possibile recuperare gli ideali liberali illuministi. Naturalmente questo è un paradosso, o meglio un’illusione, perché oggi la differenza di posizione nella gerarchia sociale tra il più ricco dei borghesi e il più fragile dei lavoratori salariati è immensamente più ampia rispetto al primo Ottocento.
La valorizzazione del capitale umano e l’esaltazione del merito individuale finiscono per rivelarsi la più clamorosa ingiustizia compiuta in nome della giustizia.
In ogni caso, se il salariato per incantesimo è trasformato in un capitalista di sé stesso, non si percepisce più come un proletario. Un giovane in difficoltà che per andare avanti macina chilometri in bicicletta a consegnare pizze e tortellini è in realtà un intraprendente procacciatore di affari, che deve mostrare tutte le proprie skills per stare sul mercato.
Così commentava Robert Castel già nel 1981: “Il potenziale umano – al contempo personale e relazionale – è infatti un capitale oggettivabile che si coltiva al fine di diventare più ‘performanti’ nella socievolezza, nel lavoro o nel godimento” (p. 67).
Chi non trova lavoro, è perché non ha adeguatamente lavorato sull’affinamento di abilità sociali e nella costruzione di reti relazionali efficaci.
I processi sono sempre più globalizzati, i fallimenti e i meriti risultano percepiti in forma estremamente individualizzata.
È veramente incredibile quanto siamo capaci di accogliere nella nostra coscienza questa assoluta incongruenza logica e farla nostra, al punto da pagare le conseguenze psicologiche degli insuccessi o fondare la nostra autostima su un sistema discutibile di meriti guadagnati.
Non siamo di fronte a un progetto diabolico meditato a tavolino da un crocchio di nevrotici capitalisti. Questa è una dinamica sociale, è un’evoluzione forse ineludibile, forse accidentale, di quanto è derivato nel Novecento dall’interazione tra le nostre strutture politiche, economiche e culturali.
Occorre accettare questa trasformazione e, come direbbe Foucault, imparare a “vivere pericolosamente”? Dobbiamo dunque assumere come posa esistenziale il profilo del manager? Certo, rifiutarsi di stare dentro questo schema sociale è pericoloso, poiché velleitario.
Hegelianamente, ipotizzare di potersi sottrarre al proprio tempo storico è assurdo quanto lo sarebbe tentar di uscire dalla propria pelle.
Però cercare di capire meglio il sistema e starci dentro con consapevolezza è un primo passo verso il cambiamento, verso la correzione di errori insidiosi.
Il fatto è che questo processo è stato estremamente rapido, ed è difficile da decifrare per molti di noi. Poniamo il caso dei contesti educativi: scuola e università. Il protocollo di Lisbona raccomanda di trasmettere ai giovani lo spirito di iniziativa e imprenditorialità. In che modo? E perché?
Nella società salariale risultava dominante l’apprendimento di disciplina e auto-disciplina. Chi studiava avvertiva su di sé l’imperativo del dovere e non concepiva opzioni. Anche lo studente oppositivo, che magari boicottava le lezioni o marinava la scuola, riconosceva la sua come una trasgressione a un sistema disciplinare legittimato dalla società. Come si sarebbe detto fino a qualche anno fa? Impara ad obbedire al professore e domani non soffrirai sul posto di lavoro. Accetta l’autorità, sacrificati, e potrai resistere nella società del lavoro subordinato fordista.
Oggi questo orizzonte assiologico si è diradato. I giovani non concepiscono quasi per nulla l’idea del dovere per il dovere e non si piegano facilmente alla disciplina. E in fondo alcuni docenti e genitori hanno giustamente smesso di spingere su quel tasto, perché nella società occidentale contemporanea sono altre le competenze necessarie. La resilienza, si dice. Imparare a incassare e risollevarsi. Imparare ad imparare, suggerisce l’Unione Europea. Così lo spiegano gli autori de La società della prestazione:
“il soggetto sgravato dai dispositivi disciplinari che lo inserivano rigidamente nei contesti di ruolo della gerarchia sociale del moderno, calato all’interno dei nuovi dispositivi di performance e impermanenza, si illude di essere più libero e autonomo nelle scelte. Ecco allora […] che i nuovi e differenti format televisivi (Il Grande Fratello, X Factor, Master Chef, ecc.) ci propongono e costruiscono una sorta di arena pedagogica della competizione, dove l’intento è portare lo spettatore a introiettare, attraverso l’identificazione con i concorrenti, una logica della prestazione e della concorrenza” (p. 73).
Tornando all’esempio degli istituti educativi, se la disciplina non funziona, come suggerisce lo stesso MIUR, diventa indispensabile ricorrere a strumenti di lavoro più “accattivanti”, e per i docenti regna l’imperativo dell’intercettare i fattori motivazionali. Ed è vero: così come oggi difficilmente si compie lo sforzo di informarsi senza un minimo di intrattenimento giornalistico, così non si avvia il motore della conoscenza se l’education non si trasforma in edutainment. Anche questo è un meccanismo tipico della società prestazionale, ed è indicato come “gamification”, consistente nel trovare strategie per rendere appetibili attività tradizionalmente ritenute noiose e faticose.
Fin qui tutto sommato chi agisce nella società ed è animato da un atteggiamento critico o diffidente nei confronti del “portato storico” di questo mutamento di lungo periodo, ma recentemente accelerato, non deve fare altro che adeguarsi al nuovo sistema cognitivo-emotivo, proprio e dei propri contemporanei, per sintonizzarsi sullo spirito del tempo. L’importante è che ne cavalchi i mezzi per produrne una comprensione critica e traghettare la riflessione a livelli profondi. Un’ottusa resistenza alla trasformazione equivale a ostinarsi a parlare una lingua desueta per lamentarsi di non essere compresi. Assumere e padroneggiare un nuovo slang per agganciarsi al sistema di vita che l’ha generato, senza orientare verso una consapevolezza storica dei processi che l’hanno prodotto, è invece una mera operazione di reiterazione e legittimazione dei rapporti di dominio esistenti.
Scegliere di assecondare i processi di formazione all’autoimprenditorialità per agganciarvi contenuti e veicoli di approfondimento critico è una scelta legittima e comprensibile, sebbene molto rischiosa, occorre saperlo. L’unica strada percorribile, per gli educatori, parrebbe quella di intercettare linguaggi e dinamiche motivazionali ormai strutturali al sistema d’apprendimento delle nuove generazioni, per orientarle verso esperienze cognitive e letture d’approfondimento capaci non solo di conoscere, ma eventualmente di oltrepassare le frontiere assiologiche del proprio tempo. Ma percorrere questa strada prevede alcuni rischi di gestione, poiché significa fare perno su quel culto della performance che sembrerebbe essere l’unico canale possibile per mantenere una propria credibilità e risultare comprensibile nelle attuali condizioni storiche. Tirarsene completamente fuori implicherebbe condannarsi all’irrilevanza. Agire in questi schemi significa dover padroneggiare anche strategie di lavoro per prevenire e bilanciare gli effetti psicologici nefasti della cultura manageriale.
A questo è infatti dedicato l’importante capitolo sulle psicopatologie della prestazione. Questo nuovo modello gestionale, infatti, ha prodotto alcune conseguenze deleterie nell’equilibrio psicologico di gran parte della popolazione, e promette peggioramenti. Il modello performante traslato dall’ingegneria delle risorse umane a ogni ambito della vista sociale, ha visto esplodere l’iper-valutatività. Il bisogno cioè di misurare e valutare qualunque cosa sia esprimibile in numeri, per ponderarne qualità, crescita, indici di sviluppo, e quant’altro. L’effetto inevitabile è quello competitivo, alimentando ossessive aspettative nei confronti di sé stessi e degli altri, ma anche di dover rendere ogni nostro impiego temporale, come anche ogni relazione interpersonale, utili a qualcosa, funzionali in certo modo alla costruzione del sé. È il dogma dell’empowerment. Se non ti potenzi, soccombi; se emerge una tua fragilità, you’re fired. I giovani, spiegano gli autori de La società della prestazione, sono sempre più esposti a disturbi d’ansia e di tipo depressivo.
L’eccesso di valutazione ha già sconfinato oltre il perimetro dell’impresa. E tale meccanismo tende a reiterarsi e crescere a dismisura, perché apparentemente neutro, non ideologico ed efficace. In realtà non è nulla di tutto questo, ma tale riesce ad apparire. Chicchi e Simone osservano: “siamo convinti che il precisarsi della società della prestazione abbia l’effetto di produrre gravi effetti di tossicità sulla soggettività in formazione” – e questa tossicità è da intendere come “difficoltà a mettere in relazione la dimensione più propriamente sociale della propria esistenza con quella del progetto individuale” (p. 85).
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