Sedicesimo anno dell’era invalsiana. Era infatti il 2002 quando l’INVALSI propose le prove come progetto-pilota a base campionaria: di lingua[1], matematica, scienze. Quale fosse il momento dell’età evolutiva e scolastica per saggiare le performances infantili ancora non era chiaro all’Istituto neonato, e solo successivamente si decise per la seconda e la quinta primaria. Una scelta per ciclicità piagettiane, si presume. Presunzione perché l’INVALSI non paga debiti a nessuno: inventa un mondo, una pedagogia, una didattica. A cascata i test arriveranno per le altre platee studentesche dell’obbligo e delle superiori, dal 2007[2], complici anche i diffusi entusiasmi di chi aderì alla sperimentazione, inizialmente a scopo dichiarato statistico. Del resto, il mondo della scuola dopo l’autonomia è stato caratterizzato da una continua rincorsa ad “essere i primi della classe” da parte di dirigenti e insegnanti. Il ruolo dell’Istituto di Valutazione si rinforza in un crescendo di decreti e circolari[3] dal 2013 fino ai decreti attuativi della Legge 107/2015. Otto decreti nati da nove deleghe (manca all’appello quello sul Testo Unico) conferite al di fuori delle strettoie previste dell’art. 76 della Costituzione dunque ampie, eccessive. Oltre che nel n. 62 esplicitamente dedicato alla valutazione, il ruolo dell’INVALSI è presente in tutti, nel n. 66 sull’inclusione all’art 4, tra le righe negli altri. Tutto quanto passa per La Buona Scuola deve essere oggetto di supervisione.
A ridosso dello svolgimento delle prove di rilevazione degli apprendimenti in versione “rinnovata”[4], l’Istituto Nazionale di Valutazione del Sistema Scolastico Italiano ha intensificato il suo dialogo con le scuole, attraverso una serie di comunicazioni ufficiali, pubblicate sul sito invalsi.it e recapitate direttamente ai singoli istituti. Nel mese di aprile, per circa 15 giorni, si sono svolte quest’anno per la prima volta in modalità computerizzata (computer based test, CBT, in gergo tecnico) i test obbligatori per poter sostenere l’esame di terza media e quelli per le classi seconde delle superiori. Tre le discipline coinvolte: italiano, matematica e inglese.
Oltre ad una serie di comunicati di natura principalmente organizzativa[5], l’INVALSI ha licenziato un altro documento sintetico dal titolo “Le prove INVALSI secondo l’INVALSI”, in cui si affrontano alcuni dei punti più importanti (e irrisolti) della relazione tra test standardizzati e attività scolastica. A cosa servono le prove INVALSI? Come si conciliano con la libertà di insegnamento? Cosa vuol dire “certificare le competenze del singolo studente” mediante i risultati conseguiti nei test? I temi sono di enorme complessità, il linguaggio è seduttivo, le scelte semantiche rimandano a quadri valoriali che sembrano tanto ovvii quanto condivisibili. Il tutto in un documento dalla confezione grafica rinnovata, che richiama vagamente i recenti Piani programmatici del MIUR[6]: colori pastello, caratteri grandi alternati a piccoli, immagini. Un impatto comunicativo ben diverso da quello scarno e monocromatico tipico dei documenti riservati finora alle scuole da parte dell’Istituto. 24 pagine di cui solo 9 occupate dal testo, 2-3 dalle foto (il bambino che scrive la parola “INVALSI” su una vecchia lavagna di ardesia, l’adolescente concentrato – in crisi? – che risolve un quesito), le restanti da brevi sintesi tra un paragrafo e l’altro e, per chiudere, una pagina vuota per ipotetiche “NOTE” per il lettore (davvero ci si immagina che il genitore, l’insegnante stampino il documento e ci riflettano su, prendendo appunti sulla pagina conclusiva?).
La discussione sul ruolo e sulla progressiva invadenza dei test INVALSI è stata ed è tuttora ampia, diffusa e approfondita[7] nel mondo della scuola, attraverso una serie di canali mediaticamente poco influenti ma molto attenti alla realtà scolastica e alla sua evoluzione. Intorno al documento di cui parliamo è stato pubblicato su MicroMega il commento di un docente di Filosofia, in cui l’accento è sui tre nodi del rapporto Scuola-Istituto di Valutazione:
- relazione tra “equità” e somministrazione censuaria dei test;
- relazione tra documento di certificazione INVALSI e titolo di studio;
- rapporto competenze-prove standardizzate e libertà di insegnamento.
1) La relazione equità-standardizzazione.
“La promozione dell’equità” è un grande cavallo di battaglia della comunicazione dell’istituto INVALSI: lo si afferma qui, ad esempio, durante un dibattito accademico,qui, in un working paper che analizza l’effetto di segregazione scolastica in rapporto al parametro di background socio-economico culturale (ESCS), e ancora in uno dei tanti incontri nelle scuole, qui, in cui l’incipit è sempre lo stesso: le prove standardizzate favoriscono (favorirebbero) e sostengono (sosterrebbero) l’equità del nostro sistema scolastico. Addirittura nel documento INVALSI che stiamo commentando, si scomoda l’art. 3 della Costituzione per ribadirlo. Anche a parer nostro non c’è alcuna connessione logica tra equità e somministrazione censuaria di prove standard, se non la seguente: dare una prova uguale per tutti e costruita, come affermano all’INVALSI, secondo processi “scientifici”[8]aiuterebbe i dirigenti e gli insegnanti - che a quanto pare giudicano in maniera troppo soggettiva gli apprendimenti (inguaribili valutatori “affettivi”..) - a capire meglio dove si insidia la disuguaglianza. Gli strumenti dell’INVALSI si perfezionano a partire dal 2015/2016. Nell’ultimo Rapporto annuale[9]si scrive: “Se per valutare l’efficacia di una scuola rispetto a un’altra, ci limitassimo a comparare i risultati grezzi [..] compiremmo un’operazione non solo alquanto discutibile da un punto di vista metodologico, ma anche criticabile dal punto di vista dell’equità”. Infatti: “Poiché i risultati [..] sono fortemente condizionati dalle caratteristiche socio-demografiche e dai livelli di competenza in entrata, ha poco senso giudicare la qualità di una scuola solo sulla base dei suoi risultati considerati in termini assoluti. [..] Quando si voglia giudicare la qualità educativa di una scuola [bisogna] distinguere e separare l’effetto della scuola sull’ apprendimento dei suoi alunni dall’ influsso di tutti quei fattori che sfuggono al suo controllo”.
Nasce un nuovo parametro: il cosiddetto “effetto scuola”, che con una locuzione economica è chiamato il valore aggiunto [10]. Tra le varie definizioni correnti in campo educativo[11], l’INVALSI stabilisce di definire il valore aggiunto come la differenza tra rendimento osservato e rendimento atteso di uno studente (depurato delle caratteristiche sociali, economiche, familiari). Ci pare di capire: se dal 2007 al 2016, come si scrive nel Rapporto, è stata compiuta un’operazione discutibile, sia nel metodo (in termini metodologici) che nel merito (di quale equità si parla, se le condizioni sono di partenza sono diverse?) adesso esiste uno strumento statistico per valutare quanto la scuola contribuisca all’apprendimento degli studenti, al netto di fattori che “sfuggono al suo controllo”. Ma, apparentemente, non al controllo dell’INVALSI[12]. Restituire alle scuole (e, attraverso di esse, alla cittadinanza) degli “output” colorati[13] (dal verde – “tutto ok”- al rosso – “pericolo”, passando per il rosa- “rilassati, ma non troppo”) corrispondenti alla “stima” del valore aggiunto positivo, negativo, nullo in riferimento alla loro “qualità educativa” è un’operazione alquanto riduttiva, se non pericolosa. Di più, l’effetto scuola sembra uno strumento performativo, fatto per indurre comportamenti, confronti, giudizi di valore. Effetti - questi sì - anche con un riflesso economico, qualora si trattasse di commisurare l’ordine della spesa per costo-alunno al rendimento degli insegnanti.
È noto a qualsiasi insegnante - forse un po’ meno all’opinione pubblica, piuttosto diffidente nei confronti delle istituzioni, in questa fase storico-sociale - che “scorporare” da una singola prestazione fattori come il contesto socio-economico, il vissuto familiare, la personalità e le conoscenze pregresse, è una pura “astrazione analitica”[14], visto che l’apprendimento di uno studente non è un paniere in cui inserire o togliere aritmeticamente oggetti non interagenti fra loro. E ancora: pensare di definire un “valore atteso” (atteso da chi? Dall’INVALSI?) ossia un paradigma di prestazione ricostruita al tavolino incrociando dati relativi a “fattori esogeni” premiando -implicitamente -chi eccede queste aspettative e colpevolizzando chi se ne discosta in negativo, a quale obiettivo formativo dovrebbe condurre? Quale informazione di processo è possibile associare ad una direzione piuttosto che all’altra? In cosa la misura di questo scarto sarebbe utile alle scuole? Riteniamo, in sostanza, che l’impiego di uno strumento come l’”effetto scuola”, ossia un costrutto i) non validato unanimemente dalla comunità scientifica; ii) non riferibile ad alcuna informazione di processo, ossia del perché si presenta un dato esito, significhi prediligere il fine dell’accountability a quello formativo, mentre si afferma esplicitamente il contrario.
Da cittadini, contribuenti o come si preferisce nella neolingua, stakeholders, chiediamo all’INVALSI:
a) qual è la spesa che lo Stato ha sostenuto per costruire il sistema di valutazione nazionale che ci ha consentito di “migliorare la conoscenza delle criticità del nostro sistema di istruzione”?
b) Quali analisi teoriche (di ricerca) e dunque azioni, dal 2007 ad oggi, il MIUR o l’INVALSI hanno messo in campo in conseguenza delle osservazioni accumulate? Quali iniziative di supporto alle scuole “in difficoltà” sono state avviate?
Nell’attesa di una risposta, possiamo dare un’occhiata ai bilanci dell’Istituto[15], o al recente documento “Una politica di contrasto del fallimento formativo e della povertà educativa” redatto dalla Cabina di regia istruita dal MIUR. Il cerchio è stretto: se la scuola fallisce, la scuola è responsabile. Il riscontro della miseria scolastica non viene dall’analisi delle condizioni del Paese e del disimpegno dei Governi (nemmeno più animati dall’afflato cattolico democristiano) ma dai dati, quelli raccolti dalle prove OCSE-PISA e confermati dall’INVALSI. E lì tutto si ferma.
2) Certificazione delle competenze e valore del titolo di studi.
Dice bene Paolo Mazzoli, Direttore Generale dell’INVALSI, quando afferma:
“Se un giorno sarà scritta la storia dell’INVALSI” – l’anno domini – “2017 verrà ricordato come l’anno della piena investitura legislativa e dell’attribuzione di un nuovo, importante mandato istituzionale: non più solo rilevazioni nazionali di sistema, ma anche valutazione e certificazione di alcune” – bontà sua – “competenze del singolo studente” [16].
Quel sottile presentimento di cui molti avevano sentore fin dai tempi degli “Appunti per il Ministro Gelmini” elaborati da Checchi, Ichino e Vittadini, nel 2008 è ora realtà legislativa, ad opera della legge 107. È bene ribadirlo, in modo che sia chiaro a tutti: genitori e studenti, dalle elementari alle superiori. L’INVALSI valuterà e certificherà le competenze di lingua madre, matematica e lingua inglese dei nostri figli e alunni, attribuendo ad esse un “livello” descrittivo in una scala da 1 a 5. In fondo, continua Mazzoli, cosa significano “in concreto un 6 in Italiano, un 4 in Matematica, un 8 in Inglese?”. Ora, finalmente l’INVALSI sottrarrà a quegli impuniti (le punizioni verranno, ci insegna la patria dell’accountability - gli USA - per ora solo “merito” e “demerito”) di insegnanti l’arbitrio della valutazione. “Scettro” rudimentale, soggettivo, autoreferenziale e incomprensibile, finalmente depotenziato dalla presenza di “livelli descrittivi affidabili e comparabili” targati INVALSI. Questi, in occasione di due traguardi fondamentali di fine ciclo (in terza media e all’esame di Stato) saranno registrati in una scheda “di certificazione delle competenze”, su carta intestata dell’INVALSI e a firma proprio del suo Direttore Generale: Paolo Mazzoli. La stessa scheda sarà allegata al nuovo “curriculum dello studente” in una specifica sezione.[17] Non risponderemo nel merito alle domande (retoriche, evidentemente) di Mazzoli sul significato dei voti di un insegnante al suostudente, domande a cui il Direttore potrà trovare risposta nelle centinaia di pagine di trattati di pedagogia dedicate al tema della valutazione formativa (oltre che banalmente entrando in una scuola e – sembra incredibile –parlando con un insegnante a caso). Aggiungeremo, anche qui, un paio di domande, da parte nostra. Ogni insegnante che legga i dati che confrontano l’esito dei test con il voto della disciplina corrispondente, non vede correlazione tra esito della prova e voto numerico. Come potrebbe essere altrimenti, d’altra parte, se gli stessi ricercatori INVALSI sostengono di “misurare competenze complementari” rispetto a quelle dei docenti? Che senso ha quel raffronto? L’omogeneità è condizione necessaria e sufficiente per qualsiasi operazione di comparazione: non si confrontano metri e kilogrammi. Dunque:
a) cosa si prevede accadrà introducendo una “doppia valutazione” per il singolo studente? Una “prossimale” del consiglio di classe, che vive quotidianamente il percorso di apprendimento, e una “distale”, dell’Istituto di Valutazione, che lo “fotografa” in precisi istanti?
b) Quale ruolo si prevede avrà il curriculum dello studente nell’interazione con il mondo produttivo o quello dell’istruzione superiore? Quale sarà il “valore aggiunto” di uno studente certificato “5” da INVALSI rispetto ad uno studente certificato “1”?
Si tratta di previsioni che non solo ogni buon legislatore, ma anche l’Istituto incaricato di certificare, ci aspettiamo facciano – specie in occasione dell’introduzione di una norma che modifica una disposizione centenaria: la certificazione conclusiva di un percorso di studi pubblico. Previsioni e valutazioni delle quali come cittadini – prima che come lavoratori della scuola – chiediamo di essere informati. L’affidamento all’INVALSI della certificazione delle competenze del singolo studente è un’operazione di valore sociale e politico enorme, avvenuta nel silenzio e nella disattenzione generale.[18] Eppure si tratta di un intervento politico di estrema serietà: pietra angolare ed innesco di un processo di progressiva destrutturazione e frantumazione del sistema di credenziali educative pubbliche. Il primo passo verso la definitiva perdita di significato del valore legale del titolo di studio. Nessuna abolizione giuridica, nessuna “decisione sovrana” sulla fine di un’epoca, nessuna discussione pubblica né mediatica. Piuttosto un processo squisitamente in linea con le tecniche di governo attuali: uno svuotamento dall’interno, paziente e progressivo, frutto di misure apparentemente minime che anno dopo anno, certificazione dopo certificazione, daranno nuova forma e significato all’”etichetta” di diploma di fine ciclo. Non a caso Mazzoli parla di “check point”[19] e non di “esame di Stato”. E, come torneremo a ribadire, le parole e il linguaggio agiscono sul senso comune, dando forma a veri e propri nuovi equilibri, nuove regole del gioco.
3 Rapporto competenze-valutazione standardizzata e libertà di insegnamento
Nell’articolo di MicroMega da cui prendiamo le mosse per questa discussione, si fanno due affermazioni: 1) le prove INVALSI sono fondate su un paradigma metodologico costruttivista, centrato sulla didattica per competenze; 2) esse sono “per definizione” impossibili da preparare. Siamo in disaccordo con entrambe; vediamo perché.
La prima: le prove INVALSI sarebbero prove di competenza e le competenze richiamano il costruttivismo, a qualunque definizione di tale ambito teorico ci si voglia riferire. Questa connessione, divenuta vulgata diffusa, è chiaramente arbitraria. Affermazioni di analogo “peso scientifico” sarebbero: “la didattica per competenze è inconciliabile con una valutazione standardizzata” oppure “la competenza - costrutto polisemico e controverso dal punto di vista epistemologico - non è riconducibile alla pedagogia costruttivista, almeno a quella raccordabile con il pensiero di Vygotskij, il più grande, a parer nostro e il più strumentalizzato. Essa per contro si afferma nell’educazione a partire da quella che potremmo definire “pedagogia economica”, della società della conoscenza”.
Il legame competenza-costruttivismo ha trovato buona fortuna grazie ad alcuni pedagogisti e a “tecnici dell’educazione”. Un volume recentemente pubblicato dalla Fondazione Agnelli (“Le competenze”, Il Mulino, 2018) tenta di dimostrare (Luciano Benadusi) che, da Dewey a Piaget, da Lodi a Milani, da Freinet a Vygotskij passando per Biesta (uno dei pochi autori attualmente in grado di rispondere in merito alla sua “convocazione”) le competenze si fonderebbero, e a loro volta sarebbero fondamento, della scuola dell’attivismo pedagogico in netta derivazione dal pragmatismo di Dewey. La Fondazione Agnelli afferma: “la competenza, con il suo orientamento pragmatico e l’ancoraggio al vissuto degli studenti, sembra sprigionare maggiore carica motivazionale, riuscendo ad aiutare gli allievi appartenenti alle fasce sociali meno acculturate o rimasti indietro nel percorso scolastico” [20]. Leggendo questo passo, sembra che gli unici a desiderare il perpetuarsi delle disuguaglianze, l’esclusione e l’abbandono dei più deboli restino gli insegnanti che dubitino del significato delle competenze. Al contrario, OCSE, Unione Europea, UNESCO, Fondazioni private e think thank internazionali difenderebbero il diritto alla conoscenza degli ultimi; conoscenze fatte di briciole di saperi, massacrati dalla consultazione rapida in rete o finalmente sistematizzati nei nuovi Sillabi ministeriali[21]. Forse rileggere i grandi autori citati impropriamente per estrapolazione strumentale dai testi [22], può rappresentare un antidoto alla logica ipnotica di questa prosa. Oppure l’ultimo libro di N. Hirtt[23] o di A. Del Rey[24], studiosi, insegnanti, profondi conoscitori del “reneauveau pedagogique”[25]di cui il Belgio e alcuni paesi francofoni sono stati laboratorio politico-culturale a partire dagli anni 2000, possono essere valide letture alternative.
La seconda affermazione: le prove INVALSI sono impossibili da preparare per definizione, la riproponiamo diversamente. Per quanto si possa credere alla competenza come mobilitazione di risorse a 360 gradi, dunque intrinsecamente interdisciplinare e metacognitiva, una simile tesi rivela la “provenienza disciplinare”, se così si può dire, di chi la sostiene[26]. Di certo, riteniamo, chi creda che addestrare ai test i propri alunni (è questo il termine corretto, anche se fastidioso) sia una pratica inutile, insegna una disciplina non coinvolta nei test. Non insegnare una disciplina coinvolta nella rilevazione delle nuove literacies, può offrire infatti l’agio di interpretare in maniera interdisciplinare i quesiti proposti. Di studiarli e rifletterci su con i propri studenti. Pratiche indubbiamente molto interessanti, anche per un insegnante di matematica, italiano o inglese. Alcuni quesiti - in particolare di matematica - offrono ottimi spunti di dialogo, specie se analizzati e de-strutturati cooperativamente, con argomentazioni e contro-esempi, incrociando ragionamenti e facendo emergere mis-concezioni o intuizioni originali. È questa la “creatività”, per un insegnante. Non quella piuttosto ironicamente richiamata dall’INVALSI come sinonimo di “produttività”[27]: “creatività = prendere cose esistenti per ricombinarle e creare qualcosa di nuovo e utile”. Per quanto si cerchi di tendere come un elastico oltre ogni limite di senso alla parola “creatività”, la categoria dell’“utilità” risulta sempre di poca pertinenza. I test, quindi, sarebbero valide opportunità didattiche quando non soggette a vincoli di efficienza e a tempi stretti. Molto più rapido (ed efficiente) procedere per batterie di prove, oggi onnipresenti: dalla rete ai libri di testo. Imparare a catalogare gli esercizi per tipologia, ad annotare gli items ricorrenti, ad evidenziare immediatamente i distrattori, allenare la memoria visiva, in presenza di immagini, sono tutte pratiche di sicura efficacia ed efficienza nella riuscita al test. Chi ha la fortuna – potremmo dire – di non insegnare una disciplina “testata oggettivamente” e dunque uguale sia per l’allievo del Centro di Formazione Professionale di Ivrea che per quello del Liceo Parini di Milano – Moskova, non subisce la frustrazione e la pressione dell’esito della prova sulla propria attività e reputazione scolastica. Pressione sempre più invasiva a seguito dell’introduzione e della messa a regime dei processi di valutazione a catena di Scuole–Dirigenti-Insegnanti. Solo per fare un esempio, da cui trarre ciascuno la propria conclusione - dovrebbe essere noto ai più che tra gli obiettivi di incarico dirigenziale che gli Uffici Regionali del MIUR affidano ai dirigenti c’è sempre la “sezione riservata” all’INVALSI: “Risultati nelle prove nazionali”. In uno dei decreti regionali, nella pagina dedicata alla valutazione dei dirigenti scolastici del Veneto, si legge:
“diminuire il numero degli studenti che si attestano sul livello 2 [INVALSI] e incrementare nel contempo il numero degli studenti che si attestano sul livello 5, sia in italiano che in matematica, raggiungendo il dato nazionale”.
Una delle recenti e diffuse pratiche di organizzazione del curricolo didattico di istituto, ad esempio, consiste nell’organizzare “plotoni di prove comuni” per ogni disciplina, preferibilmente strutturate per competenze, in corrispondenza di vari traguardi: ingresso, intermedi e in uscita. Come prevede il format del Rapporto di AutoValutazione (RAV) “armonizzare” le programmazioni, la progettazione e la valutazione contribuirebbe a garantire “equità”. Le famose parti uguali fra diversi. Identiche griglie, identiche domande/richieste, identici obiettivi. Armonizzare o, se preferiamo, omologare, è uno dei nuovi imperativi pedagogici della didattica caldeggiata dall’INVALSI, autore del format del Rapporto di Autovalutazione. Ritenere salva e garantita la libertà di insegnamento del docente (art. 33 della nostra Costituzione), a valle di queste osservazioni sembra, a questo punto, una pura petizione di principio, da cui in maniera naturale sorgono due questioni:
a) quali misure vengono adottate dall’Istituto di Valutazione per monitorare ed eventualmente intervenire nei confronti di una possibile “deriva” verso comportamenti impropri?[28]
b) Come conciliare le differenti scelte curricolari autonome, e strettamente “locali”, frutto di analisi delle caratteristiche dell’utenza?
Uno strumento di “misura” (il famoso “termometro”) non dovrebbe perturbare l’oggetto stesso di osservazione e indagine. In realtà sappiamo che ogni strumento in mano ad un osservatore produce effetti distorsivi. Effetti che coinvolgono entrambe le parti: ente “misuratore” e oggetto dell’indagine. Gli insegnanti devono resistere alla tentazione dell’addestramento, incorruttibili dinanzi al richiamo delle sirene delle centinaia di test preconfezionati da editori e “palestre digitali”. L’INVALSI e il MIUR, da parte loro, cosa fanno?
- L’Invalsi come istituto di ricerca
Dai primi vagiti invalsiani, dalla liquidazione del CEDE di Frascati[29], si arriva alla creazione di una identità “adulta”, che si definisce “Istituto di ricerca”. Ricerca poca, attività di controllo sull’operato dei docenti, molta, esclusiva – via test per alunni – per forza del mandato ministeriale, senza alcuna posizione di terzietà. La ricerca sembra la facciano fondazioni, associazioni, enti diversi, ovviamente rispondendo solo al sistema di valori e allo spirito di iniziativa che ispirano il loro statuto; ad esempio La Fondazione Agnelli, La TreeLLLe, la Leoni, la Basso e molte altre. Si tratta di attività private, anche se spesso con ampie ricadute pubbliche, nella elaborazione della mentalità e del consenso. Nel caso del sistema di educazione e di istruzione, ancora in mano pubblica, forse sarebbe bene ricordare che il CNR anni fa svolgeva ricerca anche in ambito formativo, che le Università sarebbero la sede naturale della formulazione di ipotesi e di piani di falsificazione e sperimentazione, realtà lasciate all’improvvisazione imprenditoriale dei rettorati e alla miseria dei finanziamenti. Basta dare un’occhiata al sito web dell’INVALSI per rendersi conto del tenore dell’attività di ricerca svolta, nella sezione “Pubblicazioni” o “Ricerche nazionali”: una sfilza di rapporti e working papers, resoconti e progetti tutti votati al perfezionamento della misurazione e valutazione standardizzata e alla costruzione dell’architettura del Sistema Nazionale di Valutazione. Un Istituto di Ricerca Pubblico, anche se non dedito alla ricerca di base ma strumentale, ossia orientato ad un’attività di studio finalizzata a particolari esigenze e interessi pubblici svolge attività documentata e aggiornata, anche a livello internazionale; possiede diverse linee di ricerca e approfondimento, associate a personale di cui siano pubblici curricola e lavori scientifici, validati dalle comunità di riferimento (peer review), affida ad enti terzi (anche internazionali) la valutazione dei suoi lavori. Basta guardare i siti di due Istituti di ricerca pubblica come l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) o L’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) per notare le macroscopiche differenze.
Dunque, a che, a chi serve l’INVALSI? Il suo Statuto (articolo 2, “Finalità”) è cristallino:
L’INVALSI “promuove il miglioramento dei livelli di istruzione e della qualità del capitale umano, contribuendo allo sviluppo e alla crescita del Sistema d’Istruzione, motore di sviluppo dell’economia italiana”
In Italia, autonomia, dirigenza, azienda, utenza, sussidiarietà, performances misurabili, privatizzazione, non sono semplice nominalismo, ma ordine del discorso. La stessa voce “equità” su cui l’Istituto si spende, è il significante-maestro, capo catena simbolica di molte altre parole abusate. Ogni parola ha una storia che è anche storia del suo uso e del contesto di tale uso. L’estrapolazione dai contesti in cui sono nate e hanno prodotto ordine simbolico le rende disponibili per nuove cornici di senso. Ne citiamo alcune in ordine sparso: cittadinanza, cooperazione, competenza, discussione, esperienza, creatività, errore, laboratorio, lezione. Strappate al loro ambito genealogico, epistemologico, si sfigurano ed è difficilissimo riconoscerne la tradizione.
Gramsci elaborò nei Quaderni una complessa definizione di egemonia: strumento ed esito di convinzione, con-divisione di assunti e di pratiche da parte dei governati, operata proprio attraverso la lingua, i suoi dispositivi discorsivi, i provvedimenti normativi, l’induzione di abitudini di pensiero, la trasformazione delle opinioni in valori. Il tutto suffragato dal Pensiero di intellettuali organici e metabolizzato nell’opinione e nel senso comune. L’egemonia può virare da forme di dominio culturale e materiale alla creazione di rapporti di fiducia fra rappresentati e rappresentanti, fra masse e intellettuali, fra cittadini e Stato. La svolta del terzo millennio ha visto il concretarsi nella mentalità degli italiani dell’inevitabilità di un nuovo modello di società in cui scuola, sanità, la previdenza sociale sono nient’altro che pilastri da demolire per creare un nuovo ordine: quello in cui lo Stato provvidente mano-mano si ritira e resta il singolo, con le sue competenze appunto, valutate e certificate. La prosa suadente, la continua allusione ai percorsi della ricerca e dello studio applicato alla scuola, l’apparente leggerezza delle indicazioni e dei traguardi rispetto alla rigidità dei vecchi programmi che sanno di Stato totalitario, il suggerimento a rovesciare con le classi il rapporto insegnante-discente, l’enfatizzazione dell’utile, del pratico, del concreto, costituiscono il vero capolavoro di ricerca dell’INVALSI, il cui scopo - risultato è appunto quello di una egemonia come dominio.
NOTE
[1] Definiti impropriamente tali, visto che si trattava solo di compulsare qualche informazione da testi adattati alla bisogna e rispondere a qualche quesito di grammatica; nella seconda classe di primaria la prova cosiddetta preliminare di lettura verrà svolta solo in classi campione nella tornata 2018; a questa è comunque accostata anche quella di “Italiano”.
[2] Iegge 25/10/ 2007 n. 176 at 1c 4; disposizioni diverse – elenco corposo nell’incipit del decreto legsislativo 13/04/2017 n.62 - con l’approvazione ottenuta sempre per via extraparlamentare (decreti ed emendamenti a leggi di economia e finanza).
[3] A partire dal decreto n. 80 del 28 marzo 2013, cui seguono una Direttiva (n 11, 18/09/2014) e una Circolare Ministeriale (n 47, 21/10/2014)
[4] In base al Dlgs 13 aprile 2017 n. 62 di cui al cc 180/181-i della legge 107/2015.
[5] Comunicato stampa del 15/3/18; comunicato del 20/3/18, Lettera del 28/3/2018 www.invalsi.it.
[6] Piano Nazionale Scuola Digitale; Piano di Formazione Triennale dei docenti,
[7] Vedi, a titolo di breve e certamente non esaustiva rassegna: l’attività decennale del gruppo romano NoINVALSI di Roma riportata nel bloghttps://genitoreattivo.wordpress.com/; le voci critiche del mondo accademico, in particolare del Prof. G. Israel sul suo blog e del prof. E. Rogora sul sito ROARShttp://gisrael.blogspot.it/ e http://www.roars.it/online/tag/invalsi/ o, tra i diversi articoli scientifici: C.Corsini et al. “La validità delle prove invalsi di comprensione della lettura (2010-2016)” in “La funzione educativa della valutazione”, Pensa Multimedia, 2017 ; alcuni interventi di M. Boscaino http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/?p=7125; http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/?p=18926 ed A. Angeluccihttp://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/?p=17242 ehttps://www.tecnicadellascuola.it/perche-test-invalsi-non-piacciono-addio-valutazione-formativa-scelte-didattiche-dei-docenti ; gli approfondimenti del gruppo scuola dei COBAS http://www.cobas-scuola.it/content/download/3957/25081/file/I_test_invalsi_1-6(3).pdf ehttp://www.cespbo.it/testi/2014_2/Cesp_Bologna_I%20test_invalsi_2013.pdf ; le riflessioni di M. Magni http://temi.repubblica.it/micromega-online/scuola-abbiamo-le-prove-invalsi-e-contro-la-scienza/ ehttp://temi.repubblica.it/micromega-online/i-danni-della-%E2%80%9Cbuona-scuola%E2%80%9D-e-la-crisi-della-sinistra/ ; quelle sul blog La letteratura e noihttps://www.laletteraturaenoi.it/index.php/scuola_e_noi/760-arriver%C3%A0-l-invalsi-e-parler%C3%A0-in-inglese.html,https://www.laletteraturaenoi.it/index.php/scuola_e_noi/542-misurare-o-valutare-il-dibattito-su-invalsi-e-voti-del-nord-e-del-sud.html o di alcuni tra i tanti siti di approfondimento culturale come doppio zerohttp://www.doppiozero.com/rubriche/78/201304/la-valutazione o euronomadehttp://www.euronomade.info/?p=7185 .
[8] Affermazione da sottoporre ad un’analisi lunga e accurata a partire dalla definizione di scientificità.
[9] Rapporto sulle rilevazioni nazionali degli apprendimenti 2016/2017, pag 98.
[10] In realtà si tratta di una mera trasposizione metaforica, in una sorta di doppio passaggio dal senso comune al linguaggio economico, da questo al rendimento scolastico, prodotto dell’insegnamento. In economia il VA si costruisce nel rapporto, assai complesso, fra il volume degli investimenti e la loro resa in termini di tassi di ricavo/profitto. Difficile da calcolare per anno finanziario e per volume di dati considerati, ad esso viene spesso accostato il margine operativo lordo (MOL) come indicatore di redditività. Ma qui si tratta anche di suggerire a chi legge, agli operatori delle scuole, l’effetto simbolico dell’accostamento fra valori monetari e valori etici.
[11] http://www.cnos-scuola.it/sites/default/files/RICCI.pdf
[12] Come controlla i cosiddetti "fattori esogeni” l’INVALSI? Saccheggiando i dati ISTAT, quelli territoriali (laddove disponibili…), sul tenore di vita, compreso quello culturale, delle famiglie? Mediante le risultanze dei Questionari diffusi fra studenti, genitori e personale scolastico? Rapporti e risultanze - come si visto di recente con il “caso Visconti” - non attendibili quando non esplicitamente taroccati?
[13] Vedi https://invalsi-dati.cineca.it/2016/docs/effetto_scuola_2016.pdf , in particolare Fig. 4.
[14] Lo si scrive con chiarezza qui: D. Capperucci “Valutazione degli apprendimenti e calcolo del valore aggiunto nelle rilevazioni nazionali per il primo ciclo di istruzione” in Formare vol 17 n. 3, pag 193.
[15] Documento del Bilancio Consuntivo 2017 dell’Istituto: in conto competenza le entrate correnti sono state 29.560.249,58 euro, rispetto al 2016 un bel 76,8% in più. La legge 107/15 ha aggiunto circa 8.000.00 di euro, considerati i novi impegni, tra i quali, presumibilmente, la stabilizzazione del precariato in servizio. Tra i centri di costo e i piani di attività si trovano le “missioni ricerca e innovazione”, “ricerca per la didattica”; “la ricerca applicata” (alle prove di valutazione standardizzata). Tutto sembra ruotare sulla costruzione delle prove e relativa correzione. Altra voce da non trascurare è quella dei PON, dunque il denaro europeo che –come in una partita di giro – entra ed esce dalle tasche dell’Europa (ovvero degli stati membri).
[16] Paolo Mazzoli “ Il nuovo ruolo dell’INVALSI” in Un’Ancora per la valutazione, Tecnodid, 2018.
[17]art. 21 D.Lgs.62/2017.
[18] Si tratta di due articoli, nn 9 e 19, di poche righe in un decreto delegato da una legge quadro approvata con voto di fiducia. Gli stessi decreti sono passati in Commissione come prevede l’istituto della delega in tempi brevissimi e sono stati restituiti al Governo quasi intonsi, così come ricevuti.
[19] Vedi nota 16, pag 62.
[20] Fondazione Giovanni Agnelli “Le competenze: una mappa per orientarsi” Roma, 2018, pag. 100.
[21] MIUR Orientamenti per l’apprendimento della Filosofia nella società della conoscenza, 2018 (Sillabo)
[22] Nel testo della Fondazione Agnelli non sono presenti né virgolettati, né riferimenti a pagine o passi dei testi degli autori citati e “convocati” a sostegno della tesi competenza=costruttivismo.
[23] N. Hirtt et al “Qu'as-tu appris à l'école? Essai sur les conditions éducatives d'une citoyenneté critique” Ed. Aden, 2015.
[24] A. Del Rey, “À l'école des compétences”, Ed. La decouverte, 2009.
[25] Nome della riforma dei curricoli scolastici basata sull’ “approccio per competenze” Québec.
[26] Nel caso dell’autore Scognamiglio: Filosofia.
[27] Testualmente: “ […] la scuola dovrebbe sviluppare un apprendimento di tipo produttivo, o se non vi piace questo termine perché può far pensare a un valore eccessivo attribuito alle istanze del mondo del lavoro, a un apprendimento di tipo creativo […]
[28] La modalità dello svolgimento delle prove CBT, ovviamente, non rappresenta una riflessione in tal senso, ma solo un mezzo di contrasto al cheating.
[29]Era il 1999, oggi resuscitato nell’INDIRE per funzioni di mero supporto alle iniziative invalsiane.
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