REPUBBLICA ITALIANA
IN
NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il
Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione
Seconda Bis)
ha
pronunciato la presente
SENTENZA
sul
ricorso numero di registro generale 3445 del 2011, proposto da:
Codacons,
Associazione Utenti dei Servizi Pubblici, Elio Barghini, Marianna
Burelli, Elio Canata, Giovanna Colombi, Leonardo Loconsole, Antonina
Lucarelli, Roberta Madioni, Samuel Martorella, Paolo Nardelli,
Ottaviano Pagni, Marco Vignoli, rappresentati e difesi dagli avv.
Marco Ramadori, Carlo Rienzi, Maria Cristina Tabano, con domicilio
eletto presso Carlo Rienzi in Roma, v.le delle Milizie, 9;
contro
Ministero
dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e Ministero
della Salute, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Gen.Le Dello
Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;,
Regione Lazio, Comune di Aprilia, Comune di Campo Nell’Elba, Comune
di Capoliveri, Comune di Porto Azzurro, Comune di Rio Marina; Regione
Toscana, rappresentato e difeso dall’avv. Fabio Ciari, con
domicilio eletto presso Marcello Cecchetti in Roma, via A. Mordini,
14;
per
l’annullamento delle ordinanze d’urgenza adottate dai comuni
intimati
Per
l’adozione delle necessarie misure ai sensi dell’art. 34, comma
1, lett. B), c.p.a.;
Per
il risarcimento del danno arrecato ai ricorrenti dal comportamento
anche omissivo delle Amministrazioni intimate, da valutare in via
equitativa in relazione alla mancata riduzione delle tariffe, alle
spese vive sostenute, al danno biologico ed al danno morale;
Visti
il ricorso e i relativi allegati;
Visti
gli atti di costituzione in giudizio di Ministero dell’Ambiente e
della Tutela del Territorio e del Mare e di Regione Lazio e di
Regione Toscana;
Viste
le memorie difensive;
Visti
tutti gli atti della causa;
Relatore
nell’udienza pubblica del giorno 10 ottobre 2011 il dott. Raffaello
Sestini e uditi per le parti i difensori come specificato nel
verbale;
Considerato
e ritenuto in fatto e diritto quanto segue:.
1.
Con il ricorso indicato in oggetto Codacons, Associazione Utenti dei
Servizi Pubblici e numerosi utenti del servizio idrico impugnano le
ordinanze con le quali i Sindaci dei numerosi Comuni menzionati hanno
ordinato la non potabilità e l’inibizione dell’uso delle acque
destinate al consumo umano fino al ripristino della potabilità,
nella parte in cui hanno omesso di prevedere la riduzione delle
tariffe per il consumo dell’ acqua potabile. Viene inoltre
richiesto al Tribunale di ordinare alle Amministrazioni coinvolte
l’adozione delle necessarie misure di salvaguardia degli utenti.
Viene infine formulata la richiesta che vengano accertate e
dichiarate le responsabilità, con conseguente richiesta di condanna
di Ministeri, delle Regioni, e Provincie autonome al risarcimento dei
danni subiti dai ricorrenti, in qualità di utenti del servizio
idrico, in quanto esposti alla distribuzione, in regime di deroga, di
acqua destinata al consumo umano e come tale considerata nei canoni,
ma priva dei necessari requisiti posti a tutela della salute umana.
2.
Il ricorso in epigrafe è analogo ad altri ricorsi proposti dalle
medesime Associazioni e da altri utenti contro Amministrazioni in
parte diverse, ed è riferito alla medesima vicenda per la quale il
Codacons ha già presentato altro ricorso (R.G. n. 4571/2010) sul
quale il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio – Sezione
III Quater – ha pronunciato sentenza n. 780/2011 per cessazione
materia del contendere), ma il suo diverso petitum determina la
persistenza della controversia e la sussistenza di un interesse
ancora attuale dei ricorrenti alla decisione.
3.
La vicenda concerne l’attuazione della direttiva 98/83/CE (recepita
con il Dlgs 2 febbraio 2001, n. 31) concernente la qualità delle
acque destinate al consumo umano, che prevede l’istituto della
possibile deroga, da parte della Commissione, dei previsti limiti di
concentrazione di talune sostanze tossiche e nocive, da adottarsi
nell’ambito di un valore massimo ammissibile quando non sia
possibile l’approvvigionamento d’acqua con altro mezzo congruo, e
purché ciò non rappresenti un potenziale pericolo per la salute
umana.
Inoltre,
la Commissione europea, tenuto conto delle osservazioni del Comitato
di cui all’art. 12 della Direttiva, considerando la complessità
dei nuovi principi introdotti con la Direttiva e l’impatto della
sua entrata in vigore nella gestione locale da parte dei singoli
Stati sulla distribuzione dell’acqua destinata al consumo umano,
può prorogare il calendario per la messa in conformità dei nuovi
valori di parametro chimico inquinante, ma tale possibilità, pur
regolarmente recepita nel decreto legislativo di recepimento n. 31
del 2001, non è stata attivata dal Governo italiano.
Pertanto,
in relazione alle criticità più rilevanti derivanti dalla presenza
in falda dei minerali presenti nel sottosuolo vulcanico del
territorio italiano, ed essendo ormai entrati in vigore i nuovi
valori dei parametri di inquinamento, il Governo italiano ha attivato
due periodi di tre anni ciascuno di deroga dall’entrata in vigore
della direttiva, e successivamente ha chiesto alla Commissione
europea di avvalersi della possibilità, prevista per casi
eccezionali, di un terzo periodo di tre anni ai sensi del’art. 9
della Direttiva 98/83/CE, recepita dall’art. 13 del Dlgs 31/2001,
per giungere al periodo massimo di 9 anni di deroga.
4.
In particolare, con più decreti ministeriali adottati dal Ministero
dell’Ambiente e della Tutela del Territorio congiuntamente al
Ministero della Salute, le Regioni e le Province autonome coinvolte
(5 Regioni e 2 Provincie autonome) sono state autorizzate ad
avvalersi della facoltà di deroga nazionale ai valori massimi di
arsenico stabiliti dal Decreto Legislativo n. 31 del 200l prima, per
il triennio 2004-2006 e, poi, per il triennio 2007- 2009.
Al
termine del secondo periodo di deroga previsto dal diritto europeo,
il Ministero della Salute di concerto con il Ministero dell’Ambiente
ha avanzato la richiesta di ulteriore proroga, per il triennio
2010-1012, dell’efficacia dei decreti di deroga al limite massimo
consentito dalla legge per l’arsenico nell’acqua (di l0 ug/l fino
al valore di 50 ug/l, per 128 comuni, di cui 91 nel Lazio, 8 in
Lombardia, l0 nelle Province Autonome di Trento e Bolzano, 16 in
Toscana e 3 in Umbria, interessando circa un milione di utenti
(1.009.455 persone, secondo i ricorrenti).
Il
28 ottobre 2010 la Commissione europea peraltro si è definitivamente
pronunciata, ritenendo di non poter accordare le deroghe richieste
per l’arsenico in concentrazioni superiori a 20 ug/l e rilevando
che “le prove scientifiche nei documenti indicati in riferimento
negli orientamenti dell’Organizzazione mondiale della sanità e nel
parere del comitato scientifico dei rischi sanitari e ambientali
consentono deroghe temporanee fino a 20 ug/l, mentre valori di 30. 40
e 50 ug/l determinerebbero rischi sanitari superiori. in particolare
talune forme di cancro”, e aggiungendo che “Occorre che l’Italia
rispetti gli obblighi imposti dalla direttiva 98/83/CE”.
Con
peculiare riguardo, poi, alle deroghe consentite fino alle date e per
i valori massimi specificati, la Commissione specificava che: “Fatti
salvi gli obblighi fissati nella direttiva 98/83/CE, le deroghe di
cui all’articolo 1, paragrafo 1, sono soggette alle seguenti
condizioni aggiuntive: 1) ai fini del consumo di acqua potabile da
parte dei neonati e dei bambini fino all’età di 3 anni, l’Italia
assicura che la fornitura di acqua rispetti i valori dei parametri
della direttiva 98/83/CE; 2) l’Italia informa gli utenti sulle
modalità per ridurre i rischi legati all’acqua potabile per la
quale è stata concessa la deroga. e in particolare informa gli
utenti sui rischi legati al consumo dell’acqua oggetto di deroga da
parte di neonati e di bambini fino all’età di 3 anni; 3) l’Italia
effettua un monitoraggio regolare dei parametri interessati nel
quadro del regime di monitoraggio di cui all’allegato III; 4)
l’Italia mette in atto i piani di azioni correttive di cui
all’allegato III; 5) l’Italia presenta una relazione annuale sui
progressi realizzati nelle misure correttive di cui all’Allegato
III entro due mesi dalla fine di ogni anno di calendario a partire
dal 2011 “.
Eppure,
lamentano i ricorrenti, per almeno due settimane i cittadini sono
stati tenuti all’oscuro di questa decisione e dei pericoli legati
al consumo delle acque contaminate, e solo dopo tre settimane il
Ministero della Salute, di fronte alla minaccia dell’apertura di
una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia per la
mancata comunicazione alla popolazione, ha inviato alle Regioni la
comunicazione che abolisce la deroga che portava a 50 microgrammi per
litro la concentrazione massima di arsenico nelle acque destinate al
consumo umano.
I
sindaci di alcuni dei 128 Comuni interessati hanno, allora, deciso di
ricorrere allo strumento delle ordinanze di necessità ed urgenza, al
fine di inibire alla popolazione il consumo dell’acqua potabile
fino al ripristino della potabilità, senza però disporre un’equa
riduzione delle tariffe dell’acqua imposte ai cittadini, ed hanno
iniziato ad attivarsi, insieme alle proprie Regioni, per porre
rimedio alla gravità del pericolo per la salute dei propri
cittadini, pericolo, affermano ancora i ricorrenti, per anni taciuto
da parte dello Stato e delle Regioni, soggetti entrambi obbligati
dalla legge ad informare la popolazione e ad intervenire per porre
rimedio al problema, con la conseguenza, proseguono i ricorrenti, che
solo con la pubblicazione delle suddette ordinanze gli abitanti
coinvolti e in piccola parte rappresentati in giudizio hanno
acquisito conoscenza del problema ed hanno potuto effettivamente
correre ai ripari, mediante rimedi di depurazione casalinghi o
acquistando acqua minerale.
5.
Con lettera del 30 gennaio 2011, il Codacons ha diffidato la Regione
Lazio, ai sensi dell’art. 140 del Codice del Consumo, ad adottare
entro 15 giorni tutti i provvedimenti ritenuti più opportuni, in
conformità con la legge, a risolvere il problema dell’acqua
contaminata con l’arsenico nei Comuni in cui la concentrazione di
questa sostanza nociva supera la soglia di legge di l0 ug/l,
chiedendo altresì di provvedere al risarcimento di tutti i danni
cagionati in favore della stessa associazione e di tutti gli abitanti
dei Comuni interessati, da calcolarsi in via equitativa.
Successivamente,
il Codacons e gli utenti del servizio idrico hanno proposto ricorso a
questo Tribunale per l’annullamento delle ordinanze di divieto di
utilizzo a fini potabili delle acque destinate al consumo umano
adottate dai Comuni intimati, per la parte in cui non dispongono ai
fini di una riduzione delle relative tariffe; per l’adozione delle
necessarie misure ai sensi dell’art. 34, comma 1, lett. B), c.p.a.,
secondo cui in caso di accoglimento del ricorso il giudice, nei
limiti della domanda, può ordinare all’amministrazione rimasta
inerte di provvedere entro un termine, nonché per il risarcimento
del danno arrecato ai ricorrenti dal comportamento anche omissivo
delle Amministrazioni intimate, da valutare in via equitativa in
relazione alla mancata riduzione delle tariffe, alle spese vive
sostenute, al danno biologico ed al danno morale.
Le
Amministrazioni statali e regionali intimate, unitamente a molti
degli Enti locali intimati, si sono costituite per affermare
l’inammissibilità ed infondatezza del ricorso.
Le
istanze cautelari proposte dai ricorrenti per il ricorso in epigrafe
e per gli altri ricorsi di analogo contenuto sono state esaminate
nelle Camere di consiglio del 9 e del 23 giugno 2011 ed in tale sede
questo Tribunale con ordinanza collegiale, avendo i difensori di
parte ricorrente chiesto di abbinare l’istanza cautelare al merito,
ha disposto istruttoria fissando il merito di tutti gli analoghi
ricorsi alla pubblica udienza del 10 (già 6) ottobre 2011, data i
cui il ricorso in epigrafe è stato introitato per essere deciso,
insieme ai ricorsi di analogo tenore, nelle camere di consiglio dei
giorni 10 e 20 ottobre e 3 novembre 2011;
Con
la predetta ordinanza il Collegio, in parziale accoglimento
dell’istanza istruttoria proposta da parte ricorrente, ha chiesto a
tutte le Amministrazioni intimate, ciascuna per i profili di
competenza, di presentare una analitica ed articolata relazione,
corredata da ogni utile documentazione e comunque da tutti gli atti
concernenti le attività di accertamento, informazione, monitoraggio
e bonifica svolte, osservando, in sede di sommaria delibazione, che
la complessiva legittimazione dei ricorrenti non appariva dubbia, che
le più complesse questioni concernenti sia la legittimazione passiva
delle Amministrazioni evocate, sia la giurisdizione di questo
Tribunale in relazione a ciascuna delle domande proposte, dovevano
necessariamente essere affrontate in sede di merito dopo una piena
cognizione dei fatti di causa, e che non appariva controversa fra le
parti la situazione di fatto sottostante, caratterizzata:
-
dall’iniziale superamento delle soglie massime di concentrazione di
arsenico di cui alla direttiva 98/83/CE (recepita con il citato
D.Lgs. n. 31/2001) nelle acque destinate al consumo di circa un
milione di utenti;
-
dalla concessione di due successive deroghe triennali alle predette
soglie da parte del Governo, al dichiarato fine di consentire il
progressivo adeguamento ai parametri di legge;
-
dalla successiva Decisione della Commissione Europea del 20 ottobre
2010, che ha negato la possibilità di ulteriori deroghe.
Il
Collegio osservava quindi che quello idrico costituisce un tipico
servizio pubblico universale a rete, per il quale deve essere
necessariamente consentito l’accesso fisico ed economico a
chiunque, garantendo, ai sensi dell’art. 4, comma 2, acque
destinate al consumo umano salubri e pulite prive di sostanze tali da
rappresentare un potenziale pericolo per la salute umana, che secondo
la medesima Decisione comunitaria citata, “le prove scientifiche
nei documenti indicati in riferimento negli orientamenti
dell’Organizzazione mondiale della Sanità e nel parere del
comitato scientifico dei rischi sanitari ed ambientali consentono
deroghe temporanee fino a 20 ug/l”, mentre i valori di
concentrazione superiori (che sono stati quindi negati)
“determinerebbero rischi sanitari superiori, in particolare talune
forme di cancro”, e che il disposto incombente istruttorio appariva
dunque necessario con particolare riguardo alla domanda risarcitoria
del lamentato danno biologico che sarebbe derivato, alle singole
persone fisiche ricorrenti, dal comportamento anche omissivo delle
Amministrazioni intimate in relazione alla prolungata e spesso
inconsapevole ingestione di acqua contaminata nei termini anzidetti,
si rendeva necessario procedere ad una analitica ricostruzione, ai
fini di una migliore conoscenza:
-
dell’iter istruttorio tecnico-scientifico ed amministrativo svolto
dai Ministeri intimati ai fini della concessione delle disposte
deroghe e dell’ulteriore richiesta di deroga denegata in sede
comunitaria;
-
delle attività di amministrazione attiva e di monitoraggio e
controllo –anche sostitutivo- svolto da ciascuna delle
Amministrazioni intimate, per quanto di competenza, per assicurare
–prima e dopo la predetta decisione comunitaria- il superamento
della situazione di pericolo e, nelle more, la piena conoscenza della
medesima situazione da parte di tutti gli interessati, anche quanto
alle necessarie cautele per i soggetti considerati particolarmente a
rischio.
All’esito
della predetta fase istruttoria, la cospicua documentazione
depositata presso il TAR Lazio dal Ministero dell’Ambiente e da
quello della Salute, dalle Regioni e Province autonome e dai
numerosissimi Comuni intimati, nel ricorso in epigrafe ed in quelli
ad esso similari promossi dal Codacons e da altri ricorrenti e
discussi nella medesima data, ha consentito, unitamente alle difese
di parte ricorrente in replica, di definire compiutamente i termini
della controversia, ma per la sua mole ha richiesto la prosecuzione
dell’esame della questione, di particolare rilevanza, delicatezza e
complessità, in più camere di consiglio.
6.
I ricorrenti chiedono di dichiarare l’obbligo ex art. 34 comma 1,
lett. b) c.p.a. dei Ministri competenti di provvedere al riesame dei
criteri già esistenti per la determinazione della tariffa base
dell’acqua, in modo da consentire la riduzione delle tariffe oggi
praticate, e l’obbligo dei Comuni di provvedere, ai sensi dell’art.
34, comma 1, lett. b) c.p.a. alla riduzione delle tariffe dell’acqua,
illegittimamente non disposta con le ordinanze di non potabilità
dell’acqua emanate in violazione dell’art. 154 del Codice dell’
Ambiente.
Infatti,
argomentano i ricorrenti, i Comuni sono state le prime vittime della
situazione di inadempimento dello Stato e delle Regioni, ed in molti
casi hanno svolto un egregio ruolo sostitutivo di tali enti
provvedendo a bonificare l’acqua a valle delle falde con spese
ingenti a carico della collettività, ma devono ora, preso atto della
situazione, provvedere ad abbassare le tariffe dell’acqua, sia
quale indennizzo tardivo dell’inadempimento di erogazione degli
anni pregressi, sia come minor compenso di un minor servizio erogato
dove il problema non è stato rimosso e l’acqua non è ancora
potabile.
A
sostegno di tali assunti, i ricorrenti precisano che la tariffa
dell’acqua è considerata dalla legge quale vero e proprio
“corrispettivo” del servizio idrico integrato ed e’ determinata
tenendo conto della qualità della risorsa idrica e del servizio
fornito, delle opere e degli adeguamenti necessari, dell’entità
dei costi di gestione delle opere, dell’adeguatezza della
remunerazione del capitale investito e dei costi di gestione delle
aree di salvaguardia, nonché di una quota parte dei costi di
funzionamento dell’Autorità d’ambito, in modo che sia assicurata
la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio
secondo il principio del recupero dei costi e secondo il principio
“chi inquina paga”, come confermato anche, si allega, da una
recente sentenza (n. 335/2008) della Corte Costituzionale.
Dunque,
concludono i ricorrenti, è chiaro come le ordinanze impugnate
debbano essere annullate in quanto illegittime, nella parte in cui
non dispongono nulla in ordine alla riduzione tariffaria, così da
imporre ai cittadini il pagamento a prezzo pieno di un servizio
inadeguato e non pienamente funzionale al suo scopo, in violazione
del’ art. 154 Codice dell’ Ambiente, secondo cui l’Autorità
d’Ambito (quale struttura dotata di personalità giuridica
costituita in ciascun ambito territoriale ottimale delimitato dalla
competente regione, alla quale gli enti locali partecipano
obbligatoriamente ed alla quale e’ trasferito l’esercizio delle
competenze ad essi spettanti in materia di gestione delle risorse
idriche, ai sensi dell’ art. 148 del Codice dell’Ambiente) è il
soggetto competente alla determinazione della tariffa di base in
osservanza delle disposizioni contenute nel decreto con cui il
Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, su proposta
dell’Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti,
tenuto conto della necessità di recuperare i costi ambientali anche
secondo il principio “chi inquina paga”, definisce le componenti
di costo per la determinazione della tariffa relativa ai servizi
idrici per i vari settori di impiego dell’acqua (comma secondo art.
154).
7.
I ricorrenti deducono altresì l’illegittimo esercizio
dell’attività amministrativa da parte dello Stato e delle Regioni
per violazione del principio di precauzione di cui all’art. 191 del
Trattato di Lisbona e dell’art. 97 della Costituzione, per
violazione e falsa applicazione della Direttiva n. 83/1998/CE
relativa alla qualità delle acque destinate al consumo umano e del
D.Lgs. n. 31/2001 e per violazione dei principi di imparzialità e di
trasparenza.
Ne
discende, affermano i ricorrenti, l’applicabilità dell’art. 30
D.lgs n.l04/2010, sussistendo i due requisiti, chiariti dalla
sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 500 del
1999 per il risarcimento per lesione dell’interesse legittimo:
comportamento dell’Amministrazione “non iure” (in contrasto con
le regole dell’ ordinamento) e “contra ius” (lesivo di una
posizione sostanziale). Infatti, quanto al primo aspetto,
l’antigiuridicità della condotta complessivamente tenuta dallo
Stato e dalle Regioni nel caso di specie sarebbe evidente nella
palese violazione del principio di precauzione, sancito a livello
comunitario ed oramai principio fondamentale del nostro ordinamento,
nonché della normativa di settore (decreto legislativo 31/2001),
introdotta con la precisa finalità di porre a carico dello Stato e
delle Regioni il dovere di garantire la salubrità delle acque
destinate al consumo umano all’interno del territorio del nostro
Paese, tanto che all’art. 4 comma 2, è sancito che le acque
destinate al consumo umano devono essere salubri e pulite e non
devono contenere microrganismi e parassiti, né altre sostanze, in
quantità o concentrazioni tali da rappresentare un potenziale
pericolo per la salute umana.
8.
In particolare, secondo i ricorrenti il principio di precauzione,
sebbene afferente propriamente alla tutela dell’ambiente, rinviene
la sua “ratio” fondante nella tutela della salute dei cittadini,
e comporta che, a fronte di una situazione in cui non sono stati
identificati tutti gli effetti potenzialmente pericolosi di un
fenomeno, di un prodotto o di un procedimento ed in cui la
valutazione scientifica preliminare non consente di determinare il
rischio con sufficiente certezza, occorre comunque individuare quale
sia il livello di rischio ‘accettabile’. In particolare, alla
conferenza di Rio, nel riferirsi al principio ‘precauzionale’, è
stato affermato che “quando vi è la minaccia di un danno serio e
irreversibile, la mancanza di una piena certezza scientifica non deve
essere utilizzata come motivo per rinviare l’adozione di misure i
cui risultati sono proporzionati ai costi (cost-effective) al fine di
prevenire la degradazione dell’ambiente”.
Pertanto,
proseguono i ricorrenti, il ricorso al principio di precauzione si
giustifica ogni qual volta si debba adottare un atto amministrativo
connesso con un’attività che presenta un rischio potenziale per la
salute pubblica, anche se questo rischio non può essere interamente
dimostrato o la sua portata non può essere quantificata e
determinata per l’insufficienza dei dati scientifici, dovendosi
tenere conto non solo dell’ orizzonte di breve e medio periodo, ma
soprattutto dei rischi di lungo periodo e dei diritti delle
generazioni future.
Nel
caso di specie, numerose ricerche scientifiche hanno portato alla
luce la sussistenza di un “dubbio scientifico” sul livello di
pericolosità dell’arsenico per l’essere umano e per l’ambiente,
ferma restando la certezza della sua nocività. In particolare, il
Comitato Scientifico della Commissione europea SCHER (Scientific
Committee on Health and Environmental Risks) ha in parte confermato
le preoccupazioni che riguardano la salute soprattutto di bambini ed
adolescenti. Infatti, fermo restando che è stato dimostrato come ad
elevate esposizioni attraverso la dieta e l’aria, l’arsenico
possa causare tumori della pelle e degli organi interni, vi sono
evidenze di un “maggiore rischio per soggetti minori di 14-18 anni
e per neonati non allattati al seno rispetto alla popolazione adulta.
particolarmente correlato a consumo di acque con tenori di arsenico
superiori ai 20 ug/l e dipendente anche dal livello di esposizione
generale mediante gli alimenti e l’aria, essendo più elevato in
soggetti esposti al fumo.
Tali
conclusioni sono state peraltro riprese nella nota informativa
dell’Istituto Superiore di Sanità del 30 novembre 2011, laddove si
è precisato che: “l’esposizione ad acqua potabile con elevate
concentrazioni di arsenico (> 200 – 2000 ug/l) è associata ad
un aumento di incidenza di patologie tumorali a carico del polmone,
della pelle e di organi interni, ed anche di alterazioni
cardiovascolari e della pelle con cambiamenti della pigmentazione e
sviluppo di cheratosi nelle parti non esposte al sole e vasculopatie
agli arti, con conseguenze di cancrena agli arti inferiori.
Secondo
i ricorrenti, nel caso di specie, per contro, lo Stato e le Regioni
si sono limitati a richiedere e successivamente consentire, per ben
due trienni consecutivi (fin quando non è intervenuto il veto
dell’UE) le deroghe al parametro massimo di arsenico previsto dalla
legge, sottoponendo in tal modo i cittadini ad un ingente rischio per
la propria salute ed a concreti disagi.
Il
principio di precauzione, al contrario, avrebbe imposto l’adozione
di misure temporanee volte ad assicurare una protezione cautelativa
ed anticipata, con lo scopo di evitare danni nel periodo di tempo
necessario a sviluppare la conoscenza dell’effettiva entità dei
rischi connessi all’ingestione della sostanza de qua.
9.
La predetta ricostruzione è del tutto contestata, in fatto ed in
diritto, dalle Amministrazioni resistenti e, in particolare, dalle
Amministrazioni statali della Salute e dell’Ambiente costituitesi
in giudizio, che riferiscono come fin dalla data di pubblicazione
della direttiva, gli uffici ministeriali competenti abbiano iniziato
una fitta corrispondenza con le autorità regionali e provinciali al
fine di organizzate giornate di presentazione ed approfondimento con
i referenti regionali circa i contenuti ed i principi della Direttiva
98/83/CE, e per valutare la necessità di predisporre la richiesta
alla Commissione europea di una proroga dell’entrata in vigore del
recepimento per taluni valori dalle autorità regionali, inizialmente
riferite solo al boro in Toscana ed all’arsenico in Lombardia ed a
Trento e Bolzano, chiedendo anche parere al Consiglio Superiore di
Sanità, che nella seduta del 24 ottobre 2002 si è espresso in
maniera favorevole relativamente alle province autonome di Trento e
Bolzano ed alla regione Toscana, e con riserva per la regione
Lombardia stante la carenza di documentazione.
La
realtà amministrativa del nostro territorio in quel periodo era,
inoltre, piuttosto complessa, con una gestione frammentata del
servizio idrico in attesa dell’attuazione della legge n. 36/1995,
sia territorialmente che per tipologia di servizio (acquedotti,
fognatura e depurazione), e con il successivo trasferimento alle
Regioni, alla stregua della riforma del titolo V della Costituzione,
della disciplina delle forme e dei modi di cooperazione tra gli enti
locali in materia, con la impossibilità di predisporre tutte le
informazioni e la documentazione necessaria all’ottenimento della
proroga comunitaria, e con la conseguente necessità di avvalersi
solo dello strumento della deroga, nonostante fosse già palese che
due periodi di tre anni ciascuno non sarebbero stati sufficienti alla
messa in conformità.
Le
medesime Amministrazioni narrano che, in applicazione dell’art. 13
del Dlgs 31/200l, sono stati comunque emanati alcuni decreti di
fissazione di valori massimi ammissibili, a partire dal 23 dicembre
2003, sulla base di principi estremamente cautelativi, sui quali si è
espresso positivamente anche il Consiglio Superiore di Sanità dopo
approfondita analisi della documentazione, prodotta dalle autorità
regionali e provinciali. circa l’impossibilità di reperimento di
fonti idriche alternative in tempi brevi.
E’
in base ai succitati presupposti, proseguono le Amministrazioni
resistenti, che in data 13 novembre 2009 è stata inoltrata la
richiesta di parere alla Commissione europea ai fini della terza
proroga, dopo approfondita fase istruttoria con le relazioni,
aggiornate e circostanziate, trasmesse dalle Regioni e Province
Autonome prima della scadenza delle deroghe concesse: Provincia
Autonoma di Bolzano il 22 luglio 2009 e successiva integrazione il 25
agosto 2009, Provincia autonoma di Trento il 19 agosto 2009,
Lombardia il 7 agosto 2009, Toscana il 6 agosto 2009, Lazio il 20
agosto 2009 e successive integrazioni il 25 settembre 2009, 2
ottobre, 5 ottobre, 6 ottobre e 28 ottobre dello stesso anno, Umbria
30 luglio 2009 e Campania 4 agosto 2009 e 12 settembre 2009.
Successivamente
alla prima richiesta del novembre 2009, sono stati inoltre avviati
intensi contatti, anche per il tramite della Rappresentanza
Permanente d’Italia presso l’Unione Europea, per fornire alla
Commissione stessa tutti gli ulteriori elementi informativi richiesti
ai fini dell’espressione di parere.
Le
stesse Amministrazioni negano, quindi, la fondatezza della censura di
mancato rispetto della procedura indicata nel Dlgs n. 31/200l, che
richiama anche una pronuncia del TAR sez. III Quater, n. 2001 del 18
gennaio 2006, peraltro riferita ad uno specifico decreto di deroga
emanato nel 2004, non sovrapponibile ai fatti oggetto del presente
ricorso.
10.
In particolare, essendosi l’Italia avvalsa della possibilità di
derogare ai valori di parametro del D. Lgs 31/2001 già da sei anni
(due cicli), le richieste di proroga inoltrate dalle Regioni
interessate per l’ultimo triennio (2010- 2012) sono state trasmesse
dal Ministero della Salute alla Commissione Europea (CE) che si è
espressa in data 28/10/2010 con la Decisione n, C(2010)7605. Per
l’adozione della Decisione del 28/10/2010, la Commissione europea
ha ritenuto opportuno chiedere un approfondimento della complessa
documentazione relativa alla situazione italiana al Comitato
Scientifico dei Rischi Sanitari e Ambientali che, in data 16 aprile
2010 ha espresso un parere da cui si evince che esiste ancora ad oggi
un dubbio scientifico circa il reale rischio sanitario di determinate
concentrazioni di arsenico nell’acqua destinata al consumo umano
tant’ è che per parte degli studiosi afferma che un valore di
arsenico nell’acqua destinata al consumo umano fino a 50 microg/l
dovuta ad un prolungamento del periodo di deroga non rappresenta un
rischio addizionale per la popolazione. Ma per una parte degli
esperti vi è un aumento di probabilità di rischio per livelli
superiori a 20 microg/l., soprattutto se neonati non allattati al
seno o esposti ad altri inquinanti come il vivere in casa con dei
fumatori. Pertanto, in applicazione al principio di massima
precauzione, la Commissione europea ha espresso la decisione del
28.10.2010 concedendo il valore massimo ammissibile in deroga di 20
microg/ di arsenico e prescrivendo altresì il valore di l0 microg/l
per i neonati e bambini fino a tre anni.
Conseguentemente
è stato emanato il decreto 24 novembre 2010 del Ministero della
Salute di concerto con il Ministero dell’ Ambiente e della Tutela
del Territorio e del Mare (peraltro pubblicato solo sulla Gazzetta
Ufficiale n. 12 del successivo 17 gennaio 2011, a quasi due mesi di
distanza) che prevede l’autorizzazione alla concessione delle
deroghe richieste per i parametri di fluoruro, boro e arsenico entro
valori rispettivamente pari a 2.5 mg/l, 3.0 mg/l e 20 ug/l, per cui
le richieste relative a Comuni che avevano richiesto di potersi
avvalere di VMA per l’arsenico di 30, 40 o 50 ug/1 non sono state
autorizzate, anche se successivamente per alcuni di tali territori si
è potuto constatare la possibilità di erogare l’acqua con un
valore per l’arsenico non superiore ai 20 ug/l.
11.
Per quanto attiene alla domanda di riduzione delle tariffe per
fornitura idrica non idonea all’uso umano, premessa l’incompetenza
degli Enti locali intimati a provvedervi, le Amministrazioni
obiettano che il vigente “Metodo normalizzato per definire le
componenti di costo e determinare la tariffa di riferimento” del
servizio idrico integrato è stato elaborato sulla scorta della ormai
abrogata Legge n.36/1994 che, all’art.l3, prevedeva che la tariffa
è determinata tenendo conto della qualità della risorsa idrica e
del servizio fornito, delle opere e degli adeguamenti necessari,
dell’entità dei costi di gestione delle opere, dell’adeguatezza
della remunerazione del capitale investito e dei costi di gestione
delle aree di salvaguardia, in modo che sia assicurata la copertura
integrale dei costi di investimento e di esercizio” (disposizione
ripresa in maniera pressoché integrale dall’art. 154 del D. Lgs.
152/2006), ma che le componenti “qualità della risorsa idrica” e
“qualità del servizio fornito” in sede di redazione del metodo
normalizzato attuativo del citato art.13 non sono state inserite tra
quelle che determinano la tariffa reale media sulla cui base,
definita l’articolazione per tipologia di utenza e scaglioni
tariffari, viene poi redatta la “bolletta” che l’utente dovrà
saldare.
Sarebbe
pertanto impossibile prevedere una riduzione tariffaria a favore
degli utenti che sono fomiti di acqua non idonea al consumo umano,
fermo restando che l’utente di fatto, non consumando l’acqua non
adatta all’uso umano, non pagherà alcun corrispettivo, e che in
tutte le situazioni di inerzia o impossibilità di erogazione di
acqua potabile l’Autorità competente ha previsto la sostituzione
di fornitura alternativa con autobotti.
12.
Quanto all’asserita violazione del principio di precauzione, le
Amministrazioni intimate osservano che il principio di precauzione è
un principio generale del diritto comunitario che fa obbligo alle
Autorità competenti di adottare provvedimenti appropriati al fine di
prevenire taluni rischi potenziali per la sanità pubblica, per la
sicurezza e per l’ambiente che si pone come complementare al
principio di prevenzione mediante la tutela anticipata rispetto alla
fase dell’applicazione delle migliori tecniche previste, una tutela
dunque che non impone un monitoraggio dell’attività in corso al
fine di prevenire i danni, ma che esige di verificare preventivamente
che la stessa attività non danneggi l’uomo o l’ambiente, valori
questi sempre prevalenti sugli interessi economici (T.A.R. Lombardia,
Brescia, n. 304 del 2005 nonché, TRGA Trentino-Alto Adige, TN, 8
luglio 2010 n.171), e riceve applicazione in tutti quei settori già
ad elevato livello di protezione normativa ogni volta in cui vi siano
dubbi di pericolo per la salute o l’ambiente indipendentemente
dall’ accertamento di un effettivo nesso causale tra il fatto
dannoso o potenzialmente tale e gli effetti pregiudizievoli che ne
derivano.
Pertanto,
argomentano le Amministrazioni resistenti, non può essere ravvisata
una violazione del principio di precauzione nel senso indicato dai
ricorrenti, atteso che la materia in esame è già armonizzata da una
disciplina che assicura un’elevata tutela ai predetti valori in
applicazione di quel principio, e che l’Amministrazione si è
attenuta scrupolosamente alla medesima disciplina non per favorire un
interesse economico configgente, bensì per assicurare l’espletamento
di un servizio pubblico, quello idrico, essenziale proprio per la
tutela di quei valori.
Al
riguardo, prosegue parte resistente, l’imponente documentazione
allegata in ottemperanza alla richiesta istruttoria di questo
Tribunale dimostra la gravità delle circostanze eccezionali per le
quali non è stato possibile dare completa attuazione ai
provvedimenti necessari per ripristinare la qualità dell’acqua.
Infatti, l’approccio generale per definire le azioni correttive, in
merito a parametri che, per preesistenti fattori naturali endogeni
ovvero la natura vulcanica dei suoli, sistematicamente superano i
valori di parametro in vaste aree di approvvigionamento idrico,
consiste nella ricerca sia di fonti alternative di qualità stabile a
lungo termine, sia di strategie correttive sostenibili e durature,
dal punto di vista sanitario ambientale, strutturale e gestionale, e
ciò implica, di regola, una completa ri-pianificazione del sistema
di approvvigionamento idrico, con considerevoli costi economici e
tempi di realizzazione molto lunghi. D’altro canto le conoscenze
scientifiche, relative alla tossicità cronica di piccole tracce di
arsenico di origine naturale nell’ acqua potabile, si sono evolute
proprio in questi due ultimi anni: la prova di ciò è nella
datazione della bibliografia del rapporto del Comitato Scientifico
sulla Salute ed i Rischi Ambientali, che nella seduta del 16 aprile
2010 prende proprio in considerazione gli ultimi dati, peraltro
ancora non univoci, comparsi sulla letteratura internazionale.
Le
difficoltà di realizzazione delle opere infrastrutturali, necessarie
al raggiungimento degli obiettivi di qualità delle acque destinate
al consumo umano, e la necessità di tempi lunghi per la loro
attuazione, sarebbero ben presenti anche nelle premesse della
Direttiva 98/83/CE che, a questo proposito, fissa al 25 dicembre 2003
il termine per la messa in conformità delle normative nazionali ma,
con l’art. 15 (Casi eccezionali), recepito nel Decreto Legislativo
31/200 l all’art. 16, indica la possibilità di una proroga, di due
periodi di tre anni ciascuno, dall’entrata in vigore del calendario
il 25 dicembre 2003. A partire dalla effettiva data di entrata in
vigore, ai sensi dell’ art. 9 (Deroghe) è applicabile lo strumento
della deroga per due periodi di tre anni ciascuno, con procedimento
nazionale, ed un ultimo periodo di tre anni, previa approvazione
della Commissione Europea.
13.
La stessa documentazione acquisita al giudizio in fase istruttoria
comproverebbe inoltre, affermano i resistenti, la legittimità di
tutti i provvedimenti emanati e la correttezza dell’iter
istruttorio tecnico-amministrativo svolto dal punto di vista della
conformità alla normativa comunitaria, recepita con decreto
legislativo n. 31/2001, ai fini della predisposizione dell’ulteriore
richiesta di deroga a seguito di una valutazione più attenta e più
approfondita possibile dell’eventuale rischio per la salute
pubblica.
Inoltre,
proseguono i resistenti, antecedentemente e successivamente alla
pubblicazione della Decisione comunitaria il Ministero della Salute è
intervenuto a supportare l’implementazione di criteri e strategie
metodologiche per l’attuazione dei regimi di deroga nei territori
interessati e per la riprogrammazione delle azioni di rientro rese
necessarie dalla prolungata tempistica decisionale da parte del
legislatore europeo e delle azioni correttive contestualmente
implementate dai sistemi idrici, conducendo anche, per il tramite
dell’Istituto Superiore di Sanità, specifiche attività
informative e di comunicazione, ed adottando le ordinanze recanti
misure urgenti in materia di approvvigionamento idrico-potabile, ai
sensi dell’articolo 32 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 in
materia di emergenze sanitarie e di igiene pubblica, indispensabili a
garantire continuità di fornitura ed approvvigionamento alla
popolazione, al fine di evitare gli evidenti e più gravi rischi
igienico-sanitari che si sarebbero potuti determinare da un’
improvvisa sospensione dell’ approvvigionamento idrico potabile.
14.
Ricostruiti sommariamente i fatti secondo le diverse prospettazioni
di parte, osserva il Collegio che ai fini del decidere occorre
previamente accertare l’ammissibilità del ricorso, esaminando le
numerose eccezioni opposte dalle Amministrazioni resistenti. In primo
luogo, quanto alla legittimazione ad agire già riconosciuta dal
Tribunale in sede di sommaria delibazione, il Collegio osserva che il
Codacons è qualificato come associazione di protezione ambientale ai
sensi dell’art. 13 l. n. 349 del 1986 e ciò risulta sufficiente ai
fini della proposizione del presente ricorso, in quanto come tale ha
la legittimazione ad agire in giudizio, oltre che per la tutela degli
interessi individuali suoi propri come soggetto giuridico, anche per
la difesa degli interessi recepiti nelle finalità statutarie (art. 3
1egge n. 281 del 1998; art. Il 1. n. 266 del 1991; art. 18 1. n. 349
del 1986), e tra essi vi sono, oltre la tutela ambientale la salute,
il buon andamento dei servizi pubblici essenziali e della Pubblica
Amministrazione e l’incolumità pubblica.
Inoltre,
seppur solo “ad adiuvandum”, è necessario ricordare che il
Codacons è una Associazione dei consumatori iscritta nell’elenco
delle Associazioni dei consumatori e degli utenti rappresentative a
livello nazionale di cui all’art. 137 del D.Lgs. 206/2005 (Codice
del Consumo) e successive modificazioni, e per Statuto ha quale
finalità esclusiva “quella di tutelare con ogni mezzo legittimo,
ivi compreso il ricorso allo strumento giudiziario, i diritti e gli
interessi dei consumatori ed utenti… (anche) nei confronti dei
soggetti pubblici e privati, produttori e/o erogatori di beni e
servizi”.
Lo
stesso Codice del Consumo, all’art. 2, elenca espressamente i
diritti riconosciuti come fondamentali ai consumatori e agli utenti,
quali: “a) alla tutela della salute; b) alla sicurezza e alla
qualità dei prodotti e dei servizi; c) ad una adeguata informazione
a ad una corretta pubblicità; d) all’educazione al consumo; e)
alla correttezza, alla trasparenza ed all’equità nei rapporti
contrattuali; j) alla promozione e allo sviluppo dell’associazionismo
libero, volontario e democratico tra i consumatori e gli utenti; g)
all’erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità e
di efficienza”. Quale Associazione inserita nell’elenco di cui
all’art. 137 del Codice del Consumo, il Codacons è inoltre
legittimato, nei casi previsti, “ad agire a tutela degli interessi
collettivi dei consumatori e degli utenti richiedendo al Tribunale:
a) di inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei
consumatori e degli utenti; b) di adottare misure idonee a correggere
o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate…”.
Analoghe
e ancora più stringenti considerazioni valgono per l’Associazione
utenti dei servizi pubblici, che persegue quale scopo statutario
quello di tutelare i diritti e gli interessi degli associati e dei
cittadini nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni che
gestiscono servizi pubblici, e comunque, osserva il Collegio, la
questione della legittimazione delle Associazioni ricorrenti non
appare dirimente per l’esame della controversia nel merito,
considerata la indubitabile legittimazione dei privati che agiscono
quali singoli utenti, in forza delle utenze indicate, del servizio
idrico limitato dalle ordinanze impugnate.
15.
Osserva altresì il Collegio che è stato preliminarmente eccepito il
difetto di giurisdizione del Giudice adito, vertendo la controversia
-secondo la tesi di parte resistente- intorno ad un problema di
riduzione della tariffa imposta per la fornitura di un servizio
pubblico, sulla base di quanto disposto dall’art. 133 lett c)
c.p.a., che devolve alla giurisdizione esclusiva del G.A. “le
controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di
pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed
altri corrispettivi “.
Parte
ricorrente ribatte che la propria pretesa avente ad oggetto
l’adozione da parte dei comuni di provvedimenti finalizzati al
ribasso delle tariffe, sia come minor compenso di un minor servizio
erogato, sia – per i comuni dove il problema e’ in atto rimosso e
l’acqua e’ oggi potabile – come ulteriore pretesa ad ottenere
il risarcimento di tutti i danni subiti, (così come la pretesa a
vedere ordinata alle amministrazioni resistenti l’adozione di tutte
le misure più idonee a tutelare la propria situazione giuridica
soggettiva, lesa per effetto della loro inerzia ai sensi dell’art.
34, comma 1 lett. b e lett. c), concernono con tutta evidenza una
questione connessa all’esercizio di un potere pubblico, e non
rapporti individuali di utenza, essendo finalizzate all’annullamento
di atti (le ordinanze comunali) che costituiscono il frutto di un
esercizio illegittimo del potere. Non può, infatti, dubitarsi,
prosegue parte ricorrente, che, allorquando la questione involga la
verifica della legittimità dell’azione autoritativa della pubblica
amministrazione esercitata attraverso lo svolgimento di un potere
discrezionale, cui si contrappone una situazione giuridica soggettiva
di interesse legittimo, la controversia sia attratta nella sfera di
competenza giurisdizionale del giudice amministrativo. A tal fine,
viene invocata la giurisprudenza amministrativa (T.A.R. Campania, n.
24/2009) formatasi in una controversia attinente alla stessa materia,
in cui il Giudice adito, in via preliminare, ha respinto la questione
pregiudiziale relativa al difetto di giurisdizione, ritenendo
sussistente la giurisdizione amministrativa in quanto il thema
decidendum riguardava proprio l’atto autoritativo con cui erano
stati definiti i criteri per la parametrazione della tariffa dovuta
da ogni singolo utente del servizio idrico, in ragione dell’
esercizio di un potere discrezionale. Conf. Consiglio di Stato, Sez.
VI, 10 maggio 2007, n. 2239; T.A.R. Lazio, Latina, 24 giugno 2006, n.
406; nonché Cassazione civile, Sez. Un., 10 settembre 2004, n. 18263
e 13 ottobre 1997, n. 9962, secondo cui, laddove si contesti
l’organizzazione del servizio sotto vari profili (qualità
dell’acqua, perdite nella rete e nelle condotte di adduzione,
registrazione dei consumi presso gli uffici pubblici) e si sostenga
che il servizio non si presenta pienamente fruibile per il
consumatore, la giurisdizione va riservata al giudice amministrativo,
in quanto la domanda non censura “incidenter tantum” il
provvedimento amministrativo, chiedendone la disapplicazione ai fini
della tutela del diritto soggettivo al pagamento di un canone
contrattualmente stabilito, ma investe in via principale le scelte
discrezionali dell’ente in ordine alla determinazione del canone e
contesta l’organizzazione del servizio, facendo valere una
situazione giuridica qualificabile come interesse legittimo correlato
ad un atto adottato dall’ente territoriale come autorità
nell’esercizio di una potestà amministrativa.
16.
Al riguardo, il Collegio ritiene necessario avviare il ragionamento
dal disposto dell’art. 133, lett. c) c.p.a. che, escludendo dalla
giurisdizione esclusiva le controversie concernenti indennita’,
canoni ed altri corrispettivi “in materia di pubblici servizi
relative a concessioni di pubblici servizi”, la prevede invece
nelle controversie “relative a provvedimenti adottati dalla
pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un
procedimento amministrativo”. Pertanto, essendo stata contestata
proprio la legittimità di provvedimenti che hanno implicitamente
ribadito la doverosità del corrispettivo a fronte dell’ erogazione
di acqua non potabile, viene in rilievo l’esercizio di un potere
discrezionale dell’ amministrazione. La predetta circostanza vale a
qualificare la competenza di questo Tribunale in sede di
giurisdizione esclusiva per i servizi pubblici locali, attenendo la
controversia, in realtà, non alla determinazione della tariffa
finale per l’utente, bensì alla stessa individuazione autoritativa
dell’idoneità del servizio pubblico in esame sotto il profilo
della pubblica salute, nonché alla verifica dell’eventuale lesione
del diritto alla salute conseguente alla errata disciplina
pubblicistica del medesimo servizio, radicando la cognizione presso
questo Giudice ai sensi dell’art. 133, comma 1, lettera c) c.p.a.
17.
In secondo luogo, è stata dedotta l’inammissibilità del ricorso
per carenza di interesse per mancata impugnazione dell’originario
provvedimento lesivo. A questo riguardo, le controparti hanno infatti
rilevato che le ordinanze con le quali era stato disposto il divieto
di utilizzo dell’ acqua per il consumo potabile sono state
“correttamente” adottate “in esecuzione pedissequa della
decisione della Commissione Europea, nonché dell’art. 2 D.M del
24.11.2010, secondo cui “L’acqua distribuita (. . .) non deve
essere utilizzata per il consumo potabile dei neonati e dei bambini
fino all’età di tre anni”, D.M. che, tuttavia, non sarebbe stato
impugnato dai ricorrenti.
I
Comuni resistenti, a propria volta, hanno altresì eccepito il loro
difetto di competenza nella determinazione della tariffa dell’acqua,
richiamando all’uopo il disposto dell’art. 148 del Codice
dell’ambiente e del successivo art. 154, per sostenere l’esclusiva
competenza dell’Autorità d’Ambito -quale soggetto munito di
autonoma personalità giuridica e dunque soggettivamente ben distinto
dai comuni che vi aderiscono- nella determinazione della tariffa di
base.
A
ciò hanno aggiunto il rilievo secondo cui il decreto ministeriale n.
243 del 1996 con cui è stato approvato il metodo normalizzato per la
definizione delle componenti di costo e la determinazione della
tariffa di rifermento del servizio idrico integrato, non avrebbe
inserito tra le componenti della tariffa dell’ acqua la “qualità
della risorsa idrica”, deducendo così che “non sarebbe comunque
possibile una riduzione tariffaria a favore degli utenti che siano
forniti di acqua divenuta non potabile”, e citando al riguardo il
parere espresso dalla Commissione Nazionale per la Vigilanza sulle
risorse idriche, nella parte in cui si conclude per: “l’impossibilità
di prevedere una riduzione tariffaria a favore degli utenti che sono
forniti di acqua non idonea al consumo umano diminuendo una
corrispondente componente dell’attuale tariffa reale media”.
Parte
ricorrente obietta che in capo ai cittadini ricorrenti sussistono
esigenze di giustizia sostanziale, che spaziano dalla necessità di
salvaguardare la propria salute e quella dei propri cari, a quella di
non trovarsi costretti a pagare a prezzo pieno un servizio privo
delle qualità richieste. Infatti, continuano i ricorrenti, la
tariffa dell’acqua è considerata dalla legge quale vero e proprio
“corrispettivo del servizio idrico integrato” ed è determinata
tenendo conto della qualità della risorsa idrica e del servizio
fornito”, ed inoltre che la competenza alla sua determinazione e
rimodulazione è da ritenersi attribuita proprio agli enti locali,
che provvedono, nelle forme di Autorità di Ambito quale sistema di
gestione dei segmenti di servizio riferiti all’adduzione,
captazione, distribuzione di acqua ad usi civili, fognatura e
depurazione delle acque reflue facendo applicazione del “Metodo
Normalizzato per la definizione delle componenti di costo e la
determinazione della tariffa di riferimento del servizio idrico
integrato”, di cui al d.m. l agosto 1996, emanato in attuazione
dell’articolo 13 della legge 36/1994, che continua ad applicarsi in
base all’articolo 170, comma 3, lettera l), del d.lgs. 152/2006.
18.
A giudizio del Collegio non può essere revocata in dubbio la
sussistenza di un interesse concreto, differenziato ed attuale dei
ricorrenti, Associazioni ed utenti del servizio idrico, alla
decisione da parte del Giudice amministrativo delle proprie diverse
domande, formulate nel ruolo, da un lato, di statutaria
rappresentanza degli interessi della generalità degli utenti e,
dall’altro, di taluni degli stessi utenti, ed in entrambi i casi
non concernenti direttamente le modalità di prestazione del servizio
all’utente finale, bensì il legittimo esercizio dei poteri
autoritativi della pubblica autorità relativi alla disciplina del
servizio pubblico in esame, sotto i plurimi profili del rispetto
della vigente normativa (e non delle specifiche condizioni
contrattuali) circa la idoneità (più che la qualità) del servizio
prestato, e circa la necessaria tutela del diritto alla salute che
potrebbe esserne pregiudicato.
Da
questo punto di vista, i ricorrenti espongono altresì il proprio
interesse all’adozione delle misure più idonee alla soluzione del
problema dell’arsenico nell’acqua e alla riduzione delle tariffe,
cui corrisponderebbe l’obbligo dei comuni di provvedere alla
riduzione delle tariffe dell’acqua ad uso potabile sino ad oggi
praticate per effetto della diminuzione di qualità del servizio
idrico erogato. L’iniziativa dei ricorrenti di concentrare in un
unico giudizio più domande nei confronti delle amministrazioni
convenute nascerebbe dall’esigenza di assicurare agli utenti
rappresentati una tutela piena ed effettiva dell’interesse fatto
valere in giudizio.
Infine,
a giudizio del Collegio neppure può essere accolta la descritta
eccezione di carenza di interesse o tardività con riferimento alla
mancata impugnazione dell’originario decreto ministeriale del 21
novembre 2010, alla stregua della ricostruzione sistematica offerta
dai ricorrenti, secondo cui la competenza in materia tariffaria
competerebbe esclusivamente agli Enti locali i cui decreti sono stati
tempestivamente impugnati, fermi i poteri dell’Amministrazione
centrale di predisporre i relativi criteri, ovvero di adottare il
“Metodo Normalizzato per la definizione delle componenti di costo e
la determinazione della tariffa di riferimento del servizio idrico
integrato”, di cui al d.m. l agosto 1996, emanato in attuazione
dell’articolo 13 della legge 36/1994.
19.
A giudizio del Collegio neppure appare dubbia la legittimazione
passiva di tutte le Amministrazioni intimate: sicuramente quanto alle
Amministrazioni locali che vorrebbero ritenersi escluse in quanto
tenute all’applicazione del predetto “metodo normalizzato”,
essendo le stesse, comunque, autrici delle ordinanze d’urgenza
impugnate, e di cui a torto o a ragione i ricorrenti deducono
l’illegittimità, ma anche quanto alle altre Amministrazioni,
statali, regionali e provinciali autonome, poiché munite di poteri
pubblicistici di disciplina e vigilanza in materia di adozione di
prescrizioni sanitarie vincolanti e di formulazione dei criteri per
la concreta formazione delle tariffe (le Regioni ed i Ministeri),
ovvero, ancora, poiché in astratto tutte potenzialmente responsabili
o corresponsabili del danno lamentato dai ricorrenti. Infatti, il
D.lgs. n.31/2001 pone in capo allo Stato, alle Regioni ed ai Comuni
-per ciò che concerne la problematica della salubrità delle acque-
degli obblighi precisi, al fine di ottenere l’autorizzazione a
derogare per periodi di tempo determinati ai parametri massimi di
arsenico consentito nell’acqua potabile, obblighi che secondo i
ricorrenti non sarebbero stati assolti correttamente con grave danno
per gli utenti e per la popolazione coinvolta.
In
particolare, quanto al potere di stabilire deroghe ai parametri
fissati dalla legge, l’art. 13 del D.lgs. n. 31/01 attribuisce al
Ministero della Sanità, di concerto con il Ministero dell’Ambiente
e della Tutela del Territorio e del Mare su motivata richiesta della
Regione o Provincia autonoma, il potere di individuare il limite
entro cui sono ammissibili le deroghe ai parametri di legge, mediante
l’adozione di apposito decreto che deve essere dettagliatamente
motivato attraverso l’indicazione dei seguenti dati:
a)
motivi della richiesta di deroga con indicazione della causa del
degrado della risorsa idrica;
b)
i parametri interessati, i risultati dei controlli effettuati negli
ultimi tre anni, il valore massimo ammissibile proposto e la durata
necessaria di deroga;
c)
l’area geografica, la quantità di acqua fornita ogni giorno, la
popolazione interessata e gli eventuali effetti sulle industrie
alimentari interessate;
d)
un opportuno programma di controllo che preveda, se necessario, una
maggiore frequenza dei controlli rispetto a quelli minimi previsti;
e)
il piano relativo alla necessaria azione correttiva, compreso un
calendario dei lavori, una stima dei costi, la relativa copertura
finanziaria e le disposizioni per il riesame.
In
ogni caso, il Ministero della sanità, entro due mesi dall’adozione
della deroga, è tenuto a comunicare alla Commissione europea i
provvedimenti adottati e i risultati conseguiti, dai quali
chiaramente viene fatta dipendere l’autorizzazione o meno alla
deroga.
Per
quanto riguarda invece le Regioni e le Province Autonome, l’art. 12
D.lgs.vo n. 31/2001 ha individuato, tra le altre, le seguenti
competenze:
a)
previsione di misure atte a rendere possibile un approvvigionamento
idrico di emergenza per fornire acqua potabile rispondente ai
requisiti previsti dall’allegato I, per la quantità ed il periodo
minimi necessari a far fronte a contingenti esigenze locali;
b)
esercizio dei poteri sostitutivi in casi di inerzia delle autorità
locali competenti nell’adozione dei provvedimenti necessari alla
tutela della salute umana nel settore dell’approvvigionamento
idrico e potabile;
c)
concessione delle deroghe ai valori di parametro fissati all’allegato
I parte B o fissati ai sensi dell’articolo Il, comma l, lettera
b),e gli ulteriori adempimenti di cui all’articolo 13;
d)
adozione di piani di intervento per il miglioramento della qualità
delle acque destinate al consumo umano.
20.
Accertata l’ammissibilità del ricorso e delle sue censure e
domande e la legittimazione attiva e passiva dei suoi diversi
protagonisti, il Collegio deve procedere all’esame del merito delle
complesse questioni dedotte ordinandole, per chiarezza di esame ed
esposizione, in ordine logico secondo le diverse domande proposte.
21.
Viene, dunque, innanzitutto in rilievo la domanda di annullare in
parte qua le ordinanze con cui i comuni resistenti hanno disposto la
non potabilità e l’inibizione dell’uso delle acque destinate al
consumo umano, nella parte in cui hanno omesso di prevedere una
riduzione delle tariffe per il consumo dell’ acqua potabile, con
l’ulteriore domanda –che ne costituisce il logico corollario –
di inibire, ai sensi dell’ art. 140 del Codice del Consumo, gli
atti e i comportamenti tenuti dalle Amministrazioni odierne
resistenti e, per l’effetto, di ordinare alle stesse di attivarsi
nel porre in essere le attività di propria competenza, al fine di
consentire la determinazione al ribasso delle tariffe oggi praticate
dalle Autorità d’Ambito in favore degli abitanti di tutti i comuni
in cui l’acqua è stata espressamente dichiarata non potabile
disponendo se necessario, ai sensi dell’art. 34, comma 2, lett. e)
c.p.a., le misure idonee ad assicurare l’attuazione della sentenza
da emanarsi in esito al presente giudizio, ivi comprese la nomina di
un commissario ad acta e l’attivazione delle misure di controllo
sostitutivo previste dall’art. 120 della Costituzione.
Il
Collegio si è già sopra espresso per l’ammissibilità delle
domande in esame, che possono peraltro trovare accoglimento nel
merito solo in parte, dovendo essere respinte per tutti gli ulteriori
profili.
Infatti,
la ritenuta giurisdizione del Giudice amministrativo è radicata
sulla connessione della questione all’esercizio di un potere
autoritativo discrezionale riferito alla disciplina generale del
servizio, che in questo caso ha riguardato l’adozione di
provvedimenti recanti misure urgenti in materia di approvvigionamento
idrico-potabile, ai sensi dell’articolo 32 della legge 23 dicembre
1978, n. 833, in materia di emergenze sanitarie e di igiene pubblica
e, quindi, del tutto estranei alla materia tariffaria. Ne discende
che i poteri d’urgenza attivati con gli impugnati provvedimenti non
potevano estendersi a previsioni tariffarie e che, quindi, la mancata
introduzione di tali profili non può in alcun caso revocare in
dubbio la loro legittimità, tanto più che la definizione delle
tariffe, alla stregua delle disposizioni applicabili pro tempore alla
fattispecie nel quadro di una normativa pur in costante mutamento
(artt. 148 e 154 del Codice dell’ambiente), è di esclusiva
competenza dell’Autorità d’Ambito, quale soggetto munito di
autonoma personalità giuridica e dunque soggettivamente ben distinto
dai comuni che pure vi aderiscono legittimandoli.
Non
avendo i Comuni, legittimamente, introdotto le variazioni tariffarie
nei propri provvedimenti e non essendo, inoltre, i Comuni
direttamente competenti a variare le tariffe in esame, è evidente la
non accoglibilità anche della successiva domanda esaminata in ordine
logico-sequenziale, di ordinare agli stessi Comuni di fare ciò che
non hanno potuto fare con gli atti impugnati, né la domanda può
essere accolta con riferimento a Stato e Regioni, alla stregua della
disciplina sopravvenuta al recente referendum abrogativo, che impone
ai ricorrenti di riformulare la domanda e se del caso di ricorrere
contro il diniego o il silenzio, fermo restando che in nessun nodo la
riduzione della tariffa attuale (che va parametrata al servizio oggi
fornito) potrà tener conto di eventuali limitazioni passate del
servizio (che potrebbero casomai motivare eventuali richieste
indennitarie o risarcitorie).
22.
In ogni caso, osserva il Collegio, alla data in cui il Codacons ha
diffidato gli Enti locali e regionali intimati, ai sensi dell’art.
140 del Codice del Consumo, ad adottare tutti i provvedimenti
ritenuti più opportuni, in conformità con la legge, a risolvere il
problema dell’acqua contaminata con l’arsenico, atto
necessariamente presupposto per la successiva proposizione del
ricorso contro l’adozione delle richieste misure, gli stessi Enti
non avrebbero potuto in alcun modo darvi ottemperanza, essendo tenuti
al rispetto del più volte citato “Metodo normalizzato” di
determinazione delle tariffe fissato in ambito nazionale, che non
contemplava tale possibilità.
Peraltro,
il Collegio prende atto che, sotto il profilo della legittimità, il
decreto ministeriale n. 243 del l agosto 1996, ormai in via di
superamento alla stregua della sopravvenuta normativa, essendo stato
emanato in attuazione dell’articolo 13 della legge 36/1994 (e poi
richiamato dall’articolo 170, comma 3, lettera l), del d.lgs.
152/2006), palesava prima facie la propria illegittimità sul punto,
per l’insanabile contrasto con la norma di cui all’art. 13 della
stessa legge n. 36/1994, che invece prevedeva che la tariffa fosse
determinata “tenendo conto della qualità della risorsa idrica e
del servizio fornito”, oltrechè “delle opere e degli adeguamenti
necessari, dell’entità dei costi di gestione delle opere,
dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito e dei
costi di gestione delle aree di salvaguardia, in modo che fosse
assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di
esercizio” (disposizione ripresa in maniera pressoché integrale
dall’art. 154 del D. Lgs. 152/2006), comprendendo la “qualità
della risorsa idrica” e la “qualità del servizio fornito” fra
i parametri da utilizzare.
Più
in generale, a giudizio del Collegio, alla stregua della normativa
nazionale e comunitaria costituisce un chiaro principio di diritto la
necessità che la tariffa prefissata in via generale per l’utenza
di un servizio pubblico locale di rilevanza economica sia fissata
sulla base del servizio effettivamente fornito al singolo utente
(esulando del tutto tale pagamento dai diritti riconducibili a
strumenti di fiscalità generale, fatte salve le eventuali “fasce
sociali”), e che pertanto la tariffa, in particolare se il servizio
-come nella fattispecie e di regola accade- sia gestito in condizioni
non concorrenziali e non consenta la scelta dei consumatori fra
fornitori diversi, non possa essere unicamente parametrata ai costi
ed investimenti prescindendo dalla valutazione della effettiva
adeguatezza e qualità del servizio prestato e fruito dai
consumatori.
23.
I ricorrenti chiedono inoltre al Tribunale di voler accertare e
dichiarare la responsabilità e, per l’effetto, condannare le
Amministrazioni Ministeriali e Regionali resistenti al risarcimento
del danno complessivamente arrecato agli stessi ricorrenti quali
utenti del servizio idrico, da valutarsi in via equitativa nella
somma di €.600 pro capite, ovvero nella maggiore o minor somma che
sarà ritenuta di giustizia, di cui €.100 commisurati al costo
sostenuto procapite all’ anno per il consumo di acqua potabile, e i
restanti €.500 a titolo di danno patrimoniale, di danno biologico e
di danno morale.
Il
Collegio, premessa la competenza di questo Tribunale alla decisione
sulla domanda nell’ambito della propria giurisdizione esclusiva, ha
già dato conto delle ampie deduzioni fornite in sede istruttoria
dalle Amministrazioni resistenti, secondo le quali il loro operato è
stato del tutto adeguato, in relazione all’esigenza di assicurare
il servizio idrico in presenza di condizioni ambientali naturali
particolarmente avverse, ai fini della corretta attuazione di una
disciplina comunitaria che, essendo già molto cautelativa per la
tutela degli interessi sanitari, osterebbe all’applicabilità
dell’ulteriore “principio di precauzione” invocato dai
ricorrenti.
I
ricorrenti, al contrario, pur dando atto che il “problema”
arsenico nella maggior parte dei casi è di origine naturale e non
derivante da attività antropiche, rilevano che lo stesso avrebbe
potuto essere risolto definitivamente programmando per tempo i
necessari investimenti pubblici, e che sarebbe ravvisabile una
evidente “colpevolezza” della P.A. per violazione dei principi di
buon andamento e imparzialità, economicità, efficacia, pubblicità
e trasparenza, mediante un atteggiamento inerte e superficiale,
noncurante del danno recato (citando Consiglio di Stato, sez. V, 8
settembre 2008, n. 4242, e Corte di Cassazione, sez. III, 21 ottobre
2005, n. 20358 secondo cui “l’illegittimità dell’atto è solo
un fattore concorrente ad integrare l’illiceità della condotta, la
quale deve essere verificata in base al rispetto delle regole proprie
dell’azione amministrativa, poste con norme costituzionali
(imparzialità e buon andamento), con norme di legge ordinaria
(celerità, efficienza, efficacia, trasparenza), o da principi
generali dell’ordinamento, come applicati dall’interprete
(ragionevolezza, proporzionalità, adeguatezza) “). Ancora secondo
i ricorrenti, per la giurisprudenza amministrativa più recente, la
colpa della Pubblica Amministrazione si configura ogniqualvolta
questa ponga in essere una “violazione dei canoni di imparzialità,
correttezza e buona amministrazione”, ovvero qualora il suo
comportamento sia caratterizzato da “negligenza, omissioni o anche
errori interpretativi di norme, ritenuti non scusabili” (citando
Consiglio di Stato, sez. VI, 27 aprile 2010, n.2384).
In
particolare, secondo i ricorrenti, l’adozione dei decreti di deroga
ai parametri di legge sull’arsenico avrebbe dovuto presupporre lo
svolgimento di un iter ben preciso, coinvolgendo tanto lo Stato
quanto le Regioni a tutela delle popolazioni interessate.
Dunque,
il dovere di attivarsi per risolvere all’origine il problema della
contaminazione delle acque con sostanze quali l’arsenico, è
demandato esclusivamente allo Stato e alle Regioni, mentre in forza
di quanto previsto al titolo II, Sez. III, del Codice dell’Ambiente,
agli enti locali sarebbe stata demandata, attraverso le Autorità
d’Ambito, la sola attività di gestione e manutenzione del servizio
idrico, salvo il dovere dello Stato di sostituirsi comunque a Regioni
ed Enti locali in caso di “pericolo grave per l’incolumità e la
sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedano ( … ) la tutela dei
livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e
sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali”
(art. 120 Cost.), in questo modo addossando comunque allo Stato la
responsabilità dell’insalubrità delle acque.
24.
Quanto al danno ingiusto lamentato dagli abitanti dei comuni
coinvolti dalla decisione della Commissione Europea, e direttamente
riconducibile alle inadempienze perpetrate per due trienni
consecutivi da parte dell’Amministrazione pubblica, devono essere
considerati, secondo i ricorrenti, più profili:
-
innanzitutto, la spesa sostenuta da ciascun cittadino quale
intestatario della bolletta dell’acqua, a titolo di corrispettivo
per un servizio che non è stato adeguatamente prestato, con
risarcimento parametrato al costo procapite annuo per il consumo di
acqua potabile, stimato in via equitativa in €. 100, considerando
il costo medio delle bollette e il fatto che l’inadempimento da
parte della P .A. si è protratto per 6 anni, a far data
dall’emissione del primo decreto di deroga, fino all’emanazione
delle ordinanze di non potabilità oggetto del presente giudizio.
-
inoltre, la somma di €.500 in favore di ciascuno dei ricorrenti,
calcolata in via equitativa a titolo di risarcimento del danno
patrimoniale, biologico e morale subito: il danno patrimoniale
sarebbe costituito dalle spese vive che ciascun ricorrente è stato
costretto a sostenere dal momento in cui è venuto a conoscenza del
pericolo per la propria salute e per quella dei suoi familiari
derivante dall’ingestione costante nel tempo di acqua contaminata
dall’arsenico. A questo riguardo, ribadiscono i ricorrenti, la
consapevolezza della presenza di arsenico nell’ acqua in
quantitativi superiori di 3, 4, 5 volte le soglie ammesse, è potuta
avvenire solo nel momento in cui si è avuta conoscenza delle
ordinanze oggetto del presente giudizio, posto che, fino a quel
giorno, la popolazione non era stata minimamente informata e perciò
aveva continuato a bere e a cucinare con l’acqua contaminata del
rubinetto. Infatti, proseguono i ricorrenti, il problema della
presenza di arsenico oltre ogni limite di tolleranza nell’acqua di
128 comuni italiani era noto da tempo all’amministrazione statale e
a quelle regionali, che hanno abusato dello strumento della deroga
messo a disposizione dalla legge al di fuori di ogni previa
istruttoria, persistendo nel voler tenere all’oscuro la
popolazione, tanto dei quantitativi di arsenico effettivamente
presenti nelle acque dei territori interessati, quanto dei rischi
connessi all’ ingestione di tale sostanza.
Il
danno biologico, a propria volta, andrebbe ravvisato nell’ evidente
incidenza negativa che ha avuto per la salute di ciascuno degli
odierni ricorrenti l’ingestione sino ad oggi quotidiana di acqua
contaminata dall’arsenico.
In
ultimo, i ricorrenti chiedono il riconoscimento del danno morale,
connesso alla paura per la propria salute, ragionevolmente sorta in
capo a ciascuno degli abitanti dei comuni in cui è stata riscontrata
la presenza di arsenico nell’acqua oltre i limiti di legge, per
aver consumato in modo costante negli anni un’acqua pericolosamente
contaminata.
Al
riguardo, i ricorrenti rinviano alle conclusioni della perizia di
parte redatta da un medico loro consulente tecnico, secondo cui la
consapevolezza della minaccia costituita da livelli di arsenico
nell’acqua potabile erogata potenzialmente tossici produce nella
popolazione una condizione di vulnerabilità e di impotenza psichica,
nell’impossibilità di porre in essere idonee misure
comportamentali protettive, individuali o collettive, generando uno
stato di stress continuo in grado di aprire la strada ad altre
minacce alla salute, oppure aggravare quelle già in atto, quali le
psicopatie, le patologie tumorali, le patologie infettive e le
patologie cardiovascolari ed inoltre creando il rischio di meccanismi
psicologici di rifiuto di prendere consapevolezza della minaccia
senza tutelare la propria salute.
I
ricorrenti richiamano inoltre la giurisprudenza (Cass. Civ. n.
11059/09) formatasi in relazione ai danni subiti dai cittadini
residenti vicino all’impianto di Seveso per la fuoriuscita di una
nube tossica composta da diossina, secondo cui il patema d’animo
derivante dalla paura di possibili ripercussioni sulla salute
provocate dall’essere stati esposti ad un ambiente inquinato da
sostanze tossiche, deve essere risarcito come danno morale. D’altra
parte, proseguono i ricorrenti, con la sentenza n. 25187/2007 la
giurisprudenza di legittimità aveva già evidenziato che “alla
risarcibilità del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. non
osterebbe l’impossibilità di qualificare il fatto dannoso in
termini di reato”, sul presupposto per cui il limite derivante
dalla riserva di legge correlata all’art. 185 c.p. va superato in
quanto il risarcimento dei danni non patrimoniali deve essere
riconosciuto in tutte le ipotesi in cui il fatto illecito violi un
valore costituzionalmente garantito della persona, indipendentemente
dalla circostanza che il fatto integri o meno un’ipotesi di reato
(citando SS. UU. sentenze nn. 26972, 26973, 26974 e 26975 de12008).
Nel
caso di specie, in particolare, secondo i ricorrenti sarebbero
configurabili, in astratto, una o più ipotesi di reato a carico dei
dirigenti delle amministrazioni coinvolte, considerando, con
riferimento alla fattispecie di cui all’art. 449 c.p., la
configurabilità di un pericolo grave per la vita o l’incolumità
delle persone indeterminatamente considerate, alla luce della
giurisprudenza (Cass.Pen. n. 5820/2000) secondo cui è necessaria una
concreta situazione di pericolo per la pubblica incolumità nel senso
della ricorrenza di un giudizio di probabilità relativo
all’attitudine di un certo fatto a ledere o mettere in pericolo un
numero non individuabile di persone, anche se appartenenti a
categorie determinate di soggetti; ed, inoltre, l’effettività
della capacità diffusiva del nocumento deve essere accertata in
concreto, ma la qualificazione di grave pericolosità non viene meno
allorché, casualmente, l’evento dannoso non si sia verificato.
25.
La questione ora in esame, oltreché estremamente delicata e
rilevante per la possibile incidenza sul diritto alla salute di un
numero dei soggetti potenzialmente pregiudicati superiore ad un
milione, è particolarmente complessa sul piano tecnico e giuridico,
ed a giudizio del Collegio deve essere ricostruita innanzitutto alla
stregua della disciplina di diritto comunitario, a partire dal
“principio di precauzione”.
Si
tratta di un principio generale ormai codificato in ambito europeo e
riconosciuto dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale, che fa
obbligo alle Autorità competenti di adottare provvedimenti
appropriati al fine di prevenire i rischi potenziali per la sanità
pubblica, per la sicurezza e per l’ambiente, ponendo una tutela
anticipata rispetto alla fase dell’applicazione delle migliori
tecniche proprie del principio di prevenzione, e che quindi esige di
verificare preventivamente che l’attività in esame non danneggi
l’uomo o l’ambiente, facendo prevalere la protezione di tali
valori sugli interessi economici (T.A.R. Lombardia, Brescia, n. 304
del 2005, TRGA Trentino-Alto Adige, TN, 8 luglio 2010 n.171),
indipendentemente dall’accertamento di un effettivo nesso causale
tra il fatto dannoso o potenzialmente tale e gli effetti
pregiudizievoli che ne derivano, come più volte statuito anche dalla
Corte di Giustizia comunitaria, secondo la quale l’esigenza di
tutela della salute umana diventa imperativa già in presenza di
rischi solo possibili, ma non ancora scientificamente accertati,
atteso che la regola della precauzione può essere considerata come
un principio autonomo che discende dalle disposizioni del Trattato
(Corte di Giustizia CE, 26.11.2002 T132; sentenza 14 luglio 1998,
causa C-248/95; sentenza 3 dicembre 1998, causa C-67/97, Bluhme;
Cons. Stato, VI, 5.12.2002, n.6657; T.A.R. Lombardia, Brescia,
11.4.2005, n.304).
Secondo
la giurisprudenza formatasi sul punto, dunque, l’applicazione del
principio di precauzione comporta che, ogni qual volta non siano
conosciuti con certezza i rischi indotti da un’attività
potenzialmente pericolosa, l’azione dei pubblici poteri debba
tradursi in una prevenzione anticipata rispetto al consolidamento
delle conoscenze scientifiche, anche nei casi in cui i danni siano
poco conosciuti o solo potenziali.
26.
Il predetto principio deve essere coordinato con quelli di libera
concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione dei
servizi fissati dal Trattato dell’Unione Europea, che attribuisce
inoltre alla stessa Unione precipui compiti di tutela ambientale e
sanitaria della popolazione sull’intero territorio comunitario. Ciò
implica, secondo l’univoca giurisprudenza della Corte di Giustizia
richiamata dalle Amministrazioni resistenti, che, in presenza di una
disciplina armonizzata a livello comunitario che dichiaratamente
assicura una tutela esaustiva di un particolare profilo sanitario, il
principio di precauzione deve ritenersi assorbito dalla medesima
disciplina, con la conseguente legittimità delle attività nazionali
svolte in ottemperanza a tali previsioni.
Pertanto,
a giudizio del Collegio non può essere ravvisata né una particolare
antigiuridicità per violazione di disposizioni giuridiche o di norme
tecniche o di cautela, né un particolare profilo soggettivo di dolo
o colpa nella valutazione dell’interesse pubblico sanitario, nel
comportamento delle Amministrazioni che, nell’attuare (ciascuna per
quanto di competenza) la nuova disciplina armonizzata di cui alla
direttiva 98/83/CE, recepita con il Dlgs 2 febbraio 2001, n. 31 e
concernente la qualità delle acque destinate al consumo umano, hanno
attivato il previsto istituto della possibile deroga dei previsti
limiti di concentrazione di talune sostanze tossiche e nocive in
relazione alle criticità più rilevanti derivanti dalla presenza in
falda dei minerali presenti nel sottosuolo vulcanico del territorio
italiano, con riferimento fra l’altro alla concentrazione massima
di arsenico pari a 10 ug/l (microgrammi per litro), adottando il
valore massimo di 50 ug/l ammesso dalla previgente disciplina
nazionale (DPR 24 maggio 1988 n. 265) ai fini dell’ottemperanza
all’obbligo di rispettare comunque un valore massimo ammissibile
quando non sia possibile rispettare provvisoriamente il nuovo limite
e neppure sia possibile l’approvvigionamento d’acqua con altro
mezzo congruo, e purché ciò non rappresenti un potenziale pericolo
per la salute umana.
Le
precedenti considerazioni secondo il Collegio precludono il richiesto
risarcimento del danno, in relazione alla prestazione del servizio
idrico in conformità alla vigente disciplina nazionale e
comunitaria, né appare possibile alcuna rivalsa risarcitoria dei
ricorrenti nei confronti degli enti locali, per la mancata
parametrazione delle tariffe alla diminuita qualità del servizio, in
quanto una tale possibilità era loro preclusa dal più volte citato
“Metodo Normalizzato” solo ora impuganto ed annullato in sede
giurisdizionale.
27.
Si è così giunti alla nota in data 13 novembre 2009 con cui
l’Amministrazione italiana richiede, ai sensi del citato art. 13,
comma 6, del D. Lgs. n. 31/2001, il necessario parere della
Commissione europea ai fini dell’ottenimento del terzo ed ultimo
periodo di deroga, per il triennio 2010-2012, al limite massimo
consentito dalla legge per l’arsenico nell’acqua (da l0 ug/l fino
a 50 ug/l) per 128 comuni, di cui 91 nel Lazio, 8 in Lombardia, l0
nelle Province Autonome di Trento e Bolzano, 16 in Toscana e 3 in
Umbria, interessando circa un milione di utenti (1.009.455 persone,
secondo i ricorrenti).
La
Commissione europea, peraltro, in questa occasione reputa opportuno
chiedere un approfondimento della complessa documentazione relativa
alla situazione italiana al Comitato Scientifico dei Rischi Sanitari
ed Ambientali, che con parere in data 16 aprile 2010 ritiene che
esista ancora oggi un dubbio scientifico circa il reale rischio
sanitario di determinate concentrazioni di arsenico nell’acqua
destinata al consumo umano, tant’è che la maggior parte degli
studiosi afferma che un valore di arsenico nell’acqua destinata al
consumo umano fino a 50 ug/l non rappresenti un rischio addizionale
per la popolazione, mentre solo una minoranza di esperti indica una
aumentata probabilità di rischio per livelli superiori a 20 ug/l,
soprattutto per i neonati non allattati al seno o esposti ad altri
inquinanti come il fumo passivo.
A
questo punto, la Commissione europea fa essa stessa ricorso al citato
“principio di precauzione” ed il 28 ottobre 2010 si pronuncia
definitivamente, ritenendo di non poter accordare le deroghe
richieste per l’arsenico in concentrazioni superiori a 20 ug/l,
rilevando che “le prove scientifiche nei documenti indicati in
riferimento negli orientamenti dell’Organizzazione mondiale della
sanità e nel parere del comitato scientifico dei rischi sanitari e
ambientali consentono deroghe temporanee fino a 20 ug/l, mentre
valori di 30, 40 e 50 ug/l determinerebbero rischi sanitari
superiori, in particolare talune forme di cancro”, ed aggiungendo
che “Occorre che l’Italia rispetti gli obblighi imposti dalla
direttiva 98/83/CE”.
Con
peculiare riguardo, poi, alle deroghe consentite fino alle date e per
i valori massimi specificati, la Commissione specifica che: “Fatti
salvi gli obblighi fissati nella direttiva 98/83/CE, le deroghe di
cui all’articolo 1, paragrafo 1, sono soggette alle seguenti
condizioni aggiuntive: 1) ai fini del consumo di acqua potabile da
parte dei neonati e dei bambini fino all’età di 3 anni, l’Italia
assicura che la fornitura di acqua rispetti i valori dei parametri
della direttiva 98/83/CE; 2) l’Italia informa gli utenti sulle
modalità per ridurre i rischi legati all’acqua potabile per la
quale è stata concessa la deroga. e in particolare informa gli
utenti sui rischi legati al consumo dell’acqua oggetto di deroga da
parte di neonati e di bambini fino all’età di 3 anni; 3) l’Italia
effettua un monitoraggio regolare dei parametri interessati nel
quadro del regime di monitoraggio di cui all’allegato III; 4)
l’Italia mette in atto i piani di azioni correttive di cui
all’allegato III; 5) l’Italia presenta una relazione annuale sui
progressi realizzati nelle misure correttive di cui all’Allegato
III entro due mesi dalla fine di ogni anno di calendario a partire
dal 2011 “.
28.
Il quadro fattuale e giuridico di riferimento ai fini della decisione
sulla domanda di risarcimento del danno muta, quindi, radicalmente
con la decisione comunitaria del 28 ottobre 2010, resa nota (secondo
quanto indicato dall’Avvocatura dello Stato) in data 5 novembre
2010, quando viene autorevolissimamente evidenziato il pur solo
potenziale rischio sanitario che, in relazione alla gravità delle
conseguenze (“talune forme di cancro”) ed alla entità e
tipologia dei soggetti esposti (un milione di consumatori, con
particolari rischi “soprattutto per i neonati” ed “i bambini
fino all’età di tre anni”), in applicazione del “principio di
precauzione” preclude ogni ulteriore possibile deroga oltre la
soglia di 20 ug/l, esclude del tutto la deroga per i minori di tre
anni ed impone un’attività di informazione di tutti gli utenti
circa i rischi per i bambini fino a tre anni, nonché di progressivo
adeguamento e monitoraggio con relazioni periodiche sui progressi
compiuti, a partire dalla prima relazione che dovrà intervenire,
prevede espressamente la Commissione europea, entro il 28 febbraio
2011.
A
giudizio del Collegio, quindi, è a decorrere dal 5 novembre 2010 e
fino alla data di proposizione del ricorso in epigrafe, che deve
essere valutata la conformità dell’attività di tutte le
Amministrazioni intimate, quale ricostruita dal Tribunale mediante
l’esame dell’imponente e complessa documentazione ottenuta a
seguito della disposta fase istruttoria, al “principio di
precauzione” riferito agli importanti rischi sanitari evidenziati
dalla Commissione europea alla luce delle più recenti acquisizioni
scientifiche ancora in attesa di conferma, e ciò del tutto
indipendentemente sia dalla mancata precedente attivazione delle pur
possibili proroghe, sia dall’eventuale effettivo verificarsi di
specifiche lesioni in danno di specifici soggetti .
In
particolare, dal predetto esame documentale risulta, in estrema
sintesi, che tutte le Amministrazioni regionali e locali costituitesi
in giudizio, nel giudizio in epigrafe e nei giudizi analoghi
contestualmente esaminati dal Collegio, hanno sostanzialmente
adempiuto, pur in tempi e modi diversi, ai propri obblighi relativi
alla gestione ed all’adeguamento del servizio idrico, al
monitoraggio ed alla segnalazione delle criticità relative alla
presenza di sostanze tossiche ed all’adozione, nell’ambito delle
disponibilità di bilancio, delle misure informative della
popolazione, delle misure temporanee sostitutive per la fornitura di
acqua potabile e per la progressiva conformazione del servizio idrico
alle nuove prescrizioni. I ricorrenti, da parte loro, non allegano
principi di prova contrastanti con le predette conclusioni, né
deduzioni di contrario avviso per le Amministrazioni locali non
costituitesi in giudizio o che non hanno fornito specifiche memorie
sul punto.
La
richiesta di risarcimento in esame non può quindi essere accolta con
riguardo ad alcuna Amministrazione regionale e locale, non essendo
emerso alcun fatto antigiuridico potenzialmente causativo di un danno
pur astrattamente risarcibile.
29.
A conclusioni diverse si presta l’esame dell’attività delle
Amministrazioni centrali della Sanità e dell’Ambiente, che pur in
prossimità della scadenza del secondo periodo triennale di deroga e
nelle ulteriori more del necessario parere della Commissione europea
ai fini di un non certo terzo periodo di deroga (in effetti poi
consentito solo in minima parte), non risultano aver adottato
iniziative specifiche, adeguate e proporzionate alla diffusione, alla
gravità ed all’urgenza del problema, alla stregua di un parametro
di buon andamento dell’attività amministrativa ed alla luce delle
più recenti acquisizioni scientifiche sui rischi sanitari connessi.
Si
tratta, osserva il Collegio, di una valutazione assai ardua, in
quanto ben difficilmente riconducibile a parametri giuridici certi ed
influenzata da molteplici variabili tecniche e finanziarie, e quindi
del tutto inidonea al fine di consentire l’individuazione di una
violazione suscettibile di risarcimento del danno nei confronti dei
ricorrenti. E’ però possibile, osserva il Collegio, restringere la
valutazione temporalmente e settorialmente, al fine di valutare
secondo parametri giuridici certi una specifica attività delle
Amministrazioni centrali dello Stato che, lamentano i ricorrenti,
“per almeno due settimane hanno tenuto i cittadini all’oscuro
della decisione comunitaria e dei pericoli legati al consumo delle
acque contaminate”, e “solo dopo tre settimane, di fronte alla
minaccia dell’apertura di una procedura di infrazione nei confronti
dell’Italia per la mancata comunicazione alla popolazione”, hanno
inviato una idonea comunicazione alle Regioni.
Al
riguardo, il Collegio ritiene inammissibile ogni coloritura o
connotazione volta ad attribuire alle attività amministrative in
esame intendimenti in alcun modo accertabili e, comunque, del tutto
irrilevanti, e di doversi quindi attenere al più oggettivo esame
dello svolgimento dei fatti, secondo la documentazione allegata dalle
stese Amministrazioni, a seguito della comunicazione in data 5
novembre 2011 della decisione comunitaria del 28 ottobre
sopraindicata:
-
in data 24 novembre 2010 (dopo 15 giorni) è stato adottato il
decreto del Ministro della Salute d’intesa con il Ministro
dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare di
recepimento della citata decisione comunitaria;
-
in data 30 novembre 2010 (dopo 25 giorni), l’istituto Superiore di
Sanità ha formulato indirizzi circa le limitazioni d’uso delle
acque in regime di deroga;
-
in data 1 dicembre 2010 (il giorno ancora successivo), una nota
dell’apposita Commissione istituita presso il Ministero
dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare ha chiesto
alle Autorità d’ambito interessate di prevedere misure idonee;
-
in data 17 gennaio 2011 (dopo 73 giorni) il predetto decreto è stato
pubblicato sulla Gazzetta uficiale della Repubblica italiana ed in
tale data è entrato in vigore, secondo le previsioni del suo sesto
ed ultimo articolo;
-
ne consegue che solo dopo 73 giorni, le due Amministrazioni hanno
dato concreta ed imperativa attuazione al disposto della Commissione
europea che, in attuazione del principio di prevenzione,
espressamente limitava ed in alcuni casi (per i bambini fino a tre
anni) vietava del tutto la deroga ai valori massimi di arsenico
nell’acqua destinata al consumo umano da tempo disposta dalle
Autorità italiane, in quanto potenzialmente cancerogeno,
intervenendo solo un mese circa prima del termine assegnato
all’Italia dalla medesima Commissione europea per la presentazione
della prima relazione periodica sui risultati delle azioni intraprese
per il superamento della situazione.
Non
sembra pertanto possibile escludere che l’attività svolta dalle
competenti Amministrazioni centrali dello Stato italiano nel dare
adempimento alla decisione comunitaria in data 28 ottobre 2010 abbia
concretato una violazione dei principi di buon andamento e
imparzialità, economicità, efficacia, pubblicità e trasparenza,
tanto più ineludibili al fine di prevenire rischi sanitari solo
ipotetici ma molto gravi in danno di soggetti particolarmente esposti
ed indifesi quali i bambini fino a tre anni, configurando in tal modo
una condotta illegittima, ascrivibile ad un atteggiamento colposo, in
quanto non rispettoso della buona azione amministrativa alla stregua
dei criteri di ragionevolezza, proporzionalità ed adeguatezza.
30.
Il Collegio deve ora esaminare se dal fatto illecito sopra accertato
sia derivato un danno suscettibile di risarcimento, così come
sostenuto dai ricorrenti, che ne chiedono il ristoro quantificando
l’importo, in misura equitativa, in complessivi 600 Euro per ogni
persona fisica ricorrente.
A
tale riguardo, deve essere fin da subito escluso il preteso danno,
quantificato equitativamente dai ricorrenti in 100 Euro in relazione
al consumo medio di acqua potabile di ciascuno di essi, che sarebbe
derivato dalla mancata riduzione delle tariffe, vicenda ampiamente
esaminata dal Collegio, come più sopra riportato, e del tutto
estranea alla fattispecie ora in esame.
Restano
quindi da esaminare le ulteriori richieste di risarcimento,
quantificate per ciascun ricorrente persona fisica, in via
equitativa, in misura pari a 500 Euro, a titolo di danno
patrimoniale, per la spesa sostenuta per l’acquisto di bottiglie di
acqua minerale, per forniture alternative di acqua potabile e per
allestire rimedi di depurazione dell’acqua casalinghi, nonché a
titolo di danno biologico per l’evidente aumento del rischio di
malattie e di danno morale da timore per la salute propria e dei
propri familiari, specie se bambini.
In
particolare, a giudizio del Collegio l’allegato danno patrimoniale
non risulta suscettibile di ottenere una condanna risarcitoria, in
quanto manca ogni principio di prova circa la sua esistenza e
quantificazione, in mancanza di ulteriori allegazioni concernenti sia
l’acquisto o l’utilizzo di sistemi privati di depurazione, sia
l’affermato aumento del consumo di acqua minerale, peraltro già
alto nel nostro Paese rispetto alle medie europee, indipendentemente
dalla minore qualità del servizio idrico nelle specifiche aree
territoriali di origine vulcanica.
Viene,
quindi, in rilievo l’ulteriore domanda dei ricorrenti di
risarcimento del danno biologico, individuato nella lesione
dell’integrità psico-fisica della persona derivante dall’evidente
incidenza negativa, per la salute di ciascuno di essi, che avrebbe
avuto l’ingestione quotidiana di acqua contaminata dall’arsenico,
e direttamente rapportato nella sua eziologia al comportamento
dell’Amministrazione, che avrebbe almeno parzialmente e
temporaneamente tenuto all’oscuro la popolazione, ed in particolare
i ricorrenti, dei rischi connessi all’ingestione di tale sostanza,
rinviando inoltre, come sopra indicato, l’adozione delle necessarie
misure limitative ed interdittive del consumo di acqua contaminata.
Ad
essa si aggiunge la domanda di risarcimento del danno morale,
determinato dal giustificato timore dei ricorrenti per la salute
propria e dei propri familiari, specie se bambini, e determinante un
patema d’animo ampiamente argomentato con perizia tecnica di parte,
non escluso ma al contrario amplificato proprio dalle carenze e dai
ritardi informativi sopra denunciati, in quanto idonei a confermare
un senso di impotenza e frustrazione rispetto alla mancata adozione
di misure idonee a far fronte ai rischi sanitari conseguenti all’uso
di acque ad alto tenore di arsenico. Al riguardo i ricorrenti, sul
tradizionale presupposto secondo cui la sussistenza di un reato
costruisce condizione indispensabile per la risarcibilità del danno
morale, affermano che la mancata riduzione delle tariffe praticate a
fronte di una evidente diminuzione della qualità del servizio
erogato, costituirebbe elemento significativo per ravvisare nel caso
di specie gli estremi dei reati di appropriazione indebita, abuso
d’ufficio e truffa, e pertanto chiedono la trasmissione degli atti
di giudizio alle Procure della Repubblica competenti, ma non allegano
alcun elemento circa le fattispecie oggettive ed i profili soggettivi
che potrebbero condurre a condividere la predetta prospettazione
circa la sussistenza di uno o più reati, che alla stregua degli atti
di causa deve, pertanto, essere ritenuta del tutto infondata.
31.
Conclusivamente, occorre quindi decidere sul richiesto risarcimento,
equitativo e forfetario, del danno biologico e morale allegato dalle
persone fisiche ricorrenti, anche se il Collegio è ben consapevole
della complessità giuridica e delle incertezze giurisprudenziali che
tuttora caratterizzano sia la questione del danno non patrimoniale
(biologico, morale o esistenziale che sia), derivante dalla lesione
del diritto fondamentale alla salute pur in assenza di reato, sia la
questione della risarcibilità della lesione del diritto alla salute
derivante dalle sempre più frequenti esposizioni a fattori di
rischio (tipicamente, le radiazioni ionizzanti, nella fattispecie
l’arsenico disciolto nell’acqua fornita dal servizio idrico) che
non determinano una immediata e percepibile lesione fisica, ma
aumentano significativamente la probabilità di incorrere in gravi
problemi sanitari nel corso della vita, imponendo al giudice una
rinnovata e più aggiornata valutazione del nesso eziologico fra
causa ed effetto, se non si vuole vanificare la tutela
giurisdizionale dei diritti inviolabili della persona sanciti dalla
nostra Costituzione, dal Trattato europeo, dalla Carta di Nizza e
dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo.
A
giudizio del Collegio, occorre prendere le mosse dalla piena
risarcibilità del danno non patrimoniale derivante dalla lesione del
diritto alla salute di cui all’art. 32 della Costituzione o di
altri diritti inviolabili sanciti dalla Costituzione, ormai
riconosciuta dalla giurisprudenza alla luce di un’interpretazione
costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. (Cassazione,
SS.UU. nn. 15022/2005, 23918/2006, 25117/2008; 26972-75/2008, e da
ultimo n. 6663/2011).
Il
danno non patrimoniale in esame comprende, in particolare, il danno
biologico in senso stretto, inteso come lesione dell’integrità
psico-fisica della persona, il danno morale come tradizionalmente
inteso, cioè quale turbamento dello stato d’animo della vittima, e
tutti quei pregiudizi esistenziali diversi ed ulteriori, purché
costituenti conseguenza di una lesione di interessi
costituzionalmente protetti ovvero di rango costituzionale inerenti
alla persona (Tribunale Roma, Sez. XII, 9 marzo 2011, n. 5167) e la
sua quantificazione va effettuata in via equitativa (Con. Stato, Sez.
V, 28 febbraio 2011 n. 1271).
Secondo
la giurisprudenza, il danno non patrimoniale in esame costituisce,
quindi, una categoria ampia ed onnicomprensiva di tutti i pregiudizi
patiti dalla vittima senza inammissibili duplicazioni risarcitorie
(Cons. Stato, Sez. VI, 19 gennaio 2011, n. 365; Cass. Civ. Sez. III,
13 luglio 2011, n. 15373; Cass. Civ. Sez. lav. 18 gennaio 2011, n.
1072; Cass. Civ. Sez. III, 13 luglio 2011, n. 15373; Cass. Civ. Sez.
III, 1 dicembre 2010, n. 24401; Cass. Civ. Sez. III, 14 settembre
2010, n.19517; ), e la domanda risarcitoria di parte ricorrente
appare conforme a tale impostazione, articolandosi in un’unica voce
forfetaria equitativamente fissata in 500 Euro.
Secondo
l’opinione tradizionale, inoltre, il danno biologico è
suscettibile di accertamento medico-legale indipendentemente dalla
sua incidenza patrimoniale, ma deve trovare giustificazione in una
prova concreta e puntuale delle lesioni subite e delle loro stabili
conseguenze negative (Cass. Civ. Sez. VI 5 maggio 2011 n. 9954; Trib.
Bari Sez. I, 24 marzo 2011 n. 558, Con. Stato, Sez. VI, 15 luglio
2010 n. 4553), cosa che in realtà non accade nel ricorso in esame.
La
fattispecie in esame riguarda, peraltro, un caso in cui risulta
impossibile determinare con certezza l’esistenza o la portata di un
rischio a causa della natura insufficiente, non concludente o
imprecisa dei risultati degli studi condotti, ma persiste la
probabilità di un danno reale per la salute nell’ipotesi in cui il
rischio si realizzi, e quindi il principio di precauzione giustifica
l’adozione di misure restrittive purché non discriminatorie ed
oggettive (Corte di Giustizia CE, Sez. II, 22 dicembre 2010, n. 77).
Pertanto,
per non lasciare prive di sanzione e quindi tendenzialmente
inefficaci le misure sopraindicate, sembra dover trovare precipua
applicazione la giurisprudenza secondo cui la liquidazione del danno
alla salute deve essere capace di cogliere nella sua totalità il
pregiudizio subito dal soggetto nella sua integrità psico-fisica
(Cass. Civ. Sez. III 24 febbraio 2011, n. 4493), tenendo conto anche
delle sofferenze morali e future che il destinatario dell’azione
lesiva si vedrà costretto a subire ovvero è presumibile che subisca
o che possa subire in seguito (Cass. Civ. Sez. III 26 maggio 2011, n.
11609).
32.
Tornando alla specifica fattispecie in esame, la domanda di
risarcimento equitativo del danno biologico è riferita dai
ricorrenti alla continuativa ed inconsapevole ingestione di arsenico
mediante l’acqua fornita dal servizio idrico. Secondo la
letteratura scientifica richiamata dalla decisione della Commissione
europea del 28 ottobre 2010, allegata dai ricorrenti in atti e non
contraddetta dalle Amministrazioni resistenti, l’arsenico è uno
degli elementi più tossici che esistono al mondo; l’esposizione ad
arsenico inorganico in quantità superiori a certe soglie può
causare vari effetti sulla salute, ed è suscettibile di
intensificare le probabilità di sviluppo di alcune forme tumorali
molto gravi alla pelle, al fegato, al polmone ed al sistema
linfatico. Un’esposizione molto elevata a questa sostanza può
altresì causare sterilità e false gestazioni nelle donne, oltre a
disturbi alla pelle, bassa resistenza alle infezioni, disturbi al
cuore e danni al cervello ed al DNA.
Secondo
la medesima letteratura scientifica, il più vasto studio sinora
effettuato sulla pericolosità per la salute umana derivante da
un’esposizione prolungata all’arsenico presente nell’acqua
potabile, anche in quantità piccolissime, è stato condotto su oltre
11.700 persone in Bangladesh e pubblicato nell’edizione online
della rivista scientifica The Lancet, ed ha dimostrato che la
presenza di arsenico in elevate concentrazioni nel sangue aumenta in
modo significativo il rischio di tumori. Secondo le stime effettuate
dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, inoltre, in Bangladesh
a partire dagli anni ’70 almeno 35 milioni di persone hanno bevuto
acqua contaminata con piccolissime quantità di arsenico, e secondo
lo studio Heals (Health Effects of Arsenic Longitudinal Study)
coordinato da Habibul Ahsan dell’Università di Chicago, ciò è
stato sufficiente a provocare il 21%) delle morti per tutte le cause
e il 24% di quelle attribuite a malattie croniche (in prevalenza,
tumori al fegato, cistifellea e pelle e malattie cardiovascolari).
Il
Collegio osserva tuttavia che il danno biologico in esame viene solo
stimato da parte ricorrente alla luce delle predette acquisizioni
scientifiche, ma non viene comprovato dai singoli ricorrenti, né
potrebbe esserlo se non su basi epidemiologiche e statistiche
estranee alla loro concreta disponibilità, ovvero su basi
probabilistiche delle future aspettative di vita, meramente
presuntive e comportanti, ai fini del loro accoglimento, una
sostanziale evoluzione della tradizionale giurisprudenza in materia
di prova del danno probabilistico nel senso sopra indicato.
33.
Il Collegio ritiene non necessario indugiare ulteriormente sul
predetto punto, ai fini della decisione del ricorso a quo, in quanto
all’esaminata domanda di risarcimento del danno biologico risulta
abbinata una contestuale e sovrapposta domanda di risarcimento del
danno morale, individuato nella sofferenza psico-fisica determinata
dalla necessaria alterazione delle abitudini di vita e dal senso di
impotenza e frustrazione per i descritti e ormai noti rischi sanitari
per la propria famiglia, che nella fattispecie in esame vengono
adeguatamente documentati dalla perizia medico-legale sopra
esaminata, e che assumono rilievo giuridico, ai fini del richiesto
risarcimento, in relazione alla descritta attività
dell’Amministrazione “non jure” e “contra ius”, per la
parte in cui che ha indebitamente ritardato l’adozione delle
necessarie misure conoscitive, limitative ed interdittive chieste
dalla Commissione europea con decisione del 28 ottobre 2010.
34.
Secondo il Collegio, in sintesi, il fatto illecito costituito
dall’esposizione degli utenti del servizio idrico ricorrenti ad un
fattore di rischio (l’amianto disciolto in acqua oltre i limiti
consentiti in deroga dall’Unione Europea), almeno in parte
riconducibile, per entità e tempi di esposizione, alla violazione
delle regole di buona amministrazione, determina un danno non
patrimoniale complessivamente risarcibile, a titolo di danno
biologico, morale ed esistenziale, per l’aumento di probabilità di
contrarre gravi infermità in futuro e per lo stress psico-fisico e
l’alterazione delle abitudini di vita personali e familiari
conseguenti alla ritardata ed incompleta informazione del rischio
sanitario; in mancanza di parametri diversi, non appare altresì
illogico rapportare in via equitativa lo stesso danno agli importi
tariffari indebitamente corrisposti per usufruire di un servizio
privo dei necessari presupposti di legge, stimati da parte ricorrente
in una media di complessivi 100 Euro per ciascun ricorrente.
Il
Tribunale deve quindi accogliere, nel senso indicato al precedente
punto, la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale avanzata
dalle singole persone fisiche ricorrenti, nella loro qualità di
utenti del servizio idrico, alla data del 28 ottobre 2010, in aree
territoriali caratterizzate, alla medesima data, dalla presenza di
arsenico in percentuali superiori a quelle massime (20 ug/l)
consentite in deroga dalla Commissione europea con la decisione
adottata in tale data. Il Tribunale deve procedere di conseguenza
alla richiesta quantificazione equitativa del danno risarcibile, che,
alla stregua della relazione tecnica di parte allegata e della
circostanza che è stato escluso il risarcimento per il danno
materiale, e notevolmente limitato il periodo giuridicamente
rilevante, ritiene equo ridurre rispetto alla richiesta di 500 Euro
formulata da parte ricorrente, e che ritiene congruo liquidare in
Euro 100 per ciascuno, secondo un importo che risulta parametrato
anche alla richiesta, non accolta, di risarcimento per la tariffa che
i ricorrenti ritengono di aver indebitamente corrisposto nel tempo.
35.
Alla stregua delle pregresse considerazioni, il Collegio deve
accogliere in parte il ricorso, condannando le Amministrazioni
centrali dello Stato intimate, in solido, al risarcimento del danno
non patrimoniale causato ai singoli utenti ricorrenti, come sopra
individuato e quantificato.
La
grande complessità e la novità delle questioni dedotte
giustificano, infine, la compensazione delle spese di giudizio fra le
parti.
P.Q.M.
Il
Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Bis)
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto,
lo accoglie in parte e, per l’effetto condanna il Ministero della
salute ed il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio
e del mare, in solido fra loro, al risarcimento di Euro 100 (cento),
in favore di ciascun ricorrente persona fisica quale utente, alla
data del 28 ottobre 2010, del servizio idrico in area territoriale
caratterizzata, alla medesima data, dalla presenza di arsenico
nell’acqua erogata in percentuali superiori a 20 ug/l.
Spese
compensate.
Ordina
che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità
amministrativa.
Così
deciso in Roma nelle camere di consiglio dei giorni 10 ottobre e 14
dicembre 2011, con l’intervento dei magistrati:
Eduardo
Pugliese, Presidente
Antonio
Vinciguerra, Consigliere
Raffaello
Sestini, Consigliere, Estensore
DEPOSITATA
IN SEGRETERIA
Il
20/01/2012
IL
SEGRETARIO
(Art.
89, co. 3, cod. proc. amm.)
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