giovedì 31 gennaio 2013

Sentenza del Tar Lazio, n. 664/2012: arsenico nell’acqua (risarcimento)


 REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Seconda Bis)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 3445 del 2011, proposto da:
Codacons, Associazione Utenti dei Servizi Pubblici, Elio Barghini, Marianna Burelli, Elio Canata, Giovanna Colombi, Leonardo Loconsole, Antonina Lucarelli, Roberta Madioni, Samuel Martorella, Paolo Nardelli, Ottaviano Pagni, Marco Vignoli, rappresentati e difesi dagli avv. Marco Ramadori, Carlo Rienzi, Maria Cristina Tabano, con domicilio eletto presso Carlo Rienzi in Roma, v.le delle Milizie, 9;
contro
Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e Ministero della Salute, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Gen.Le Dello Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;, Regione Lazio, Comune di Aprilia, Comune di Campo Nell’Elba, Comune di Capoliveri, Comune di Porto Azzurro, Comune di Rio Marina; Regione Toscana, rappresentato e difeso dall’avv. Fabio Ciari, con domicilio eletto presso Marcello Cecchetti in Roma, via A. Mordini, 14;
per l’annullamento delle ordinanze d’urgenza adottate dai comuni intimati
Per l’adozione delle necessarie misure ai sensi dell’art. 34, comma 1, lett. B), c.p.a.;
Per il risarcimento del danno arrecato ai ricorrenti dal comportamento anche omissivo delle Amministrazioni intimate, da valutare in via equitativa in relazione alla mancata riduzione delle tariffe, alle spese vive sostenute, al danno biologico ed al danno morale;
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e di Regione Lazio e di Regione Toscana;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 10 ottobre 2011 il dott. Raffaello Sestini e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Considerato e ritenuto in fatto e diritto quanto segue:.

1. Con il ricorso indicato in oggetto Codacons, Associazione Utenti dei Servizi Pubblici e numerosi utenti del servizio idrico impugnano le ordinanze con le quali i Sindaci dei numerosi Comuni menzionati hanno ordinato la non potabilità e l’inibizione dell’uso delle acque destinate al consumo umano fino al ripristino della potabilità, nella parte in cui hanno omesso di prevedere la riduzione delle tariffe per il consumo dell’ acqua potabile. Viene inoltre richiesto al Tribunale di ordinare alle Amministrazioni coinvolte l’adozione delle necessarie misure di salvaguardia degli utenti. Viene infine formulata la richiesta che vengano accertate e dichiarate le responsabilità, con conseguente richiesta di condanna di Ministeri, delle Regioni, e Provincie autonome al risarcimento dei danni subiti dai ricorrenti, in qualità di utenti del servizio idrico, in quanto esposti alla distribuzione, in regime di deroga, di acqua destinata al consumo umano e come tale considerata nei canoni, ma priva dei necessari requisiti posti a tutela della salute umana.
2. Il ricorso in epigrafe è analogo ad altri ricorsi proposti dalle medesime Associazioni e da altri utenti contro Amministrazioni in parte diverse, ed è riferito alla medesima vicenda per la quale il Codacons ha già presentato altro ricorso (R.G. n. 4571/2010) sul quale il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio – Sezione III Quater – ha pronunciato sentenza n. 780/2011 per cessazione materia del contendere), ma il suo diverso petitum determina la persistenza della controversia e la sussistenza di un interesse ancora attuale dei ricorrenti alla decisione.
3. La vicenda concerne l’attuazione della direttiva 98/83/CE (recepita con il Dlgs 2 febbraio 2001, n. 31) concernente la qualità delle acque destinate al consumo umano, che prevede l’istituto della possibile deroga, da parte della Commissione, dei previsti limiti di concentrazione di talune sostanze tossiche e nocive, da adottarsi nell’ambito di un valore massimo ammissibile quando non sia possibile l’approvvigionamento d’acqua con altro mezzo congruo, e purché ciò non rappresenti un potenziale pericolo per la salute umana.
Inoltre, la Commissione europea, tenuto conto delle osservazioni del Comitato di cui all’art. 12 della Direttiva, considerando la complessità dei nuovi principi introdotti con la Direttiva e l’impatto della sua entrata in vigore nella gestione locale da parte dei singoli Stati sulla distribuzione dell’acqua destinata al consumo umano, può prorogare il calendario per la messa in conformità dei nuovi valori di parametro chimico inquinante, ma tale possibilità, pur regolarmente recepita nel decreto legislativo di recepimento n. 31 del 2001, non è stata attivata dal Governo italiano.
Pertanto, in relazione alle criticità più rilevanti derivanti dalla presenza in falda dei minerali presenti nel sottosuolo vulcanico del territorio italiano, ed essendo ormai entrati in vigore i nuovi valori dei parametri di inquinamento, il Governo italiano ha attivato due periodi di tre anni ciascuno di deroga dall’entrata in vigore della direttiva, e successivamente ha chiesto alla Commissione europea di avvalersi della possibilità, prevista per casi eccezionali, di un terzo periodo di tre anni ai sensi del’art. 9 della Direttiva 98/83/CE, recepita dall’art. 13 del Dlgs 31/2001, per giungere al periodo massimo di 9 anni di deroga.
4. In particolare, con più decreti ministeriali adottati dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio congiuntamente al Ministero della Salute, le Regioni e le Province autonome coinvolte (5 Regioni e 2 Provincie autonome) sono state autorizzate ad avvalersi della facoltà di deroga nazionale ai valori massimi di arsenico stabiliti dal Decreto Legislativo n. 31 del 200l prima, per il triennio 2004-2006 e, poi, per il triennio 2007- 2009.
Al termine del secondo periodo di deroga previsto dal diritto europeo, il Ministero della Salute di concerto con il Ministero dell’Ambiente ha avanzato la richiesta di ulteriore proroga, per il triennio 2010-1012, dell’efficacia dei decreti di deroga al limite massimo consentito dalla legge per l’arsenico nell’acqua (di l0 ug/l fino al valore di 50 ug/l, per 128 comuni, di cui 91 nel Lazio, 8 in Lombardia, l0 nelle Province Autonome di Trento e Bolzano, 16 in Toscana e 3 in Umbria, interessando circa un milione di utenti (1.009.455 persone, secondo i ricorrenti).
Il 28 ottobre 2010 la Commissione europea peraltro si è definitivamente pronunciata, ritenendo di non poter accordare le deroghe richieste per l’arsenico in concentrazioni superiori a 20 ug/l e rilevando che “le prove scientifiche nei documenti indicati in riferimento negli orientamenti dell’Organizzazione mondiale della sanità e nel parere del comitato scientifico dei rischi sanitari e ambientali consentono deroghe temporanee fino a 20 ug/l, mentre valori di 30. 40 e 50 ug/l determinerebbero rischi sanitari superiori. in particolare talune forme di cancro”, e aggiungendo che “Occorre che l’Italia rispetti gli obblighi imposti dalla direttiva 98/83/CE”.
Con peculiare riguardo, poi, alle deroghe consentite fino alle date e per i valori massimi specificati, la Commissione specificava che: “Fatti salvi gli obblighi fissati nella direttiva 98/83/CE, le deroghe di cui all’articolo 1, paragrafo 1, sono soggette alle seguenti condizioni aggiuntive: 1) ai fini del consumo di acqua potabile da parte dei neonati e dei bambini fino all’età di 3 anni, l’Italia assicura che la fornitura di acqua rispetti i valori dei parametri della direttiva 98/83/CE; 2) l’Italia informa gli utenti sulle modalità per ridurre i rischi legati all’acqua potabile per la quale è stata concessa la deroga. e in particolare informa gli utenti sui rischi legati al consumo dell’acqua oggetto di deroga da parte di neonati e di bambini fino all’età di 3 anni; 3) l’Italia effettua un monitoraggio regolare dei parametri interessati nel quadro del regime di monitoraggio di cui all’allegato III; 4) l’Italia mette in atto i piani di azioni correttive di cui all’allegato III; 5) l’Italia presenta una relazione annuale sui progressi realizzati nelle misure correttive di cui all’Allegato III entro due mesi dalla fine di ogni anno di calendario a partire dal 2011 “.
Eppure, lamentano i ricorrenti, per almeno due settimane i cittadini sono stati tenuti all’oscuro di questa decisione e dei pericoli legati al consumo delle acque contaminate, e solo dopo tre settimane il Ministero della Salute, di fronte alla minaccia dell’apertura di una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia per la mancata comunicazione alla popolazione, ha inviato alle Regioni la comunicazione che abolisce la deroga che portava a 50 microgrammi per litro la concentrazione massima di arsenico nelle acque destinate al consumo umano.
I sindaci di alcuni dei 128 Comuni interessati hanno, allora, deciso di ricorrere allo strumento delle ordinanze di necessità ed urgenza, al fine di inibire alla popolazione il consumo dell’acqua potabile fino al ripristino della potabilità, senza però disporre un’equa riduzione delle tariffe dell’acqua imposte ai cittadini, ed hanno iniziato ad attivarsi, insieme alle proprie Regioni, per porre rimedio alla gravità del pericolo per la salute dei propri cittadini, pericolo, affermano ancora i ricorrenti, per anni taciuto da parte dello Stato e delle Regioni, soggetti entrambi obbligati dalla legge ad informare la popolazione e ad intervenire per porre rimedio al problema, con la conseguenza, proseguono i ricorrenti, che solo con la pubblicazione delle suddette ordinanze gli abitanti coinvolti e in piccola parte rappresentati in giudizio hanno acquisito conoscenza del problema ed hanno potuto effettivamente correre ai ripari, mediante rimedi di depurazione casalinghi o acquistando acqua minerale.
5. Con lettera del 30 gennaio 2011, il Codacons ha diffidato la Regione Lazio, ai sensi dell’art. 140 del Codice del Consumo, ad adottare entro 15 giorni tutti i provvedimenti ritenuti più opportuni, in conformità con la legge, a risolvere il problema dell’acqua contaminata con l’arsenico nei Comuni in cui la concentrazione di questa sostanza nociva supera la soglia di legge di l0 ug/l, chiedendo altresì di provvedere al risarcimento di tutti i danni cagionati in favore della stessa associazione e di tutti gli abitanti dei Comuni interessati, da calcolarsi in via equitativa.
Successivamente, il Codacons e gli utenti del servizio idrico hanno proposto ricorso a questo Tribunale per l’annullamento delle ordinanze di divieto di utilizzo a fini potabili delle acque destinate al consumo umano adottate dai Comuni intimati, per la parte in cui non dispongono ai fini di una riduzione delle relative tariffe; per l’adozione delle necessarie misure ai sensi dell’art. 34, comma 1, lett. B), c.p.a., secondo cui in caso di accoglimento del ricorso il giudice, nei limiti della domanda, può ordinare all’amministrazione rimasta inerte di provvedere entro un termine, nonché per il risarcimento del danno arrecato ai ricorrenti dal comportamento anche omissivo delle Amministrazioni intimate, da valutare in via equitativa in relazione alla mancata riduzione delle tariffe, alle spese vive sostenute, al danno biologico ed al danno morale.
Le Amministrazioni statali e regionali intimate, unitamente a molti degli Enti locali intimati, si sono costituite per affermare l’inammissibilità ed infondatezza del ricorso.
Le istanze cautelari proposte dai ricorrenti per il ricorso in epigrafe e per gli altri ricorsi di analogo contenuto sono state esaminate nelle Camere di consiglio del 9 e del 23 giugno 2011 ed in tale sede questo Tribunale con ordinanza collegiale, avendo i difensori di parte ricorrente chiesto di abbinare l’istanza cautelare al merito, ha disposto istruttoria fissando il merito di tutti gli analoghi ricorsi alla pubblica udienza del 10 (già 6) ottobre 2011, data i cui il ricorso in epigrafe è stato introitato per essere deciso, insieme ai ricorsi di analogo tenore, nelle camere di consiglio dei giorni 10 e 20 ottobre e 3 novembre 2011;
Con la predetta ordinanza il Collegio, in parziale accoglimento dell’istanza istruttoria proposta da parte ricorrente, ha chiesto a tutte le Amministrazioni intimate, ciascuna per i profili di competenza, di presentare una analitica ed articolata relazione, corredata da ogni utile documentazione e comunque da tutti gli atti concernenti le attività di accertamento, informazione, monitoraggio e bonifica svolte, osservando, in sede di sommaria delibazione, che la complessiva legittimazione dei ricorrenti non appariva dubbia, che le più complesse questioni concernenti sia la legittimazione passiva delle Amministrazioni evocate, sia la giurisdizione di questo Tribunale in relazione a ciascuna delle domande proposte, dovevano necessariamente essere affrontate in sede di merito dopo una piena cognizione dei fatti di causa, e che non appariva controversa fra le parti la situazione di fatto sottostante, caratterizzata:
- dall’iniziale superamento delle soglie massime di concentrazione di arsenico di cui alla direttiva 98/83/CE (recepita con il citato D.Lgs. n. 31/2001) nelle acque destinate al consumo di circa un milione di utenti;
- dalla concessione di due successive deroghe triennali alle predette soglie da parte del Governo, al dichiarato fine di consentire il progressivo adeguamento ai parametri di legge;
- dalla successiva Decisione della Commissione Europea del 20 ottobre 2010, che ha negato la possibilità di ulteriori deroghe.
Il Collegio osservava quindi che quello idrico costituisce un tipico servizio pubblico universale a rete, per il quale deve essere necessariamente consentito l’accesso fisico ed economico a chiunque, garantendo, ai sensi dell’art. 4, comma 2, acque destinate al consumo umano salubri e pulite prive di sostanze tali da rappresentare un potenziale pericolo per la salute umana, che secondo la medesima Decisione comunitaria citata, “le prove scientifiche nei documenti indicati in riferimento negli orientamenti dell’Organizzazione mondiale della Sanità e nel parere del comitato scientifico dei rischi sanitari ed ambientali consentono deroghe temporanee fino a 20 ug/l”, mentre i valori di concentrazione superiori (che sono stati quindi negati) “determinerebbero rischi sanitari superiori, in particolare talune forme di cancro”, e che il disposto incombente istruttorio appariva dunque necessario con particolare riguardo alla domanda risarcitoria del lamentato danno biologico che sarebbe derivato, alle singole persone fisiche ricorrenti, dal comportamento anche omissivo delle Amministrazioni intimate in relazione alla prolungata e spesso inconsapevole ingestione di acqua contaminata nei termini anzidetti, si rendeva necessario procedere ad una analitica ricostruzione, ai fini di una migliore conoscenza:
- dell’iter istruttorio tecnico-scientifico ed amministrativo svolto dai Ministeri intimati ai fini della concessione delle disposte deroghe e dell’ulteriore richiesta di deroga denegata in sede comunitaria;
- delle attività di amministrazione attiva e di monitoraggio e controllo –anche sostitutivo- svolto da ciascuna delle Amministrazioni intimate, per quanto di competenza, per assicurare –prima e dopo la predetta decisione comunitaria- il superamento della situazione di pericolo e, nelle more, la piena conoscenza della medesima situazione da parte di tutti gli interessati, anche quanto alle necessarie cautele per i soggetti considerati particolarmente a rischio.
All’esito della predetta fase istruttoria, la cospicua documentazione depositata presso il TAR Lazio dal Ministero dell’Ambiente e da quello della Salute, dalle Regioni e Province autonome e dai numerosissimi Comuni intimati, nel ricorso in epigrafe ed in quelli ad esso similari promossi dal Codacons e da altri ricorrenti e discussi nella medesima data, ha consentito, unitamente alle difese di parte ricorrente in replica, di definire compiutamente i termini della controversia, ma per la sua mole ha richiesto la prosecuzione dell’esame della questione, di particolare rilevanza, delicatezza e complessità, in più camere di consiglio.
6. I ricorrenti chiedono di dichiarare l’obbligo ex art. 34 comma 1, lett. b) c.p.a. dei Ministri competenti di provvedere al riesame dei criteri già esistenti per la determinazione della tariffa base dell’acqua, in modo da consentire la riduzione delle tariffe oggi praticate, e l’obbligo dei Comuni di provvedere, ai sensi dell’art. 34, comma 1, lett. b) c.p.a. alla riduzione delle tariffe dell’acqua, illegittimamente non disposta con le ordinanze di non potabilità dell’acqua emanate in violazione dell’art. 154 del Codice dell’ Ambiente.
Infatti, argomentano i ricorrenti, i Comuni sono state le prime vittime della situazione di inadempimento dello Stato e delle Regioni, ed in molti casi hanno svolto un egregio ruolo sostitutivo di tali enti provvedendo a bonificare l’acqua a valle delle falde con spese ingenti a carico della collettività, ma devono ora, preso atto della situazione, provvedere ad abbassare le tariffe dell’acqua, sia quale indennizzo tardivo dell’inadempimento di erogazione degli anni pregressi, sia come minor compenso di un minor servizio erogato dove il problema non è stato rimosso e l’acqua non è ancora potabile.
A sostegno di tali assunti, i ricorrenti precisano che la tariffa dell’acqua è considerata dalla legge quale vero e proprio “corrispettivo” del servizio idrico integrato ed e’ determinata tenendo conto della qualità della risorsa idrica e del servizio fornito, delle opere e degli adeguamenti necessari, dell’entità dei costi di gestione delle opere, dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito e dei costi di gestione delle aree di salvaguardia, nonché di una quota parte dei costi di funzionamento dell’Autorità d’ambito, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio secondo il principio del recupero dei costi e secondo il principio “chi inquina paga”, come confermato anche, si allega, da una recente sentenza (n. 335/2008) della Corte Costituzionale.
Dunque, concludono i ricorrenti, è chiaro come le ordinanze impugnate debbano essere annullate in quanto illegittime, nella parte in cui non dispongono nulla in ordine alla riduzione tariffaria, così da imporre ai cittadini il pagamento a prezzo pieno di un servizio inadeguato e non pienamente funzionale al suo scopo, in violazione del’ art. 154 Codice dell’ Ambiente, secondo cui l’Autorità d’Ambito (quale struttura dotata di personalità giuridica costituita in ciascun ambito territoriale ottimale delimitato dalla competente regione, alla quale gli enti locali partecipano obbligatoriamente ed alla quale e’ trasferito l’esercizio delle competenze ad essi spettanti in materia di gestione delle risorse idriche, ai sensi dell’ art. 148 del Codice dell’Ambiente) è il soggetto competente alla determinazione della tariffa di base in osservanza delle disposizioni contenute nel decreto con cui il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, su proposta dell’Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti, tenuto conto della necessità di recuperare i costi ambientali anche secondo il principio “chi inquina paga”, definisce le componenti di costo per la determinazione della tariffa relativa ai servizi idrici per i vari settori di impiego dell’acqua (comma secondo art. 154).
7. I ricorrenti deducono altresì l’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa da parte dello Stato e delle Regioni per violazione del principio di precauzione di cui all’art. 191 del Trattato di Lisbona e dell’art. 97 della Costituzione, per violazione e falsa applicazione della Direttiva n. 83/1998/CE relativa alla qualità delle acque destinate al consumo umano e del D.Lgs. n. 31/2001 e per violazione dei principi di imparzialità e di trasparenza.
Ne discende, affermano i ricorrenti, l’applicabilità dell’art. 30 D.lgs n.l04/2010, sussistendo i due requisiti, chiariti dalla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 500 del 1999 per il risarcimento per lesione dell’interesse legittimo: comportamento dell’Amministrazione “non iure” (in contrasto con le regole dell’ ordinamento) e “contra ius” (lesivo di una posizione sostanziale). Infatti, quanto al primo aspetto, l’antigiuridicità della condotta complessivamente tenuta dallo Stato e dalle Regioni nel caso di specie sarebbe evidente nella palese violazione del principio di precauzione, sancito a livello comunitario ed oramai principio fondamentale del nostro ordinamento, nonché della normativa di settore (decreto legislativo 31/2001), introdotta con la precisa finalità di porre a carico dello Stato e delle Regioni il dovere di garantire la salubrità delle acque destinate al consumo umano all’interno del territorio del nostro Paese, tanto che all’art. 4 comma 2, è sancito che le acque destinate al consumo umano devono essere salubri e pulite e non devono contenere microrganismi e parassiti, né altre sostanze, in quantità o concentrazioni tali da rappresentare un potenziale pericolo per la salute umana.
8. In particolare, secondo i ricorrenti il principio di precauzione, sebbene afferente propriamente alla tutela dell’ambiente, rinviene la sua “ratio” fondante nella tutela della salute dei cittadini, e comporta che, a fronte di una situazione in cui non sono stati identificati tutti gli effetti potenzialmente pericolosi di un fenomeno, di un prodotto o di un procedimento ed in cui la valutazione scientifica preliminare non consente di determinare il rischio con sufficiente certezza, occorre comunque individuare quale sia il livello di rischio ‘accettabile’. In particolare, alla conferenza di Rio, nel riferirsi al principio ‘precauzionale’, è stato affermato che “quando vi è la minaccia di un danno serio e irreversibile, la mancanza di una piena certezza scientifica non deve essere utilizzata come motivo per rinviare l’adozione di misure i cui risultati sono proporzionati ai costi (cost-effective) al fine di prevenire la degradazione dell’ambiente”.
Pertanto, proseguono i ricorrenti, il ricorso al principio di precauzione si giustifica ogni qual volta si debba adottare un atto amministrativo connesso con un’attività che presenta un rischio potenziale per la salute pubblica, anche se questo rischio non può essere interamente dimostrato o la sua portata non può essere quantificata e determinata per l’insufficienza dei dati scientifici, dovendosi tenere conto non solo dell’ orizzonte di breve e medio periodo, ma soprattutto dei rischi di lungo periodo e dei diritti delle generazioni future.
Nel caso di specie, numerose ricerche scientifiche hanno portato alla luce la sussistenza di un “dubbio scientifico” sul livello di pericolosità dell’arsenico per l’essere umano e per l’ambiente, ferma restando la certezza della sua nocività. In particolare, il Comitato Scientifico della Commissione europea SCHER (Scientific Committee on Health and Environmental Risks) ha in parte confermato le preoccupazioni che riguardano la salute soprattutto di bambini ed adolescenti. Infatti, fermo restando che è stato dimostrato come ad elevate esposizioni attraverso la dieta e l’aria, l’arsenico possa causare tumori della pelle e degli organi interni, vi sono evidenze di un “maggiore rischio per soggetti minori di 14-18 anni e per neonati non allattati al seno rispetto alla popolazione adulta. particolarmente correlato a consumo di acque con tenori di arsenico superiori ai 20 ug/l e dipendente anche dal livello di esposizione generale mediante gli alimenti e l’aria, essendo più elevato in soggetti esposti al fumo.
Tali conclusioni sono state peraltro riprese nella nota informativa dell’Istituto Superiore di Sanità del 30 novembre 2011, laddove si è precisato che: “l’esposizione ad acqua potabile con elevate concentrazioni di arsenico (> 200 – 2000 ug/l) è associata ad un aumento di incidenza di patologie tumorali a carico del polmone, della pelle e di organi interni, ed anche di alterazioni cardiovascolari e della pelle con cambiamenti della pigmentazione e sviluppo di cheratosi nelle parti non esposte al sole e vasculopatie agli arti, con conseguenze di cancrena agli arti inferiori.
Secondo i ricorrenti, nel caso di specie, per contro, lo Stato e le Regioni si sono limitati a richiedere e successivamente consentire, per ben due trienni consecutivi (fin quando non è intervenuto il veto dell’UE) le deroghe al parametro massimo di arsenico previsto dalla legge, sottoponendo in tal modo i cittadini ad un ingente rischio per la propria salute ed a concreti disagi.
Il principio di precauzione, al contrario, avrebbe imposto l’adozione di misure temporanee volte ad assicurare una protezione cautelativa ed anticipata, con lo scopo di evitare danni nel periodo di tempo necessario a sviluppare la conoscenza dell’effettiva entità dei rischi connessi all’ingestione della sostanza de qua.
9. La predetta ricostruzione è del tutto contestata, in fatto ed in diritto, dalle Amministrazioni resistenti e, in particolare, dalle Amministrazioni statali della Salute e dell’Ambiente costituitesi in giudizio, che riferiscono come fin dalla data di pubblicazione della direttiva, gli uffici ministeriali competenti abbiano iniziato una fitta corrispondenza con le autorità regionali e provinciali al fine di organizzate giornate di presentazione ed approfondimento con i referenti regionali circa i contenuti ed i principi della Direttiva 98/83/CE, e per valutare la necessità di predisporre la richiesta alla Commissione europea di una proroga dell’entrata in vigore del recepimento per taluni valori dalle autorità regionali, inizialmente riferite solo al boro in Toscana ed all’arsenico in Lombardia ed a Trento e Bolzano, chiedendo anche parere al Consiglio Superiore di Sanità, che nella seduta del 24 ottobre 2002 si è espresso in maniera favorevole relativamente alle province autonome di Trento e Bolzano ed alla regione Toscana, e con riserva per la regione Lombardia stante la carenza di documentazione.
La realtà amministrativa del nostro territorio in quel periodo era, inoltre, piuttosto complessa, con una gestione frammentata del servizio idrico in attesa dell’attuazione della legge n. 36/1995, sia territorialmente che per tipologia di servizio (acquedotti, fognatura e depurazione), e con il successivo trasferimento alle Regioni, alla stregua della riforma del titolo V della Costituzione, della disciplina delle forme e dei modi di cooperazione tra gli enti locali in materia, con la impossibilità di predisporre tutte le informazioni e la documentazione necessaria all’ottenimento della proroga comunitaria, e con la conseguente necessità di avvalersi solo dello strumento della deroga, nonostante fosse già palese che due periodi di tre anni ciascuno non sarebbero stati sufficienti alla messa in conformità.
Le medesime Amministrazioni narrano che, in applicazione dell’art. 13 del Dlgs 31/200l, sono stati comunque emanati alcuni decreti di fissazione di valori massimi ammissibili, a partire dal 23 dicembre 2003, sulla base di principi estremamente cautelativi, sui quali si è espresso positivamente anche il Consiglio Superiore di Sanità dopo approfondita analisi della documentazione, prodotta dalle autorità regionali e provinciali. circa l’impossibilità di reperimento di fonti idriche alternative in tempi brevi.
E’ in base ai succitati presupposti, proseguono le Amministrazioni resistenti, che in data 13 novembre 2009 è stata inoltrata la richiesta di parere alla Commissione europea ai fini della terza proroga, dopo approfondita fase istruttoria con le relazioni, aggiornate e circostanziate, trasmesse dalle Regioni e Province Autonome prima della scadenza delle deroghe concesse: Provincia Autonoma di Bolzano il 22 luglio 2009 e successiva integrazione il 25 agosto 2009, Provincia autonoma di Trento il 19 agosto 2009, Lombardia il 7 agosto 2009, Toscana il 6 agosto 2009, Lazio il 20 agosto 2009 e successive integrazioni il 25 settembre 2009, 2 ottobre, 5 ottobre, 6 ottobre e 28 ottobre dello stesso anno, Umbria 30 luglio 2009 e Campania 4 agosto 2009 e 12 settembre 2009.
Successivamente alla prima richiesta del novembre 2009, sono stati inoltre avviati intensi contatti, anche per il tramite della Rappresentanza Permanente d’Italia presso l’Unione Europea, per fornire alla Commissione stessa tutti gli ulteriori elementi informativi richiesti ai fini dell’espressione di parere.
Le stesse Amministrazioni negano, quindi, la fondatezza della censura di mancato rispetto della procedura indicata nel Dlgs n. 31/200l, che richiama anche una pronuncia del TAR sez. III Quater, n. 2001 del 18 gennaio 2006, peraltro riferita ad uno specifico decreto di deroga emanato nel 2004, non sovrapponibile ai fatti oggetto del presente ricorso.
10. In particolare, essendosi l’Italia avvalsa della possibilità di derogare ai valori di parametro del D. Lgs 31/2001 già da sei anni (due cicli), le richieste di proroga inoltrate dalle Regioni interessate per l’ultimo triennio (2010- 2012) sono state trasmesse dal Ministero della Salute alla Commissione Europea (CE) che si è espressa in data 28/10/2010 con la Decisione n, C(2010)7605. Per l’adozione della Decisione del 28/10/2010, la Commissione europea ha ritenuto opportuno chiedere un approfondimento della complessa documentazione relativa alla situazione italiana al Comitato Scientifico dei Rischi Sanitari e Ambientali che, in data 16 aprile 2010 ha espresso un parere da cui si evince che esiste ancora ad oggi un dubbio scientifico circa il reale rischio sanitario di determinate concentrazioni di arsenico nell’acqua destinata al consumo umano tant’ è che per parte degli studiosi afferma che un valore di arsenico nell’acqua destinata al consumo umano fino a 50 microg/l dovuta ad un prolungamento del periodo di deroga non rappresenta un rischio addizionale per la popolazione. Ma per una parte degli esperti vi è un aumento di probabilità di rischio per livelli superiori a 20 microg/l., soprattutto se neonati non allattati al seno o esposti ad altri inquinanti come il vivere in casa con dei fumatori. Pertanto, in applicazione al principio di massima precauzione, la Commissione europea ha espresso la decisione del 28.10.2010 concedendo il valore massimo ammissibile in deroga di 20 microg/ di arsenico e prescrivendo altresì il valore di l0 microg/l per i neonati e bambini fino a tre anni.
Conseguentemente è stato emanato il decreto 24 novembre 2010 del Ministero della Salute di concerto con il Ministero dell’ Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (peraltro pubblicato solo sulla Gazzetta Ufficiale n. 12 del successivo 17 gennaio 2011, a quasi due mesi di distanza) che prevede l’autorizzazione alla concessione delle deroghe richieste per i parametri di fluoruro, boro e arsenico entro valori rispettivamente pari a 2.5 mg/l, 3.0 mg/l e 20 ug/l, per cui le richieste relative a Comuni che avevano richiesto di potersi avvalere di VMA per l’arsenico di 30, 40 o 50 ug/1 non sono state autorizzate, anche se successivamente per alcuni di tali territori si è potuto constatare la possibilità di erogare l’acqua con un valore per l’arsenico non superiore ai 20 ug/l.
11. Per quanto attiene alla domanda di riduzione delle tariffe per fornitura idrica non idonea all’uso umano, premessa l’incompetenza degli Enti locali intimati a provvedervi, le Amministrazioni obiettano che il vigente “Metodo normalizzato per definire le componenti di costo e determinare la tariffa di riferimento” del servizio idrico integrato è stato elaborato sulla scorta della ormai abrogata Legge n.36/1994 che, all’art.l3, prevedeva che la tariffa è determinata tenendo conto della qualità della risorsa idrica e del servizio fornito, delle opere e degli adeguamenti necessari, dell’entità dei costi di gestione delle opere, dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito e dei costi di gestione delle aree di salvaguardia, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio” (disposizione ripresa in maniera pressoché integrale dall’art. 154 del D. Lgs. 152/2006), ma che le componenti “qualità della risorsa idrica” e “qualità del servizio fornito” in sede di redazione del metodo normalizzato attuativo del citato art.13 non sono state inserite tra quelle che determinano la tariffa reale media sulla cui base, definita l’articolazione per tipologia di utenza e scaglioni tariffari, viene poi redatta la “bolletta” che l’utente dovrà saldare.
Sarebbe pertanto impossibile prevedere una riduzione tariffaria a favore degli utenti che sono fomiti di acqua non idonea al consumo umano, fermo restando che l’utente di fatto, non consumando l’acqua non adatta all’uso umano, non pagherà alcun corrispettivo, e che in tutte le situazioni di inerzia o impossibilità di erogazione di acqua potabile l’Autorità competente ha previsto la sostituzione di fornitura alternativa con autobotti.
12. Quanto all’asserita violazione del principio di precauzione, le Amministrazioni intimate osservano che il principio di precauzione è un principio generale del diritto comunitario che fa obbligo alle Autorità competenti di adottare provvedimenti appropriati al fine di prevenire taluni rischi potenziali per la sanità pubblica, per la sicurezza e per l’ambiente che si pone come complementare al principio di prevenzione mediante la tutela anticipata rispetto alla fase dell’applicazione delle migliori tecniche previste, una tutela dunque che non impone un monitoraggio dell’attività in corso al fine di prevenire i danni, ma che esige di verificare preventivamente che la stessa attività non danneggi l’uomo o l’ambiente, valori questi sempre prevalenti sugli interessi economici (T.A.R. Lombardia, Brescia, n. 304 del 2005 nonché, TRGA Trentino-Alto Adige, TN, 8 luglio 2010 n.171), e riceve applicazione in tutti quei settori già ad elevato livello di protezione normativa ogni volta in cui vi siano dubbi di pericolo per la salute o l’ambiente indipendentemente dall’ accertamento di un effettivo nesso causale tra il fatto dannoso o potenzialmente tale e gli effetti pregiudizievoli che ne derivano.
Pertanto, argomentano le Amministrazioni resistenti, non può essere ravvisata una violazione del principio di precauzione nel senso indicato dai ricorrenti, atteso che la materia in esame è già armonizzata da una disciplina che assicura un’elevata tutela ai predetti valori in applicazione di quel principio, e che l’Amministrazione si è attenuta scrupolosamente alla medesima disciplina non per favorire un interesse economico configgente, bensì per assicurare l’espletamento di un servizio pubblico, quello idrico, essenziale proprio per la tutela di quei valori.
Al riguardo, prosegue parte resistente, l’imponente documentazione allegata in ottemperanza alla richiesta istruttoria di questo Tribunale dimostra la gravità delle circostanze eccezionali per le quali non è stato possibile dare completa attuazione ai provvedimenti necessari per ripristinare la qualità dell’acqua. Infatti, l’approccio generale per definire le azioni correttive, in merito a parametri che, per preesistenti fattori naturali endogeni ovvero la natura vulcanica dei suoli, sistematicamente superano i valori di parametro in vaste aree di approvvigionamento idrico, consiste nella ricerca sia di fonti alternative di qualità stabile a lungo termine, sia di strategie correttive sostenibili e durature, dal punto di vista sanitario ambientale, strutturale e gestionale, e ciò implica, di regola, una completa ri-pianificazione del sistema di approvvigionamento idrico, con considerevoli costi economici e tempi di realizzazione molto lunghi. D’altro canto le conoscenze scientifiche, relative alla tossicità cronica di piccole tracce di arsenico di origine naturale nell’ acqua potabile, si sono evolute proprio in questi due ultimi anni: la prova di ciò è nella datazione della bibliografia del rapporto del Comitato Scientifico sulla Salute ed i Rischi Ambientali, che nella seduta del 16 aprile 2010 prende proprio in considerazione gli ultimi dati, peraltro ancora non univoci, comparsi sulla letteratura internazionale.
Le difficoltà di realizzazione delle opere infrastrutturali, necessarie al raggiungimento degli obiettivi di qualità delle acque destinate al consumo umano, e la necessità di tempi lunghi per la loro attuazione, sarebbero ben presenti anche nelle premesse della Direttiva 98/83/CE che, a questo proposito, fissa al 25 dicembre 2003 il termine per la messa in conformità delle normative nazionali ma, con l’art. 15 (Casi eccezionali), recepito nel Decreto Legislativo 31/200 l all’art. 16, indica la possibilità di una proroga, di due periodi di tre anni ciascuno, dall’entrata in vigore del calendario il 25 dicembre 2003. A partire dalla effettiva data di entrata in vigore, ai sensi dell’ art. 9 (Deroghe) è applicabile lo strumento della deroga per due periodi di tre anni ciascuno, con procedimento nazionale, ed un ultimo periodo di tre anni, previa approvazione della Commissione Europea.
13. La stessa documentazione acquisita al giudizio in fase istruttoria comproverebbe inoltre, affermano i resistenti, la legittimità di tutti i provvedimenti emanati e la correttezza dell’iter istruttorio tecnico-amministrativo svolto dal punto di vista della conformità alla normativa comunitaria, recepita con decreto legislativo n. 31/2001, ai fini della predisposizione dell’ulteriore richiesta di deroga a seguito di una valutazione più attenta e più approfondita possibile dell’eventuale rischio per la salute pubblica.
Inoltre, proseguono i resistenti, antecedentemente e successivamente alla pubblicazione della Decisione comunitaria il Ministero della Salute è intervenuto a supportare l’implementazione di criteri e strategie metodologiche per l’attuazione dei regimi di deroga nei territori interessati e per la riprogrammazione delle azioni di rientro rese necessarie dalla prolungata tempistica decisionale da parte del legislatore europeo e delle azioni correttive contestualmente implementate dai sistemi idrici, conducendo anche, per il tramite dell’Istituto Superiore di Sanità, specifiche attività informative e di comunicazione, ed adottando le ordinanze recanti misure urgenti in materia di approvvigionamento idrico-potabile, ai sensi dell’articolo 32 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 in materia di emergenze sanitarie e di igiene pubblica, indispensabili a garantire continuità di fornitura ed approvvigionamento alla popolazione, al fine di evitare gli evidenti e più gravi rischi igienico-sanitari che si sarebbero potuti determinare da un’ improvvisa sospensione dell’ approvvigionamento idrico potabile.
14. Ricostruiti sommariamente i fatti secondo le diverse prospettazioni di parte, osserva il Collegio che ai fini del decidere occorre previamente accertare l’ammissibilità del ricorso, esaminando le numerose eccezioni opposte dalle Amministrazioni resistenti. In primo luogo, quanto alla legittimazione ad agire già riconosciuta dal Tribunale in sede di sommaria delibazione, il Collegio osserva che il Codacons è qualificato come associazione di protezione ambientale ai sensi dell’art. 13 l. n. 349 del 1986 e ciò risulta sufficiente ai fini della proposizione del presente ricorso, in quanto come tale ha la legittimazione ad agire in giudizio, oltre che per la tutela degli interessi individuali suoi propri come soggetto giuridico, anche per la difesa degli interessi recepiti nelle finalità statutarie (art. 3 1egge n. 281 del 1998; art. Il 1. n. 266 del 1991; art. 18 1. n. 349 del 1986), e tra essi vi sono, oltre la tutela ambientale la salute, il buon andamento dei servizi pubblici essenziali e della Pubblica Amministrazione e l’incolumità pubblica.
Inoltre, seppur solo “ad adiuvandum”, è necessario ricordare che il Codacons è una Associazione dei consumatori iscritta nell’elenco delle Associazioni dei consumatori e degli utenti rappresentative a livello nazionale di cui all’art. 137 del D.Lgs. 206/2005 (Codice del Consumo) e successive modificazioni, e per Statuto ha quale finalità esclusiva “quella di tutelare con ogni mezzo legittimo, ivi compreso il ricorso allo strumento giudiziario, i diritti e gli interessi dei consumatori ed utenti… (anche) nei confronti dei soggetti pubblici e privati, produttori e/o erogatori di beni e servizi”.
Lo stesso Codice del Consumo, all’art. 2, elenca espressamente i diritti riconosciuti come fondamentali ai consumatori e agli utenti, quali: “a) alla tutela della salute; b) alla sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi; c) ad una adeguata informazione a ad una corretta pubblicità; d) all’educazione al consumo; e) alla correttezza, alla trasparenza ed all’equità nei rapporti contrattuali; j) alla promozione e allo sviluppo dell’associazionismo libero, volontario e democratico tra i consumatori e gli utenti; g) all’erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità e di efficienza”. Quale Associazione inserita nell’elenco di cui all’art. 137 del Codice del Consumo, il Codacons è inoltre legittimato, nei casi previsti, “ad agire a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli utenti richiedendo al Tribunale: a) di inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti; b) di adottare misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate…”.
Analoghe e ancora più stringenti considerazioni valgono per l’Associazione utenti dei servizi pubblici, che persegue quale scopo statutario quello di tutelare i diritti e gli interessi degli associati e dei cittadini nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni che gestiscono servizi pubblici, e comunque, osserva il Collegio, la questione della legittimazione delle Associazioni ricorrenti non appare dirimente per l’esame della controversia nel merito, considerata la indubitabile legittimazione dei privati che agiscono quali singoli utenti, in forza delle utenze indicate, del servizio idrico limitato dalle ordinanze impugnate.
15. Osserva altresì il Collegio che è stato preliminarmente eccepito il difetto di giurisdizione del Giudice adito, vertendo la controversia -secondo la tesi di parte resistente- intorno ad un problema di riduzione della tariffa imposta per la fornitura di un servizio pubblico, sulla base di quanto disposto dall’art. 133 lett c) c.p.a., che devolve alla giurisdizione esclusiva del G.A. “le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi “.
Parte ricorrente ribatte che la propria pretesa avente ad oggetto l’adozione da parte dei comuni di provvedimenti finalizzati al ribasso delle tariffe, sia come minor compenso di un minor servizio erogato, sia – per i comuni dove il problema e’ in atto rimosso e l’acqua e’ oggi potabile – come ulteriore pretesa ad ottenere il risarcimento di tutti i danni subiti, (così come la pretesa a vedere ordinata alle amministrazioni resistenti l’adozione di tutte le misure più idonee a tutelare la propria situazione giuridica soggettiva, lesa per effetto della loro inerzia ai sensi dell’art. 34, comma 1 lett. b e lett. c), concernono con tutta evidenza una questione connessa all’esercizio di un potere pubblico, e non rapporti individuali di utenza, essendo finalizzate all’annullamento di atti (le ordinanze comunali) che costituiscono il frutto di un esercizio illegittimo del potere. Non può, infatti, dubitarsi, prosegue parte ricorrente, che, allorquando la questione involga la verifica della legittimità dell’azione autoritativa della pubblica amministrazione esercitata attraverso lo svolgimento di un potere discrezionale, cui si contrappone una situazione giuridica soggettiva di interesse legittimo, la controversia sia attratta nella sfera di competenza giurisdizionale del giudice amministrativo. A tal fine, viene invocata la giurisprudenza amministrativa (T.A.R. Campania, n. 24/2009) formatasi in una controversia attinente alla stessa materia, in cui il Giudice adito, in via preliminare, ha respinto la questione pregiudiziale relativa al difetto di giurisdizione, ritenendo sussistente la giurisdizione amministrativa in quanto il thema decidendum riguardava proprio l’atto autoritativo con cui erano stati definiti i criteri per la parametrazione della tariffa dovuta da ogni singolo utente del servizio idrico, in ragione dell’ esercizio di un potere discrezionale. Conf. Consiglio di Stato, Sez. VI, 10 maggio 2007, n. 2239; T.A.R. Lazio, Latina, 24 giugno 2006, n. 406; nonché Cassazione civile, Sez. Un., 10 settembre 2004, n. 18263 e 13 ottobre 1997, n. 9962, secondo cui, laddove si contesti l’organizzazione del servizio sotto vari profili (qualità dell’acqua, perdite nella rete e nelle condotte di adduzione, registrazione dei consumi presso gli uffici pubblici) e si sostenga che il servizio non si presenta pienamente fruibile per il consumatore, la giurisdizione va riservata al giudice amministrativo, in quanto la domanda non censura “incidenter tantum” il provvedimento amministrativo, chiedendone la disapplicazione ai fini della tutela del diritto soggettivo al pagamento di un canone contrattualmente stabilito, ma investe in via principale le scelte discrezionali dell’ente in ordine alla determinazione del canone e contesta l’organizzazione del servizio, facendo valere una situazione giuridica qualificabile come interesse legittimo correlato ad un atto adottato dall’ente territoriale come autorità nell’esercizio di una potestà amministrativa.
16. Al riguardo, il Collegio ritiene necessario avviare il ragionamento dal disposto dell’art. 133, lett. c) c.p.a. che, escludendo dalla giurisdizione esclusiva le controversie concernenti indennita’, canoni ed altri corrispettivi “in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi”, la prevede invece nelle controversie “relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo”. Pertanto, essendo stata contestata proprio la legittimità di provvedimenti che hanno implicitamente ribadito la doverosità del corrispettivo a fronte dell’ erogazione di acqua non potabile, viene in rilievo l’esercizio di un potere discrezionale dell’ amministrazione. La predetta circostanza vale a qualificare la competenza di questo Tribunale in sede di giurisdizione esclusiva per i servizi pubblici locali, attenendo la controversia, in realtà, non alla determinazione della tariffa finale per l’utente, bensì alla stessa individuazione autoritativa dell’idoneità del servizio pubblico in esame sotto il profilo della pubblica salute, nonché alla verifica dell’eventuale lesione del diritto alla salute conseguente alla errata disciplina pubblicistica del medesimo servizio, radicando la cognizione presso questo Giudice ai sensi dell’art. 133, comma 1, lettera c) c.p.a.
17. In secondo luogo, è stata dedotta l’inammissibilità del ricorso per carenza di interesse per mancata impugnazione dell’originario provvedimento lesivo. A questo riguardo, le controparti hanno infatti rilevato che le ordinanze con le quali era stato disposto il divieto di utilizzo dell’ acqua per il consumo potabile sono state “correttamente” adottate “in esecuzione pedissequa della decisione della Commissione Europea, nonché dell’art. 2 D.M del 24.11.2010, secondo cui “L’acqua distribuita (. . .) non deve essere utilizzata per il consumo potabile dei neonati e dei bambini fino all’età di tre anni”, D.M. che, tuttavia, non sarebbe stato impugnato dai ricorrenti.
I Comuni resistenti, a propria volta, hanno altresì eccepito il loro difetto di competenza nella determinazione della tariffa dell’acqua, richiamando all’uopo il disposto dell’art. 148 del Codice dell’ambiente e del successivo art. 154, per sostenere l’esclusiva competenza dell’Autorità d’Ambito -quale soggetto munito di autonoma personalità giuridica e dunque soggettivamente ben distinto dai comuni che vi aderiscono- nella determinazione della tariffa di base.
A ciò hanno aggiunto il rilievo secondo cui il decreto ministeriale n. 243 del 1996 con cui è stato approvato il metodo normalizzato per la definizione delle componenti di costo e la determinazione della tariffa di rifermento del servizio idrico integrato, non avrebbe inserito tra le componenti della tariffa dell’ acqua la “qualità della risorsa idrica”, deducendo così che “non sarebbe comunque possibile una riduzione tariffaria a favore degli utenti che siano forniti di acqua divenuta non potabile”, e citando al riguardo il parere espresso dalla Commissione Nazionale per la Vigilanza sulle risorse idriche, nella parte in cui si conclude per: “l’impossibilità di prevedere una riduzione tariffaria a favore degli utenti che sono forniti di acqua non idonea al consumo umano diminuendo una corrispondente componente dell’attuale tariffa reale media”.
Parte ricorrente obietta che in capo ai cittadini ricorrenti sussistono esigenze di giustizia sostanziale, che spaziano dalla necessità di salvaguardare la propria salute e quella dei propri cari, a quella di non trovarsi costretti a pagare a prezzo pieno un servizio privo delle qualità richieste. Infatti, continuano i ricorrenti, la tariffa dell’acqua è considerata dalla legge quale vero e proprio “corrispettivo del servizio idrico integrato” ed è determinata tenendo conto della qualità della risorsa idrica e del servizio fornito”, ed inoltre che la competenza alla sua determinazione e rimodulazione è da ritenersi attribuita proprio agli enti locali, che provvedono, nelle forme di Autorità di Ambito quale sistema di gestione dei segmenti di servizio riferiti all’adduzione, captazione, distribuzione di acqua ad usi civili, fognatura e depurazione delle acque reflue facendo applicazione del “Metodo Normalizzato per la definizione delle componenti di costo e la determinazione della tariffa di riferimento del servizio idrico integrato”, di cui al d.m. l agosto 1996, emanato in attuazione dell’articolo 13 della legge 36/1994, che continua ad applicarsi in base all’articolo 170, comma 3, lettera l), del d.lgs. 152/2006.
18. A giudizio del Collegio non può essere revocata in dubbio la sussistenza di un interesse concreto, differenziato ed attuale dei ricorrenti, Associazioni ed utenti del servizio idrico, alla decisione da parte del Giudice amministrativo delle proprie diverse domande, formulate nel ruolo, da un lato, di statutaria rappresentanza degli interessi della generalità degli utenti e, dall’altro, di taluni degli stessi utenti, ed in entrambi i casi non concernenti direttamente le modalità di prestazione del servizio all’utente finale, bensì il legittimo esercizio dei poteri autoritativi della pubblica autorità relativi alla disciplina del servizio pubblico in esame, sotto i plurimi profili del rispetto della vigente normativa (e non delle specifiche condizioni contrattuali) circa la idoneità (più che la qualità) del servizio prestato, e circa la necessaria tutela del diritto alla salute che potrebbe esserne pregiudicato.
Da questo punto di vista, i ricorrenti espongono altresì il proprio interesse all’adozione delle misure più idonee alla soluzione del problema dell’arsenico nell’acqua e alla riduzione delle tariffe, cui corrisponderebbe l’obbligo dei comuni di provvedere alla riduzione delle tariffe dell’acqua ad uso potabile sino ad oggi praticate per effetto della diminuzione di qualità del servizio idrico erogato. L’iniziativa dei ricorrenti di concentrare in un unico giudizio più domande nei confronti delle amministrazioni convenute nascerebbe dall’esigenza di assicurare agli utenti rappresentati una tutela piena ed effettiva dell’interesse fatto valere in giudizio.
Infine, a giudizio del Collegio neppure può essere accolta la descritta eccezione di carenza di interesse o tardività con riferimento alla mancata impugnazione dell’originario decreto ministeriale del 21 novembre 2010, alla stregua della ricostruzione sistematica offerta dai ricorrenti, secondo cui la competenza in materia tariffaria competerebbe esclusivamente agli Enti locali i cui decreti sono stati tempestivamente impugnati, fermi i poteri dell’Amministrazione centrale di predisporre i relativi criteri, ovvero di adottare il “Metodo Normalizzato per la definizione delle componenti di costo e la determinazione della tariffa di riferimento del servizio idrico integrato”, di cui al d.m. l agosto 1996, emanato in attuazione dell’articolo 13 della legge 36/1994.
19. A giudizio del Collegio neppure appare dubbia la legittimazione passiva di tutte le Amministrazioni intimate: sicuramente quanto alle Amministrazioni locali che vorrebbero ritenersi escluse in quanto tenute all’applicazione del predetto “metodo normalizzato”, essendo le stesse, comunque, autrici delle ordinanze d’urgenza impugnate, e di cui a torto o a ragione i ricorrenti deducono l’illegittimità, ma anche quanto alle altre Amministrazioni, statali, regionali e provinciali autonome, poiché munite di poteri pubblicistici di disciplina e vigilanza in materia di adozione di prescrizioni sanitarie vincolanti e di formulazione dei criteri per la concreta formazione delle tariffe (le Regioni ed i Ministeri), ovvero, ancora, poiché in astratto tutte potenzialmente responsabili o corresponsabili del danno lamentato dai ricorrenti. Infatti, il D.lgs. n.31/2001 pone in capo allo Stato, alle Regioni ed ai Comuni -per ciò che concerne la problematica della salubrità delle acque- degli obblighi precisi, al fine di ottenere l’autorizzazione a derogare per periodi di tempo determinati ai parametri massimi di arsenico consentito nell’acqua potabile, obblighi che secondo i ricorrenti non sarebbero stati assolti correttamente con grave danno per gli utenti e per la popolazione coinvolta.
In particolare, quanto al potere di stabilire deroghe ai parametri fissati dalla legge, l’art. 13 del D.lgs. n. 31/01 attribuisce al Ministero della Sanità, di concerto con il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare su motivata richiesta della Regione o Provincia autonoma, il potere di individuare il limite entro cui sono ammissibili le deroghe ai parametri di legge, mediante l’adozione di apposito decreto che deve essere dettagliatamente motivato attraverso l’indicazione dei seguenti dati:
a) motivi della richiesta di deroga con indicazione della causa del degrado della risorsa idrica;
b) i parametri interessati, i risultati dei controlli effettuati negli ultimi tre anni, il valore massimo ammissibile proposto e la durata necessaria di deroga;
c) l’area geografica, la quantità di acqua fornita ogni giorno, la popolazione interessata e gli eventuali effetti sulle industrie alimentari interessate;
d) un opportuno programma di controllo che preveda, se necessario, una maggiore frequenza dei controlli rispetto a quelli minimi previsti;
e) il piano relativo alla necessaria azione correttiva, compreso un calendario dei lavori, una stima dei costi, la relativa copertura finanziaria e le disposizioni per il riesame.
In ogni caso, il Ministero della sanità, entro due mesi dall’adozione della deroga, è tenuto a comunicare alla Commissione europea i provvedimenti adottati e i risultati conseguiti, dai quali chiaramente viene fatta dipendere l’autorizzazione o meno alla deroga.
Per quanto riguarda invece le Regioni e le Province Autonome, l’art. 12 D.lgs.vo n. 31/2001 ha individuato, tra le altre, le seguenti competenze:
a) previsione di misure atte a rendere possibile un approvvigionamento idrico di emergenza per fornire acqua potabile rispondente ai requisiti previsti dall’allegato I, per la quantità ed il periodo minimi necessari a far fronte a contingenti esigenze locali;
b) esercizio dei poteri sostitutivi in casi di inerzia delle autorità locali competenti nell’adozione dei provvedimenti necessari alla tutela della salute umana nel settore dell’approvvigionamento idrico e potabile;
c) concessione delle deroghe ai valori di parametro fissati all’allegato I parte B o fissati ai sensi dell’articolo Il, comma l, lettera b),e gli ulteriori adempimenti di cui all’articolo 13;
d) adozione di piani di intervento per il miglioramento della qualità delle acque destinate al consumo umano.
20. Accertata l’ammissibilità del ricorso e delle sue censure e domande e la legittimazione attiva e passiva dei suoi diversi protagonisti, il Collegio deve procedere all’esame del merito delle complesse questioni dedotte ordinandole, per chiarezza di esame ed esposizione, in ordine logico secondo le diverse domande proposte.
21. Viene, dunque, innanzitutto in rilievo la domanda di annullare in parte qua le ordinanze con cui i comuni resistenti hanno disposto la non potabilità e l’inibizione dell’uso delle acque destinate al consumo umano, nella parte in cui hanno omesso di prevedere una riduzione delle tariffe per il consumo dell’ acqua potabile, con l’ulteriore domanda –che ne costituisce il logico corollario – di inibire, ai sensi dell’ art. 140 del Codice del Consumo, gli atti e i comportamenti tenuti dalle Amministrazioni odierne resistenti e, per l’effetto, di ordinare alle stesse di attivarsi nel porre in essere le attività di propria competenza, al fine di consentire la determinazione al ribasso delle tariffe oggi praticate dalle Autorità d’Ambito in favore degli abitanti di tutti i comuni in cui l’acqua è stata espressamente dichiarata non potabile disponendo se necessario, ai sensi dell’art. 34, comma 2, lett. e) c.p.a., le misure idonee ad assicurare l’attuazione della sentenza da emanarsi in esito al presente giudizio, ivi comprese la nomina di un commissario ad acta e l’attivazione delle misure di controllo sostitutivo previste dall’art. 120 della Costituzione.
Il Collegio si è già sopra espresso per l’ammissibilità delle domande in esame, che possono peraltro trovare accoglimento nel merito solo in parte, dovendo essere respinte per tutti gli ulteriori profili.
Infatti, la ritenuta giurisdizione del Giudice amministrativo è radicata sulla connessione della questione all’esercizio di un potere autoritativo discrezionale riferito alla disciplina generale del servizio, che in questo caso ha riguardato l’adozione di provvedimenti recanti misure urgenti in materia di approvvigionamento idrico-potabile, ai sensi dell’articolo 32 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, in materia di emergenze sanitarie e di igiene pubblica e, quindi, del tutto estranei alla materia tariffaria. Ne discende che i poteri d’urgenza attivati con gli impugnati provvedimenti non potevano estendersi a previsioni tariffarie e che, quindi, la mancata introduzione di tali profili non può in alcun caso revocare in dubbio la loro legittimità, tanto più che la definizione delle tariffe, alla stregua delle disposizioni applicabili pro tempore alla fattispecie nel quadro di una normativa pur in costante mutamento (artt. 148 e 154 del Codice dell’ambiente), è di esclusiva competenza dell’Autorità d’Ambito, quale soggetto munito di autonoma personalità giuridica e dunque soggettivamente ben distinto dai comuni che pure vi aderiscono legittimandoli.
Non avendo i Comuni, legittimamente, introdotto le variazioni tariffarie nei propri provvedimenti e non essendo, inoltre, i Comuni direttamente competenti a variare le tariffe in esame, è evidente la non accoglibilità anche della successiva domanda esaminata in ordine logico-sequenziale, di ordinare agli stessi Comuni di fare ciò che non hanno potuto fare con gli atti impugnati, né la domanda può essere accolta con riferimento a Stato e Regioni, alla stregua della disciplina sopravvenuta al recente referendum abrogativo, che impone ai ricorrenti di riformulare la domanda e se del caso di ricorrere contro il diniego o il silenzio, fermo restando che in nessun nodo la riduzione della tariffa attuale (che va parametrata al servizio oggi fornito) potrà tener conto di eventuali limitazioni passate del servizio (che potrebbero casomai motivare eventuali richieste indennitarie o risarcitorie).
22. In ogni caso, osserva il Collegio, alla data in cui il Codacons ha diffidato gli Enti locali e regionali intimati, ai sensi dell’art. 140 del Codice del Consumo, ad adottare tutti i provvedimenti ritenuti più opportuni, in conformità con la legge, a risolvere il problema dell’acqua contaminata con l’arsenico, atto necessariamente presupposto per la successiva proposizione del ricorso contro l’adozione delle richieste misure, gli stessi Enti non avrebbero potuto in alcun modo darvi ottemperanza, essendo tenuti al rispetto del più volte citato “Metodo normalizzato” di determinazione delle tariffe fissato in ambito nazionale, che non contemplava tale possibilità.
Peraltro, il Collegio prende atto che, sotto il profilo della legittimità, il decreto ministeriale n. 243 del l agosto 1996, ormai in via di superamento alla stregua della sopravvenuta normativa, essendo stato emanato in attuazione dell’articolo 13 della legge 36/1994 (e poi richiamato dall’articolo 170, comma 3, lettera l), del d.lgs. 152/2006), palesava prima facie la propria illegittimità sul punto, per l’insanabile contrasto con la norma di cui all’art. 13 della stessa legge n. 36/1994, che invece prevedeva che la tariffa fosse determinata “tenendo conto della qualità della risorsa idrica e del servizio fornito”, oltrechè “delle opere e degli adeguamenti necessari, dell’entità dei costi di gestione delle opere, dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito e dei costi di gestione delle aree di salvaguardia, in modo che fosse assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio” (disposizione ripresa in maniera pressoché integrale dall’art. 154 del D. Lgs. 152/2006), comprendendo la “qualità della risorsa idrica” e la “qualità del servizio fornito” fra i parametri da utilizzare.
Più in generale, a giudizio del Collegio, alla stregua della normativa nazionale e comunitaria costituisce un chiaro principio di diritto la necessità che la tariffa prefissata in via generale per l’utenza di un servizio pubblico locale di rilevanza economica sia fissata sulla base del servizio effettivamente fornito al singolo utente (esulando del tutto tale pagamento dai diritti riconducibili a strumenti di fiscalità generale, fatte salve le eventuali “fasce sociali”), e che pertanto la tariffa, in particolare se il servizio -come nella fattispecie e di regola accade- sia gestito in condizioni non concorrenziali e non consenta la scelta dei consumatori fra fornitori diversi, non possa essere unicamente parametrata ai costi ed investimenti prescindendo dalla valutazione della effettiva adeguatezza e qualità del servizio prestato e fruito dai consumatori.
23. I ricorrenti chiedono inoltre al Tribunale di voler accertare e dichiarare la responsabilità e, per l’effetto, condannare le Amministrazioni Ministeriali e Regionali resistenti al risarcimento del danno complessivamente arrecato agli stessi ricorrenti quali utenti del servizio idrico, da valutarsi in via equitativa nella somma di €.600 pro capite, ovvero nella maggiore o minor somma che sarà ritenuta di giustizia, di cui €.100 commisurati al costo sostenuto procapite all’ anno per il consumo di acqua potabile, e i restanti €.500 a titolo di danno patrimoniale, di danno biologico e di danno morale.
Il Collegio, premessa la competenza di questo Tribunale alla decisione sulla domanda nell’ambito della propria giurisdizione esclusiva, ha già dato conto delle ampie deduzioni fornite in sede istruttoria dalle Amministrazioni resistenti, secondo le quali il loro operato è stato del tutto adeguato, in relazione all’esigenza di assicurare il servizio idrico in presenza di condizioni ambientali naturali particolarmente avverse, ai fini della corretta attuazione di una disciplina comunitaria che, essendo già molto cautelativa per la tutela degli interessi sanitari, osterebbe all’applicabilità dell’ulteriore “principio di precauzione” invocato dai ricorrenti.
I ricorrenti, al contrario, pur dando atto che il “problema” arsenico nella maggior parte dei casi è di origine naturale e non derivante da attività antropiche, rilevano che lo stesso avrebbe potuto essere risolto definitivamente programmando per tempo i necessari investimenti pubblici, e che sarebbe ravvisabile una evidente “colpevolezza” della P.A. per violazione dei principi di buon andamento e imparzialità, economicità, efficacia, pubblicità e trasparenza, mediante un atteggiamento inerte e superficiale, noncurante del danno recato (citando Consiglio di Stato, sez. V, 8 settembre 2008, n. 4242, e Corte di Cassazione, sez. III, 21 ottobre 2005, n. 20358 secondo cui “l’illegittimità dell’atto è solo un fattore concorrente ad integrare l’illiceità della condotta, la quale deve essere verificata in base al rispetto delle regole proprie dell’azione amministrativa, poste con norme costituzionali (imparzialità e buon andamento), con norme di legge ordinaria (celerità, efficienza, efficacia, trasparenza), o da principi generali dell’ordinamento, come applicati dall’interprete (ragionevolezza, proporzionalità, adeguatezza) “). Ancora secondo i ricorrenti, per la giurisprudenza amministrativa più recente, la colpa della Pubblica Amministrazione si configura ogniqualvolta questa ponga in essere una “violazione dei canoni di imparzialità, correttezza e buona amministrazione”, ovvero qualora il suo comportamento sia caratterizzato da “negligenza, omissioni o anche errori interpretativi di norme, ritenuti non scusabili” (citando Consiglio di Stato, sez. VI, 27 aprile 2010, n.2384).
In particolare, secondo i ricorrenti, l’adozione dei decreti di deroga ai parametri di legge sull’arsenico avrebbe dovuto presupporre lo svolgimento di un iter ben preciso, coinvolgendo tanto lo Stato quanto le Regioni a tutela delle popolazioni interessate.
Dunque, il dovere di attivarsi per risolvere all’origine il problema della contaminazione delle acque con sostanze quali l’arsenico, è demandato esclusivamente allo Stato e alle Regioni, mentre in forza di quanto previsto al titolo II, Sez. III, del Codice dell’Ambiente, agli enti locali sarebbe stata demandata, attraverso le Autorità d’Ambito, la sola attività di gestione e manutenzione del servizio idrico, salvo il dovere dello Stato di sostituirsi comunque a Regioni ed Enti locali in caso di “pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedano ( … ) la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali” (art. 120 Cost.), in questo modo addossando comunque allo Stato la responsabilità dell’insalubrità delle acque.
24. Quanto al danno ingiusto lamentato dagli abitanti dei comuni coinvolti dalla decisione della Commissione Europea, e direttamente riconducibile alle inadempienze perpetrate per due trienni consecutivi da parte dell’Amministrazione pubblica, devono essere considerati, secondo i ricorrenti, più profili:
- innanzitutto, la spesa sostenuta da ciascun cittadino quale intestatario della bolletta dell’acqua, a titolo di corrispettivo per un servizio che non è stato adeguatamente prestato, con risarcimento parametrato al costo procapite annuo per il consumo di acqua potabile, stimato in via equitativa in €. 100, considerando il costo medio delle bollette e il fatto che l’inadempimento da parte della P .A. si è protratto per 6 anni, a far data dall’emissione del primo decreto di deroga, fino all’emanazione delle ordinanze di non potabilità oggetto del presente giudizio.
- inoltre, la somma di €.500 in favore di ciascuno dei ricorrenti, calcolata in via equitativa a titolo di risarcimento del danno patrimoniale, biologico e morale subito: il danno patrimoniale sarebbe costituito dalle spese vive che ciascun ricorrente è stato costretto a sostenere dal momento in cui è venuto a conoscenza del pericolo per la propria salute e per quella dei suoi familiari derivante dall’ingestione costante nel tempo di acqua contaminata dall’arsenico. A questo riguardo, ribadiscono i ricorrenti, la consapevolezza della presenza di arsenico nell’ acqua in quantitativi superiori di 3, 4, 5 volte le soglie ammesse, è potuta avvenire solo nel momento in cui si è avuta conoscenza delle ordinanze oggetto del presente giudizio, posto che, fino a quel giorno, la popolazione non era stata minimamente informata e perciò aveva continuato a bere e a cucinare con l’acqua contaminata del rubinetto. Infatti, proseguono i ricorrenti, il problema della presenza di arsenico oltre ogni limite di tolleranza nell’acqua di 128 comuni italiani era noto da tempo all’amministrazione statale e a quelle regionali, che hanno abusato dello strumento della deroga messo a disposizione dalla legge al di fuori di ogni previa istruttoria, persistendo nel voler tenere all’oscuro la popolazione, tanto dei quantitativi di arsenico effettivamente presenti nelle acque dei territori interessati, quanto dei rischi connessi all’ ingestione di tale sostanza.
Il danno biologico, a propria volta, andrebbe ravvisato nell’ evidente incidenza negativa che ha avuto per la salute di ciascuno degli odierni ricorrenti l’ingestione sino ad oggi quotidiana di acqua contaminata dall’arsenico.
In ultimo, i ricorrenti chiedono il riconoscimento del danno morale, connesso alla paura per la propria salute, ragionevolmente sorta in capo a ciascuno degli abitanti dei comuni in cui è stata riscontrata la presenza di arsenico nell’acqua oltre i limiti di legge, per aver consumato in modo costante negli anni un’acqua pericolosamente contaminata.
Al riguardo, i ricorrenti rinviano alle conclusioni della perizia di parte redatta da un medico loro consulente tecnico, secondo cui la consapevolezza della minaccia costituita da livelli di arsenico nell’acqua potabile erogata potenzialmente tossici produce nella popolazione una condizione di vulnerabilità e di impotenza psichica, nell’impossibilità di porre in essere idonee misure comportamentali protettive, individuali o collettive, generando uno stato di stress continuo in grado di aprire la strada ad altre minacce alla salute, oppure aggravare quelle già in atto, quali le psicopatie, le patologie tumorali, le patologie infettive e le patologie cardiovascolari ed inoltre creando il rischio di meccanismi psicologici di rifiuto di prendere consapevolezza della minaccia senza tutelare la propria salute.
I ricorrenti richiamano inoltre la giurisprudenza (Cass. Civ. n. 11059/09) formatasi in relazione ai danni subiti dai cittadini residenti vicino all’impianto di Seveso per la fuoriuscita di una nube tossica composta da diossina, secondo cui il patema d’animo derivante dalla paura di possibili ripercussioni sulla salute provocate dall’essere stati esposti ad un ambiente inquinato da sostanze tossiche, deve essere risarcito come danno morale. D’altra parte, proseguono i ricorrenti, con la sentenza n. 25187/2007 la giurisprudenza di legittimità aveva già evidenziato che “alla risarcibilità del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. non osterebbe l’impossibilità di qualificare il fatto dannoso in termini di reato”, sul presupposto per cui il limite derivante dalla riserva di legge correlata all’art. 185 c.p. va superato in quanto il risarcimento dei danni non patrimoniali deve essere riconosciuto in tutte le ipotesi in cui il fatto illecito violi un valore costituzionalmente garantito della persona, indipendentemente dalla circostanza che il fatto integri o meno un’ipotesi di reato (citando SS. UU. sentenze nn. 26972, 26973, 26974 e 26975 de12008).
Nel caso di specie, in particolare, secondo i ricorrenti sarebbero configurabili, in astratto, una o più ipotesi di reato a carico dei dirigenti delle amministrazioni coinvolte, considerando, con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 449 c.p., la configurabilità di un pericolo grave per la vita o l’incolumità delle persone indeterminatamente considerate, alla luce della giurisprudenza (Cass.Pen. n. 5820/2000) secondo cui è necessaria una concreta situazione di pericolo per la pubblica incolumità nel senso della ricorrenza di un giudizio di probabilità relativo all’attitudine di un certo fatto a ledere o mettere in pericolo un numero non individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti; ed, inoltre, l’effettività della capacità diffusiva del nocumento deve essere accertata in concreto, ma la qualificazione di grave pericolosità non viene meno allorché, casualmente, l’evento dannoso non si sia verificato.
25. La questione ora in esame, oltreché estremamente delicata e rilevante per la possibile incidenza sul diritto alla salute di un numero dei soggetti potenzialmente pregiudicati superiore ad un milione, è particolarmente complessa sul piano tecnico e giuridico, ed a giudizio del Collegio deve essere ricostruita innanzitutto alla stregua della disciplina di diritto comunitario, a partire dal “principio di precauzione”.
Si tratta di un principio generale ormai codificato in ambito europeo e riconosciuto dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale, che fa obbligo alle Autorità competenti di adottare provvedimenti appropriati al fine di prevenire i rischi potenziali per la sanità pubblica, per la sicurezza e per l’ambiente, ponendo una tutela anticipata rispetto alla fase dell’applicazione delle migliori tecniche proprie del principio di prevenzione, e che quindi esige di verificare preventivamente che l’attività in esame non danneggi l’uomo o l’ambiente, facendo prevalere la protezione di tali valori sugli interessi economici (T.A.R. Lombardia, Brescia, n. 304 del 2005, TRGA Trentino-Alto Adige, TN, 8 luglio 2010 n.171), indipendentemente dall’accertamento di un effettivo nesso causale tra il fatto dannoso o potenzialmente tale e gli effetti pregiudizievoli che ne derivano, come più volte statuito anche dalla Corte di Giustizia comunitaria, secondo la quale l’esigenza di tutela della salute umana diventa imperativa già in presenza di rischi solo possibili, ma non ancora scientificamente accertati, atteso che la regola della precauzione può essere considerata come un principio autonomo che discende dalle disposizioni del Trattato (Corte di Giustizia CE, 26.11.2002 T132; sentenza 14 luglio 1998, causa C-248/95; sentenza 3 dicembre 1998, causa C-67/97, Bluhme; Cons. Stato, VI, 5.12.2002, n.6657; T.A.R. Lombardia, Brescia, 11.4.2005, n.304).
Secondo la giurisprudenza formatasi sul punto, dunque, l’applicazione del principio di precauzione comporta che, ogni qual volta non siano conosciuti con certezza i rischi indotti da un’attività potenzialmente pericolosa, l’azione dei pubblici poteri debba tradursi in una prevenzione anticipata rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche, anche nei casi in cui i danni siano poco conosciuti o solo potenziali.
26. Il predetto principio deve essere coordinato con quelli di libera concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi fissati dal Trattato dell’Unione Europea, che attribuisce inoltre alla stessa Unione precipui compiti di tutela ambientale e sanitaria della popolazione sull’intero territorio comunitario. Ciò implica, secondo l’univoca giurisprudenza della Corte di Giustizia richiamata dalle Amministrazioni resistenti, che, in presenza di una disciplina armonizzata a livello comunitario che dichiaratamente assicura una tutela esaustiva di un particolare profilo sanitario, il principio di precauzione deve ritenersi assorbito dalla medesima disciplina, con la conseguente legittimità delle attività nazionali svolte in ottemperanza a tali previsioni.
Pertanto, a giudizio del Collegio non può essere ravvisata né una particolare antigiuridicità per violazione di disposizioni giuridiche o di norme tecniche o di cautela, né un particolare profilo soggettivo di dolo o colpa nella valutazione dell’interesse pubblico sanitario, nel comportamento delle Amministrazioni che, nell’attuare (ciascuna per quanto di competenza) la nuova disciplina armonizzata di cui alla direttiva 98/83/CE, recepita con il Dlgs 2 febbraio 2001, n. 31 e concernente la qualità delle acque destinate al consumo umano, hanno attivato il previsto istituto della possibile deroga dei previsti limiti di concentrazione di talune sostanze tossiche e nocive in relazione alle criticità più rilevanti derivanti dalla presenza in falda dei minerali presenti nel sottosuolo vulcanico del territorio italiano, con riferimento fra l’altro alla concentrazione massima di arsenico pari a 10 ug/l (microgrammi per litro), adottando il valore massimo di 50 ug/l ammesso dalla previgente disciplina nazionale (DPR 24 maggio 1988 n. 265) ai fini dell’ottemperanza all’obbligo di rispettare comunque un valore massimo ammissibile quando non sia possibile rispettare provvisoriamente il nuovo limite e neppure sia possibile l’approvvigionamento d’acqua con altro mezzo congruo, e purché ciò non rappresenti un potenziale pericolo per la salute umana.
Le precedenti considerazioni secondo il Collegio precludono il richiesto risarcimento del danno, in relazione alla prestazione del servizio idrico in conformità alla vigente disciplina nazionale e comunitaria, né appare possibile alcuna rivalsa risarcitoria dei ricorrenti nei confronti degli enti locali, per la mancata parametrazione delle tariffe alla diminuita qualità del servizio, in quanto una tale possibilità era loro preclusa dal più volte citato “Metodo Normalizzato” solo ora impuganto ed annullato in sede giurisdizionale.
27. Si è così giunti alla nota in data 13 novembre 2009 con cui l’Amministrazione italiana richiede, ai sensi del citato art. 13, comma 6, del D. Lgs. n. 31/2001, il necessario parere della Commissione europea ai fini dell’ottenimento del terzo ed ultimo periodo di deroga, per il triennio 2010-2012, al limite massimo consentito dalla legge per l’arsenico nell’acqua (da l0 ug/l fino a 50 ug/l) per 128 comuni, di cui 91 nel Lazio, 8 in Lombardia, l0 nelle Province Autonome di Trento e Bolzano, 16 in Toscana e 3 in Umbria, interessando circa un milione di utenti (1.009.455 persone, secondo i ricorrenti).
La Commissione europea, peraltro, in questa occasione reputa opportuno chiedere un approfondimento della complessa documentazione relativa alla situazione italiana al Comitato Scientifico dei Rischi Sanitari ed Ambientali, che con parere in data 16 aprile 2010 ritiene che esista ancora oggi un dubbio scientifico circa il reale rischio sanitario di determinate concentrazioni di arsenico nell’acqua destinata al consumo umano, tant’è che la maggior parte degli studiosi afferma che un valore di arsenico nell’acqua destinata al consumo umano fino a 50 ug/l non rappresenti un rischio addizionale per la popolazione, mentre solo una minoranza di esperti indica una aumentata probabilità di rischio per livelli superiori a 20 ug/l, soprattutto per i neonati non allattati al seno o esposti ad altri inquinanti come il fumo passivo.
A questo punto, la Commissione europea fa essa stessa ricorso al citato “principio di precauzione” ed il 28 ottobre 2010 si pronuncia definitivamente, ritenendo di non poter accordare le deroghe richieste per l’arsenico in concentrazioni superiori a 20 ug/l, rilevando che “le prove scientifiche nei documenti indicati in riferimento negli orientamenti dell’Organizzazione mondiale della sanità e nel parere del comitato scientifico dei rischi sanitari e ambientali consentono deroghe temporanee fino a 20 ug/l, mentre valori di 30, 40 e 50 ug/l determinerebbero rischi sanitari superiori, in particolare talune forme di cancro”, ed aggiungendo che “Occorre che l’Italia rispetti gli obblighi imposti dalla direttiva 98/83/CE”.
Con peculiare riguardo, poi, alle deroghe consentite fino alle date e per i valori massimi specificati, la Commissione specifica che: “Fatti salvi gli obblighi fissati nella direttiva 98/83/CE, le deroghe di cui all’articolo 1, paragrafo 1, sono soggette alle seguenti condizioni aggiuntive: 1) ai fini del consumo di acqua potabile da parte dei neonati e dei bambini fino all’età di 3 anni, l’Italia assicura che la fornitura di acqua rispetti i valori dei parametri della direttiva 98/83/CE; 2) l’Italia informa gli utenti sulle modalità per ridurre i rischi legati all’acqua potabile per la quale è stata concessa la deroga. e in particolare informa gli utenti sui rischi legati al consumo dell’acqua oggetto di deroga da parte di neonati e di bambini fino all’età di 3 anni; 3) l’Italia effettua un monitoraggio regolare dei parametri interessati nel quadro del regime di monitoraggio di cui all’allegato III; 4) l’Italia mette in atto i piani di azioni correttive di cui all’allegato III; 5) l’Italia presenta una relazione annuale sui progressi realizzati nelle misure correttive di cui all’Allegato III entro due mesi dalla fine di ogni anno di calendario a partire dal 2011 “.
28. Il quadro fattuale e giuridico di riferimento ai fini della decisione sulla domanda di risarcimento del danno muta, quindi, radicalmente con la decisione comunitaria del 28 ottobre 2010, resa nota (secondo quanto indicato dall’Avvocatura dello Stato) in data 5 novembre 2010, quando viene autorevolissimamente evidenziato il pur solo potenziale rischio sanitario che, in relazione alla gravità delle conseguenze (“talune forme di cancro”) ed alla entità e tipologia dei soggetti esposti (un milione di consumatori, con particolari rischi “soprattutto per i neonati” ed “i bambini fino all’età di tre anni”), in applicazione del “principio di precauzione” preclude ogni ulteriore possibile deroga oltre la soglia di 20 ug/l, esclude del tutto la deroga per i minori di tre anni ed impone un’attività di informazione di tutti gli utenti circa i rischi per i bambini fino a tre anni, nonché di progressivo adeguamento e monitoraggio con relazioni periodiche sui progressi compiuti, a partire dalla prima relazione che dovrà intervenire, prevede espressamente la Commissione europea, entro il 28 febbraio 2011.
A giudizio del Collegio, quindi, è a decorrere dal 5 novembre 2010 e fino alla data di proposizione del ricorso in epigrafe, che deve essere valutata la conformità dell’attività di tutte le Amministrazioni intimate, quale ricostruita dal Tribunale mediante l’esame dell’imponente e complessa documentazione ottenuta a seguito della disposta fase istruttoria, al “principio di precauzione” riferito agli importanti rischi sanitari evidenziati dalla Commissione europea alla luce delle più recenti acquisizioni scientifiche ancora in attesa di conferma, e ciò del tutto indipendentemente sia dalla mancata precedente attivazione delle pur possibili proroghe, sia dall’eventuale effettivo verificarsi di specifiche lesioni in danno di specifici soggetti .
In particolare, dal predetto esame documentale risulta, in estrema sintesi, che tutte le Amministrazioni regionali e locali costituitesi in giudizio, nel giudizio in epigrafe e nei giudizi analoghi contestualmente esaminati dal Collegio, hanno sostanzialmente adempiuto, pur in tempi e modi diversi, ai propri obblighi relativi alla gestione ed all’adeguamento del servizio idrico, al monitoraggio ed alla segnalazione delle criticità relative alla presenza di sostanze tossiche ed all’adozione, nell’ambito delle disponibilità di bilancio, delle misure informative della popolazione, delle misure temporanee sostitutive per la fornitura di acqua potabile e per la progressiva conformazione del servizio idrico alle nuove prescrizioni. I ricorrenti, da parte loro, non allegano principi di prova contrastanti con le predette conclusioni, né deduzioni di contrario avviso per le Amministrazioni locali non costituitesi in giudizio o che non hanno fornito specifiche memorie sul punto.
La richiesta di risarcimento in esame non può quindi essere accolta con riguardo ad alcuna Amministrazione regionale e locale, non essendo emerso alcun fatto antigiuridico potenzialmente causativo di un danno pur astrattamente risarcibile.
29. A conclusioni diverse si presta l’esame dell’attività delle Amministrazioni centrali della Sanità e dell’Ambiente, che pur in prossimità della scadenza del secondo periodo triennale di deroga e nelle ulteriori more del necessario parere della Commissione europea ai fini di un non certo terzo periodo di deroga (in effetti poi consentito solo in minima parte), non risultano aver adottato iniziative specifiche, adeguate e proporzionate alla diffusione, alla gravità ed all’urgenza del problema, alla stregua di un parametro di buon andamento dell’attività amministrativa ed alla luce delle più recenti acquisizioni scientifiche sui rischi sanitari connessi.
Si tratta, osserva il Collegio, di una valutazione assai ardua, in quanto ben difficilmente riconducibile a parametri giuridici certi ed influenzata da molteplici variabili tecniche e finanziarie, e quindi del tutto inidonea al fine di consentire l’individuazione di una violazione suscettibile di risarcimento del danno nei confronti dei ricorrenti. E’ però possibile, osserva il Collegio, restringere la valutazione temporalmente e settorialmente, al fine di valutare secondo parametri giuridici certi una specifica attività delle Amministrazioni centrali dello Stato che, lamentano i ricorrenti, “per almeno due settimane hanno tenuto i cittadini all’oscuro della decisione comunitaria e dei pericoli legati al consumo delle acque contaminate”, e “solo dopo tre settimane, di fronte alla minaccia dell’apertura di una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia per la mancata comunicazione alla popolazione”, hanno inviato una idonea comunicazione alle Regioni.
Al riguardo, il Collegio ritiene inammissibile ogni coloritura o connotazione volta ad attribuire alle attività amministrative in esame intendimenti in alcun modo accertabili e, comunque, del tutto irrilevanti, e di doversi quindi attenere al più oggettivo esame dello svolgimento dei fatti, secondo la documentazione allegata dalle stese Amministrazioni, a seguito della comunicazione in data 5 novembre 2011 della decisione comunitaria del 28 ottobre sopraindicata:
- in data 24 novembre 2010 (dopo 15 giorni) è stato adottato il decreto del Ministro della Salute d’intesa con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare di recepimento della citata decisione comunitaria;
- in data 30 novembre 2010 (dopo 25 giorni), l’istituto Superiore di Sanità ha formulato indirizzi circa le limitazioni d’uso delle acque in regime di deroga;
- in data 1 dicembre 2010 (il giorno ancora successivo), una nota dell’apposita Commissione istituita presso il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare ha chiesto alle Autorità d’ambito interessate di prevedere misure idonee;
- in data 17 gennaio 2011 (dopo 73 giorni) il predetto decreto è stato pubblicato sulla Gazzetta uficiale della Repubblica italiana ed in tale data è entrato in vigore, secondo le previsioni del suo sesto ed ultimo articolo;
- ne consegue che solo dopo 73 giorni, le due Amministrazioni hanno dato concreta ed imperativa attuazione al disposto della Commissione europea che, in attuazione del principio di prevenzione, espressamente limitava ed in alcuni casi (per i bambini fino a tre anni) vietava del tutto la deroga ai valori massimi di arsenico nell’acqua destinata al consumo umano da tempo disposta dalle Autorità italiane, in quanto potenzialmente cancerogeno, intervenendo solo un mese circa prima del termine assegnato all’Italia dalla medesima Commissione europea per la presentazione della prima relazione periodica sui risultati delle azioni intraprese per il superamento della situazione.
Non sembra pertanto possibile escludere che l’attività svolta dalle competenti Amministrazioni centrali dello Stato italiano nel dare adempimento alla decisione comunitaria in data 28 ottobre 2010 abbia concretato una violazione dei principi di buon andamento e imparzialità, economicità, efficacia, pubblicità e trasparenza, tanto più ineludibili al fine di prevenire rischi sanitari solo ipotetici ma molto gravi in danno di soggetti particolarmente esposti ed indifesi quali i bambini fino a tre anni, configurando in tal modo una condotta illegittima, ascrivibile ad un atteggiamento colposo, in quanto non rispettoso della buona azione amministrativa alla stregua dei criteri di ragionevolezza, proporzionalità ed adeguatezza.
30. Il Collegio deve ora esaminare se dal fatto illecito sopra accertato sia derivato un danno suscettibile di risarcimento, così come sostenuto dai ricorrenti, che ne chiedono il ristoro quantificando l’importo, in misura equitativa, in complessivi 600 Euro per ogni persona fisica ricorrente.
A tale riguardo, deve essere fin da subito escluso il preteso danno, quantificato equitativamente dai ricorrenti in 100 Euro in relazione al consumo medio di acqua potabile di ciascuno di essi, che sarebbe derivato dalla mancata riduzione delle tariffe, vicenda ampiamente esaminata dal Collegio, come più sopra riportato, e del tutto estranea alla fattispecie ora in esame.
Restano quindi da esaminare le ulteriori richieste di risarcimento, quantificate per ciascun ricorrente persona fisica, in via equitativa, in misura pari a 500 Euro, a titolo di danno patrimoniale, per la spesa sostenuta per l’acquisto di bottiglie di acqua minerale, per forniture alternative di acqua potabile e per allestire rimedi di depurazione dell’acqua casalinghi, nonché a titolo di danno biologico per l’evidente aumento del rischio di malattie e di danno morale da timore per la salute propria e dei propri familiari, specie se bambini.
In particolare, a giudizio del Collegio l’allegato danno patrimoniale non risulta suscettibile di ottenere una condanna risarcitoria, in quanto manca ogni principio di prova circa la sua esistenza e quantificazione, in mancanza di ulteriori allegazioni concernenti sia l’acquisto o l’utilizzo di sistemi privati di depurazione, sia l’affermato aumento del consumo di acqua minerale, peraltro già alto nel nostro Paese rispetto alle medie europee, indipendentemente dalla minore qualità del servizio idrico nelle specifiche aree territoriali di origine vulcanica.
Viene, quindi, in rilievo l’ulteriore domanda dei ricorrenti di risarcimento del danno biologico, individuato nella lesione dell’integrità psico-fisica della persona derivante dall’evidente incidenza negativa, per la salute di ciascuno di essi, che avrebbe avuto l’ingestione quotidiana di acqua contaminata dall’arsenico, e direttamente rapportato nella sua eziologia al comportamento dell’Amministrazione, che avrebbe almeno parzialmente e temporaneamente tenuto all’oscuro la popolazione, ed in particolare i ricorrenti, dei rischi connessi all’ingestione di tale sostanza, rinviando inoltre, come sopra indicato, l’adozione delle necessarie misure limitative ed interdittive del consumo di acqua contaminata.
Ad essa si aggiunge la domanda di risarcimento del danno morale, determinato dal giustificato timore dei ricorrenti per la salute propria e dei propri familiari, specie se bambini, e determinante un patema d’animo ampiamente argomentato con perizia tecnica di parte, non escluso ma al contrario amplificato proprio dalle carenze e dai ritardi informativi sopra denunciati, in quanto idonei a confermare un senso di impotenza e frustrazione rispetto alla mancata adozione di misure idonee a far fronte ai rischi sanitari conseguenti all’uso di acque ad alto tenore di arsenico. Al riguardo i ricorrenti, sul tradizionale presupposto secondo cui la sussistenza di un reato costruisce condizione indispensabile per la risarcibilità del danno morale, affermano che la mancata riduzione delle tariffe praticate a fronte di una evidente diminuzione della qualità del servizio erogato, costituirebbe elemento significativo per ravvisare nel caso di specie gli estremi dei reati di appropriazione indebita, abuso d’ufficio e truffa, e pertanto chiedono la trasmissione degli atti di giudizio alle Procure della Repubblica competenti, ma non allegano alcun elemento circa le fattispecie oggettive ed i profili soggettivi che potrebbero condurre a condividere la predetta prospettazione circa la sussistenza di uno o più reati, che alla stregua degli atti di causa deve, pertanto, essere ritenuta del tutto infondata.
31. Conclusivamente, occorre quindi decidere sul richiesto risarcimento, equitativo e forfetario, del danno biologico e morale allegato dalle persone fisiche ricorrenti, anche se il Collegio è ben consapevole della complessità giuridica e delle incertezze giurisprudenziali che tuttora caratterizzano sia la questione del danno non patrimoniale (biologico, morale o esistenziale che sia), derivante dalla lesione del diritto fondamentale alla salute pur in assenza di reato, sia la questione della risarcibilità della lesione del diritto alla salute derivante dalle sempre più frequenti esposizioni a fattori di rischio (tipicamente, le radiazioni ionizzanti, nella fattispecie l’arsenico disciolto nell’acqua fornita dal servizio idrico) che non determinano una immediata e percepibile lesione fisica, ma aumentano significativamente la probabilità di incorrere in gravi problemi sanitari nel corso della vita, imponendo al giudice una rinnovata e più aggiornata valutazione del nesso eziologico fra causa ed effetto, se non si vuole vanificare la tutela giurisdizionale dei diritti inviolabili della persona sanciti dalla nostra Costituzione, dal Trattato europeo, dalla Carta di Nizza e dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo.
A giudizio del Collegio, occorre prendere le mosse dalla piena risarcibilità del danno non patrimoniale derivante dalla lesione del diritto alla salute di cui all’art. 32 della Costituzione o di altri diritti inviolabili sanciti dalla Costituzione, ormai riconosciuta dalla giurisprudenza alla luce di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. (Cassazione, SS.UU. nn. 15022/2005, 23918/2006, 25117/2008; 26972-75/2008, e da ultimo n. 6663/2011).
Il danno non patrimoniale in esame comprende, in particolare, il danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell’integrità psico-fisica della persona, il danno morale come tradizionalmente inteso, cioè quale turbamento dello stato d’animo della vittima, e tutti quei pregiudizi esistenziali diversi ed ulteriori, purché costituenti conseguenza di una lesione di interessi costituzionalmente protetti ovvero di rango costituzionale inerenti alla persona (Tribunale Roma, Sez. XII, 9 marzo 2011, n. 5167) e la sua quantificazione va effettuata in via equitativa (Con. Stato, Sez. V, 28 febbraio 2011 n. 1271).
Secondo la giurisprudenza, il danno non patrimoniale in esame costituisce, quindi, una categoria ampia ed onnicomprensiva di tutti i pregiudizi patiti dalla vittima senza inammissibili duplicazioni risarcitorie (Cons. Stato, Sez. VI, 19 gennaio 2011, n. 365; Cass. Civ. Sez. III, 13 luglio 2011, n. 15373; Cass. Civ. Sez. lav. 18 gennaio 2011, n. 1072; Cass. Civ. Sez. III, 13 luglio 2011, n. 15373; Cass. Civ. Sez. III, 1 dicembre 2010, n. 24401; Cass. Civ. Sez. III, 14 settembre 2010, n.19517; ), e la domanda risarcitoria di parte ricorrente appare conforme a tale impostazione, articolandosi in un’unica voce forfetaria equitativamente fissata in 500 Euro.
Secondo l’opinione tradizionale, inoltre, il danno biologico è suscettibile di accertamento medico-legale indipendentemente dalla sua incidenza patrimoniale, ma deve trovare giustificazione in una prova concreta e puntuale delle lesioni subite e delle loro stabili conseguenze negative (Cass. Civ. Sez. VI 5 maggio 2011 n. 9954; Trib. Bari Sez. I, 24 marzo 2011 n. 558, Con. Stato, Sez. VI, 15 luglio 2010 n. 4553), cosa che in realtà non accade nel ricorso in esame.
La fattispecie in esame riguarda, peraltro, un caso in cui risulta impossibile determinare con certezza l’esistenza o la portata di un rischio a causa della natura insufficiente, non concludente o imprecisa dei risultati degli studi condotti, ma persiste la probabilità di un danno reale per la salute nell’ipotesi in cui il rischio si realizzi, e quindi il principio di precauzione giustifica l’adozione di misure restrittive purché non discriminatorie ed oggettive (Corte di Giustizia CE, Sez. II, 22 dicembre 2010, n. 77).
Pertanto, per non lasciare prive di sanzione e quindi tendenzialmente inefficaci le misure sopraindicate, sembra dover trovare precipua applicazione la giurisprudenza secondo cui la liquidazione del danno alla salute deve essere capace di cogliere nella sua totalità il pregiudizio subito dal soggetto nella sua integrità psico-fisica (Cass. Civ. Sez. III 24 febbraio 2011, n. 4493), tenendo conto anche delle sofferenze morali e future che il destinatario dell’azione lesiva si vedrà costretto a subire ovvero è presumibile che subisca o che possa subire in seguito (Cass. Civ. Sez. III 26 maggio 2011, n. 11609).
32. Tornando alla specifica fattispecie in esame, la domanda di risarcimento equitativo del danno biologico è riferita dai ricorrenti alla continuativa ed inconsapevole ingestione di arsenico mediante l’acqua fornita dal servizio idrico. Secondo la letteratura scientifica richiamata dalla decisione della Commissione europea del 28 ottobre 2010, allegata dai ricorrenti in atti e non contraddetta dalle Amministrazioni resistenti, l’arsenico è uno degli elementi più tossici che esistono al mondo; l’esposizione ad arsenico inorganico in quantità superiori a certe soglie può causare vari effetti sulla salute, ed è suscettibile di intensificare le probabilità di sviluppo di alcune forme tumorali molto gravi alla pelle, al fegato, al polmone ed al sistema linfatico. Un’esposizione molto elevata a questa sostanza può altresì causare sterilità e false gestazioni nelle donne, oltre a disturbi alla pelle, bassa resistenza alle infezioni, disturbi al cuore e danni al cervello ed al DNA.
Secondo la medesima letteratura scientifica, il più vasto studio sinora effettuato sulla pericolosità per la salute umana derivante da un’esposizione prolungata all’arsenico presente nell’acqua potabile, anche in quantità piccolissime, è stato condotto su oltre 11.700 persone in Bangladesh e pubblicato nell’edizione online della rivista scientifica The Lancet, ed ha dimostrato che la presenza di arsenico in elevate concentrazioni nel sangue aumenta in modo significativo il rischio di tumori. Secondo le stime effettuate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, inoltre, in Bangladesh a partire dagli anni ’70 almeno 35 milioni di persone hanno bevuto acqua contaminata con piccolissime quantità di arsenico, e secondo lo studio Heals (Health Effects of Arsenic Longitudinal Study) coordinato da Habibul Ahsan dell’Università di Chicago, ciò è stato sufficiente a provocare il 21%) delle morti per tutte le cause e il 24% di quelle attribuite a malattie croniche (in prevalenza, tumori al fegato, cistifellea e pelle e malattie cardiovascolari).
Il Collegio osserva tuttavia che il danno biologico in esame viene solo stimato da parte ricorrente alla luce delle predette acquisizioni scientifiche, ma non viene comprovato dai singoli ricorrenti, né potrebbe esserlo se non su basi epidemiologiche e statistiche estranee alla loro concreta disponibilità, ovvero su basi probabilistiche delle future aspettative di vita, meramente presuntive e comportanti, ai fini del loro accoglimento, una sostanziale evoluzione della tradizionale giurisprudenza in materia di prova del danno probabilistico nel senso sopra indicato.
33. Il Collegio ritiene non necessario indugiare ulteriormente sul predetto punto, ai fini della decisione del ricorso a quo, in quanto all’esaminata domanda di risarcimento del danno biologico risulta abbinata una contestuale e sovrapposta domanda di risarcimento del danno morale, individuato nella sofferenza psico-fisica determinata dalla necessaria alterazione delle abitudini di vita e dal senso di impotenza e frustrazione per i descritti e ormai noti rischi sanitari per la propria famiglia, che nella fattispecie in esame vengono adeguatamente documentati dalla perizia medico-legale sopra esaminata, e che assumono rilievo giuridico, ai fini del richiesto risarcimento, in relazione alla descritta attività dell’Amministrazione “non jure” e “contra ius”, per la parte in cui che ha indebitamente ritardato l’adozione delle necessarie misure conoscitive, limitative ed interdittive chieste dalla Commissione europea con decisione del 28 ottobre 2010.
34. Secondo il Collegio, in sintesi, il fatto illecito costituito dall’esposizione degli utenti del servizio idrico ricorrenti ad un fattore di rischio (l’amianto disciolto in acqua oltre i limiti consentiti in deroga dall’Unione Europea), almeno in parte riconducibile, per entità e tempi di esposizione, alla violazione delle regole di buona amministrazione, determina un danno non patrimoniale complessivamente risarcibile, a titolo di danno biologico, morale ed esistenziale, per l’aumento di probabilità di contrarre gravi infermità in futuro e per lo stress psico-fisico e l’alterazione delle abitudini di vita personali e familiari conseguenti alla ritardata ed incompleta informazione del rischio sanitario; in mancanza di parametri diversi, non appare altresì illogico rapportare in via equitativa lo stesso danno agli importi tariffari indebitamente corrisposti per usufruire di un servizio privo dei necessari presupposti di legge, stimati da parte ricorrente in una media di complessivi 100 Euro per ciascun ricorrente.
Il Tribunale deve quindi accogliere, nel senso indicato al precedente punto, la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale avanzata dalle singole persone fisiche ricorrenti, nella loro qualità di utenti del servizio idrico, alla data del 28 ottobre 2010, in aree territoriali caratterizzate, alla medesima data, dalla presenza di arsenico in percentuali superiori a quelle massime (20 ug/l) consentite in deroga dalla Commissione europea con la decisione adottata in tale data. Il Tribunale deve procedere di conseguenza alla richiesta quantificazione equitativa del danno risarcibile, che, alla stregua della relazione tecnica di parte allegata e della circostanza che è stato escluso il risarcimento per il danno materiale, e notevolmente limitato il periodo giuridicamente rilevante, ritiene equo ridurre rispetto alla richiesta di 500 Euro formulata da parte ricorrente, e che ritiene congruo liquidare in Euro 100 per ciascuno, secondo un importo che risulta parametrato anche alla richiesta, non accolta, di risarcimento per la tariffa che i ricorrenti ritengono di aver indebitamente corrisposto nel tempo.
35. Alla stregua delle pregresse considerazioni, il Collegio deve accogliere in parte il ricorso, condannando le Amministrazioni centrali dello Stato intimate, in solido, al risarcimento del danno non patrimoniale causato ai singoli utenti ricorrenti, come sopra individuato e quantificato.
La grande complessità e la novità delle questioni dedotte giustificano, infine, la compensazione delle spese di giudizio fra le parti.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Bis) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie in parte e, per l’effetto condanna il Ministero della salute ed il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, in solido fra loro, al risarcimento di Euro 100 (cento), in favore di ciascun ricorrente persona fisica quale utente, alla data del 28 ottobre 2010, del servizio idrico in area territoriale caratterizzata, alla medesima data, dalla presenza di arsenico nell’acqua erogata in percentuali superiori a 20 ug/l.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nelle camere di consiglio dei giorni 10 ottobre e 14 dicembre 2011, con l’intervento dei magistrati:
Eduardo Pugliese, Presidente
Antonio Vinciguerra, Consigliere
Raffaello Sestini, Consigliere, Estensore
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 20/01/2012
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

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