lunedì 28 gennaio 2013

Anche l’Italia in Mali, per difendere... gli affari

Significativa – anche se circoscritta – “escalation” delle opzioni d’intervento italiano in Mali: la ventilata previsione iniziale di un supporto logistico basato unicamente sulla fornitura di istruttori militari, si è allargata a «un contributo di vettori aerei per il supporto logistico al trasporto di personale e mezzi in Mali e per il rifornimento in volo sul Mediterraneo, nonché eventualmente tra il Mali e altri Stati della Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale prevedendo, in quest’ultimo caso, le necessarie attività di supporto alle attività di volo».

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maliaffarital Questo l’impegno richiesto da un ordine del giorno “bipartisan”, a firma di Frattini (PDL), Tempestini (PD) e Adornato (UDC) (eh già! quando sono in ballo gli interessi nazionali anche i “nemici” più irriducibili si ricompattano in un fronte ben coeso), che ha segnato l’appoggio parlamentare all’iniziativa del Governo per sostenere l’intervento francese in Mali. In concreto, l’apporto italiano consisterà nel mettere a disposizione 24 addestratori (su 450 annunciati dall’Ue), due aerei C-130 per il trasporto di truppe e attrezzature e un’aerocisterna KC-767 per i rifornimenti in volo.

Le motivazioni “ufficiali” sulla necessità della partecipazione alla missione di guerra le hanno fornite a due voci il ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola: «C’è una situazione di emergenza che va affrontata oggi. È necessario un ampio concorso alle operazioni militari per fermare l’avanzata jihadista nel Paese» e degli Esteri, Giulio Terzi: «Il Mali sta attraversando una crisi di grandi proporzioni che richiede un deciso sostegno dalla comunità internazionale affinché il Paese non affondi. E poi i Paesi che circondano il Mali possono essere trascinati in un baratro a causa della porosità dei confini».

Sembrerebbe la riproposizione monotona dei due leitmotiv che hanno tenuto campo con perseverante costanza perlomeno dai tempi della guerra in Afghanistan e in Jugoslavia: “lotta al terrorismo” e “intervento umanitario” (il secondo un po’ più sfumato anche se si comincia qua e là a “costruire” qualche episodio di “efferata violenza” da parte dei ribelli sulla popolazione civile, dimenticando, guarda caso, le vittime civili dei bombardamenti francesi). Ma, a ben guardare, c’è qualcosa di più complesso e ben più importante: l’ammissione che quello del Mali è un focolaio pericoloso, che rischia di propagare l’incendio ai paesi circostanti, cioè ad un’area economicamente strategica per l’accaparramento di materie prime a basso costo da parte dei paesi occidentali.

E questi non possono correre il rischio di una “destabilizzazione”, che risulterebbe altamente sfavorevole, se non letale, per lo svolgimento dei propri traffici commerciali. Lo sa bene anche l’Italia, costretta dall’esperienza libica a registrare un sensibile calo commerciale in quell’area: «La crescita delle esportazioni è stata segnata fortemente dai cambiamenti dello scenario internazionale. Gli aumenti più consistenti sono stati conseguiti nelle aree più dinamiche, [...] mentre le esportazioni verso l’Africa settentrionale sono state penalizzate dalla crisi libica e dall’instabilità della regione (Ministero dello Sviluppo Economico, “Sintesi Rapporto 2011-2012. L’Italia nell’economia internazionale”, p.18)».

Instabilità che ora si ripropone su tutta la sponda Sud del Mediterraneo – dove «abbiamo un interscambio di 57 miliardi di euro l’anno e siamo sempre tra i primi tre partner economici di tutti i Paesi affacciati sul Maghreb», come sottolinea Alberto Negri nell’articolo “La guerra in Mali riguarda anche l’Italia (e i rapporti di Roma con la Libia e con l’Algeria)” pubblicato il 16.1.2013 su “Il Sole 24 ore” online – alimentata direttamente dagli eventi maliani, come in Algeria, o ulteriormente accentuata dall’effetto volano prodotto dalla rivolta tuareg su pre-esistenti micro interessi locali: «Il Sud della Libia, il Fezzan, è fuori dal controllo delle labili autorità libiche, a Est la Cirenaica, dove c’è l’80% delle riserve petrolifere, invia segnali di costante disgregazione.» A ricordarcelo è sempre il giornalista de “Il Sole 24 ore”, a commento di una esplicita dichiarazione del leader libico Magarief, che ci insegna, senza mezzi termini, come l’Italia abbia «un interesse diretto all’intervento francese perché l’instabilità dell’interno del Maghreb rappresenta per la Libia una grossa falla che Tripoli da sola non è in grado di arginare». Detto en passant, anche il PD, schierato decisamente a favore della «guerra giusta di Hollande», si muove su questa stessa lunghezza d’onda, quando sostiene, per bocca del suo coordinatore per l’area Africa-Medio Oriente del Dipartimento esteri, Giacomo Filibeck, l’opportunità di un’azione militare «anche per creare un corridoio che argini quel crocevia criminoso che rischia di destabilizzare l’intera regione, impattando la Libia in prima battuta ma anche i Paesi attraversati dalle primavere arabe, e causando tensioni difficili da gestire che inevitabilmente si riversano nel Mediterraneo attraverso i flussi migratori (intervista a “il manifesto”, 17.1.2013)».

In questo quadro dalle potenzialità dirompenti «l’Italia non può non partecipare all’operazione in Mali» per assicurare la stabilità e lo sviluppo del Sahel – come dice il ministro Terzi – e quindi, aggiungiamo noi, per mantenere la tutela dei propri interessi nell’intera area, anche perché l’ormai lunga esperienza nel corso dei numerosi “interventi umanitari” ha insegnato che, quando sarà il momento della spartizione degli utili (vale a dire l’affidamento degli appalti per le opere di ricostruzione e per le nuove infrastrutture e, soprattutto, la concessione di contratti per lo sfruttamento speculativo delle numerose materie prime del sottosuolo maliano), vi potrà partecipare soltanto chi ha le carte da protagonista in regola.

Secondo l’unanime parere degli “esperti”, lo scioglimento della crisi richiederà tempi lunghi ed è incombente il rischio di un Sahelistan, ossia di uno stallo delle operazioni nel Sahel analogo a quello dell’Afghanistan. La prospettiva sembra disorientare il Governo italiano, che da una parte sostiene, per il supporto italiano, la possibilità di «una durata limitata, di circa 2 o 3 mesi» e dall’altra afferma che «la crisi in Mali è di grandi proporzioni e ha tempi lunghi»”. Cosa significa? Che dopo tre mesi l’Italia potrebbe “ritirarsi”, rinunciando ai propri interessi non solo nel Mali ma, a quel punto, in tutta l’area? Nel frattempo, ha assicurato il ministro Terzi, l’Italia continuerà «ad operare sul piano diplomatico affinché l’operazione militare in Mali non pregiudichi il dialogo politico», necessario con i nomadi Tuareg per«consentire una loro collocazione diversa nella società maliana perché ignorare questo problema è stata una causa del precipitare della situazione». A parte la logica stringente che da una colpevole sottovalutazione del problema dei Tuareg fa discendere la necessità di intervenire militarmente nei loro confronti, è per noi un vero enigma capire che cosa diavolo significhi questa “collocazione diversa”. Ci sorge il malevolo dubbio che si tratti dell’inespresso desiderio di mantenere il piede in due staffe e del tentativo di intrattenere buoni rapporti sia con gli alleati che con i loro nemici, per garantirsi al meglio l’opportunità di combinare lucrosi affari con entrambi i contendenti, nel caso di una situazione di impasse, in quello di una “riappacificazione” finale, o in quella della vittoria finale della coalizione.


Nucleo Comunista Internazionalista

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