giovedì 24 gennaio 2013

Declini paralleli. Perché ci vuole “più sinistra” per uscire dalla crisi

Il declino economico dell'Italia è cominciato ben prima di questa crisi. E affonda le sue radici in un modello di sviluppo perdente, fatto di precarietà e svalutazione del lavoro. Ecco perché c'è bisogno di più sinistra non solo per difendere i diritti, ma anche per far ripartire l'economia.

micromega
di Emilio Carnevali

Nel 1870 la Gran Bretagna deteneva una quota pari al 31,8% della produzione manifatturiera mondiale. Nello stesso periodo le sue navi costituivano più della metà dell'intera flotta europea e solcavano i mari portando le merci inglesi in ogni più remoto angolo del pianeta. Dalle sue miniere si estraevano ogni anno 112.203 mila tonnellate di carbone, contro le 34.003 mila tonnellate estratte in Germania e le 36.667 mila negli Stati Uniti. Dagli altoforni delle città industriali del Galles e della Scozia uscivano ogni anno 897 mila tonnellate di acciaio, più del doppio di quelle prodotte in Germania, 300 mila in più che negli Stati Uniti.
Il primato industriale, economico e finanziario della Gran Bretagna sembrava regnare incontrastato dal tempo in cui le prime macchina per la filatura del cotone erano state installate nelle fabbriche di Leeds, l'illuminazione a gas aveva rischiarato le notti nelle strade del centro di Londra e le prime locomotive a vapore cominciavano a viaggiare – a velocità mai viste prime – fra Liverpool e Manchester.

Pochi decenni dopo, alla vigilia della Prima guerra mondiale, quel primato era già un ricordo. La Germania, e sopratutto gli Stati Uniti, avevano già compiuto il sorpasso nei confronti dei sudditi di sua maestà. La leadership economica del mondo – e successivamente anche quella politica – si apprestava a trasferirsi al di là dell'Atlantico. Cosa era mai potuto succedere in un così ristretto arco di tempo?

Il quesito ha fatto riempire agli storici le pagine dei volumi di intere biblioteche. Moltissime sono le teorie formulate, diverse le spiegazioni che colgono almeno in parte i molteplici aspetti di un fenomeno indubbiamente complesso.

Certamente ebbe un ruolo quello che oggi chiameremmo il “modello di sviluppo” adottato dai rispettivi paesi. Negli Stati Uniti la carenza relativa di manodopera comportava un più alto costo del lavoro che spingeva gli industriali americani a investire molto di più in macchinari ed innovativi dispositivi di produzione. L'Inghilterra, per altro, poteva contare su un vastissimo impero coloniale dove riversare i suoi manufatti. Questo la spinse ad attardarsi per molto tempo su produzioni tipiche della prima rivoluzione industriale, senza sentire la necessità di penetrare mercati più sofisticati. In altre parole, non fu “costretta” a tenere il contatto con la frontiera delle tecnologie più avanzate.

Anche il sistema educativo inglese era carente rispetto a quello dei suoi competitori. L'insegnamento di base divenne gratuito solo nel 1891 e un certo “culto dell'esperienza pratica” contribuì a non far tenere in dovuto conto l'importanza della formazione tecnico-scientifica. Con le sue Realschulen e le sue Technische Hochschulen la Germania preparava manovalanza specializzata e quadri tecnici in grande quantità. Fu così che in breve tempo guadagnò la leadership nei settori più all'avanguardia. Multinazionali della chimica come la Bayer, dell'elettromeccanica come la Siemens, della metallurgia come gli imperi dei Krupp e dei Thyssen, tutti marchi ben conosciuti anche oggi, nacquero proprio nella seconda metà dell'Ottocento sotto la spinta di quella poderosa accelerazione industriale.

Già nel 1913 la quota dei manufatti inglesi sulla produzione globale era scesa al 14%, contro il 35% degli Stati Uniti e il 15,7% della Germania. Iniziava il lungo secolo dell'egemonia “a stelle e strisce” (inframezzato dalla tragedia, e dal successivo riscatto, di cui fu protagonista la potenza tedesca).

Quale lezione è possibile trarre dalla storia del “declino economico inglese”? Indubbiamente ci confrontiamo con una distanza temporale considerevole, con condizioni di contesto diversissime. Eppure anche l'Italia negli ultimi anni è andata incontro ad un declino economico cominciato ben prima di questa crisi. Anch'esso ha origine dalla scelta di un modello di sviluppo perdente.

Tra il 2000 e il 2011 – proprio gli anni per i quali Silvio Berlusconi, alla vigila della sua seconda esperienza di governo, prometteva l'avvento di un “nuovo miracolo economico” – il Pil del nostro Paese ha fatto registrare un tasso di crescita medio di appena lo 0,3%, contro l'1,1% di Germania e Francia. E negli anni precedenti la media della nostra crescita era stata dell'1,6% inferiore a quella europea.
Sempre nell'arco temporale 2000-2009 (il cosiddetto “decennio perduto”) la produttività in Italia è diminuita in media dello 0.5% l'anno, un dato che non ha eguali né nella nostra storia né in quella degli altri paesi europei.

Dunque, non solo abbiamo reagito peggio degli altri paesi europei al Grande Crack sistemico sprigionatosi con la crisi dei mutui subprime partita dagli Usa (-5,5% di flessione del Pil nel 2009 a fronte di una media nell'area euro del -4,3%). Ma già venivamo da una fase di grande difficoltà. Già avevamo accumulato un considerevole ritardo.

Quel che è peggio, tanto per indulgere ancora un po' nel pessimismo, è che le prospettive per il futuro sono parimenti fosche. Secondo le previsioni del Fondo Monetario Internazionale relative ai famigerati Piigs, l'Italia è il paese che – esclusa la Grecia – recupererà con maggiore lentezza i livelli di produzione precedenti alla crisi: solo dopo il 2018 il nostro Paese dovrebbe raggiungere lo stesso livello del Pil che aveva nel 2007.

Quali sono le ragioni di tutto ciò? Ci sono moltissimi fattori alla base del declino italiano (li affronta nel dettaglio l'economista Mario Pianta nel suo ultimo libro “Nove su dieci. Perché stiamo (quasi) tutti peggio di dici anni fa”, Laterza). Eccone alcuni: una struttura produttiva debole, posizionata su settori tradizionali e poco innovativi come l'alimentare, il tessile, le calzature, il legno, i prodotti in metallo; il nanismo delle imprese (l'84% delle 510 imprese italiane ha meno di 9 addetti e un altro 15% ne ha tra i 10 e i 49); gli scarsi investimenti in ricerca e sviluppo sia da parte dei privati che da parte delle autorità pubbliche (nel 2009 il nostro Paese ha dedicato a questa voce di spesa l'1,26% del Pil, contro la media dell'Europa a 27 dell'1,9%, per non parlare delle irraggiungibili Germania, 2,8%, e Finlandia 3,9%).

Si tratta naturalmente di limiti e difetti che ci portiamo dietro non da ieri. Una volta, però, avevamo anche altre armi per poter far fronte a queste difficoltà, come ad esempio la svalutazione della moneta nazionale. Con l'avvento dell'euro non abbiamo più potuto svalutare, e pertanto è venuto a mancare uno strumento fondamentale che permetteva di riequilibrare i conti con l'estero. Gli aggiustamenti sono stati interamente affidati alla flessibilità di prezzi e salari (o alle variazioni della produttività).

E allora ci siamo inventati una “bella” scorciatoia: quella di scaricare tutto l'onere della nostra competitività sul lavoro. Ecco, in ultima analisi, qual'era il disegno strategico dietro a una serie di controriforme del mercato del lavoro che hanno fatto dilagare la precarietà ben oltre i livelli richiesti dalle necessità organizzative delle nostre aziende. Ed ecco spiegata la singolare “pigrizia” dei nostri imprenditori: con la scelta di questo modello si è persa l'occasione di “costringerli” a raccogliere la sfida della qualità e dell'innovazione, a investire nelle proprie aziende, in quel capitale umano che è l'unico vero volano di sviluppo nelle moderne economie della conoscenza. Si aggiunga che per quanto peggioreranno le nostre condizioni di lavoro, mai potranno competere in termini di costi con quelle vigenti nelle fabbriche del Vietnam o nei capannoni della Romania.

Fossimo l'impero inglese di fine Ottocento, almeno avremmo i domini coloniali dove riversare le nostre merci facendo valere il primato della nostra flotta. Invece siamo l'Italia del terzo millennio, la cui flotta sembra riuscire ad attrarre le attenzioni del mondo solo in occasione di improvvidi “inchini” sulla costa di qualche isola turistica...

Ecco perché è innanzitutto il lavoro, il lavoro e l'economia reale, che dovranno essere messi al centro dell'iniziativa del prossimo governo. E ciò significa difesa dei diritti, ma anche capacità di visione sul lungo periodo. Più prosaicamente: moderne relazioni sindacali (non ottocentesche, come le vorrebbe qualcuno), efficaci politiche industriali, massicci investimenti nella scuola e nell'università, servizi pubblici e infrastrutture adeguati.

Ha ragione il ministro della coesione territoriale Fabrizio Barca quando dice che il problema della crescita e dello sviluppo è in qualche modo, per sua natura, estraneo ad un esecutivo tecnico come quello guidato da Mario Monti. E non solo a causa delle politiche di austerity imposte dall'Europa e di cui lo stesso Monti si è fatto garante. Ovviamente è necessario che queste politiche cambino, che si riavvii un motore della domanda interna europea in grado di rompere la spirale infernale fra recessione, peggioramento del debito e politiche restrittive che aggravano ancor di più la recessione.

Ma lo sviluppo presuppone un idea di destino comune, implica una capacità di immaginazione delle traiettorie che dovrà seguire il Paese per i prossimi 10/15 anni (non per i prossimi 2 o 3 mesi). E questa è materia propria dell'arte della politica. Di una politica forte fatta da soggetti forti. Non da “dilettanti allo sbaraglio” che fanno a gara a chi urla di più per lucrare sulla disperazione sociale di un paese in ginocchio.

(22 gennaio 2013)

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