sabato 21 luglio 2018

Integrarsi in Italia. Dalla morte nel Mediterraneo all’iper-sfruttamento nelle città



 

dinamopress  di Antonio Sanguineti
Il confine e la morte, o meglio, morire tentando di attraversare i confini. Questa è la cifra del nostro tempo: dal piccolo Aylan fino all’orrore impresso negli occhi di Josephine. Gli anni della barbarie avranno il loro simbolo in quello sguardo allucinato e sconvolto di una vita salvata. Non è facile mantenere la lucidità quando nella vita quotidiana irrompe il male, nell’animo si mescolano rabbia, frustrazione e la consapevolezza che ci vorranno anni per sconfiggere il nuovo senso comune.
Eppure bisogna fare uno sforzo per non farsi trascinare completamente dall’attualità, occorre dotarsi di strumenti analitici sempre più affilati per comprendere le tecniche del nuovo governo razzista. Può essere di aiuto il libro di recente pubblicazione I confini dell’inclusione. La civic integration tra selezione dei corpi e disciplinamento dei corpi migranti (DeriveApprodi, pp. 204), una raccolta di saggi curata da Vincenzo Carbone, Enrico Gargiulo e Maurizia Russo Spena. Il loro punto di vista è estremamente prezioso perché riesce a coniugare un accurato approfondimento teorico con un approccio di parte, liberato dalla neutralità di cui spesso si traveste l’accademia pavida. Il filo conduttore di tutti i saggi è il disvelamento delle tecniche di governo legate al confine, che viene letto non nella sua dimensione materiale di ostacolo più o meno insormontabile nel passaggio tra uno stato e l’altro ma negli effetti di «inferiorizzazione» e di «gerarchizzazione» della popolazione migrante nel paese di destinazione. La loro tesi di fondo è che la funzione principale del confine non è di impedire il transito ma di selezionare e disciplinare i migranti: i regimi di controllo delle frontiere possono essere più o meno restrittivi (ed efferati) e imporre un certo grado di riduzione delle migrazioni ma di certo non riescono ad azzerare i movimenti. Basti osservare quello che sta succedendo in questi giorni: nonostante la propaganda omicida di Salvini gli arrivi non si fermano. Dunque la durezza delle politiche di confine può essere interpretata come una spia, un avvertimento superficiale, di ciò che sta avvenendo più in profondità nelle nostre città e nei quartieri. Più strette (e sanguinose) sono le maglie del filtro del confine più intense sono le tecniche retoriche e simboliche di creazione di soggetti riprovevoli, discorsi necessari al fine di creare una legittimità nell’isolamento delle popolazioni migranti. L’esibizione della morte rientra in questo complesso di governo che riprendendo gli studi di Mbemba sulle società coloniali, viene definito «necropolitica», ossia un sistema fondato sulla produzione di morte, sia fisica che sociale, come condizione per la sottomissione di soggettività e intere culture.

La civic integration: ossia come meritarsi i diritti

La civic integration è un modello di inclusione dei migranti che si è affermato negli anni ’90 e si fonda sulla necessità di conoscenza dei valori e delle regole vigenti nella società di arrivo da parte dei cittadini di origine straniera. Alla base di questo modello vi è un principio di matrice culturalista, secondo cui le differenze identitarie tra i nuovi arrivati e le popolazioni autoctone sono irriducibili, per cui è necessario adeguarsi ai valori dominanti nella società di arrivo.
Gli autori analizzano la produzione legislativa degli ultimi 15 anni adottando un approccio di tipo sociologico, guardando agli effetti più di carattere sociale e governamentale che di stampo prettamente giuridico. La loro riflessione è particolarmente significativa perché non si limita semplicemente a studiare la civic integration ma la interpretano come un «margine sistemico», ossia un elemento dal quale si può comprendere nel profondo le trasformazioni contemporanee di diversi sistemi: il mercato del lavoro, le città, la lingua, le identità. Il punto che mi sembra di estremo rilievo è quello relativo alla meritevolezza, i diritti per i cittadini di origine straniera non sono più connessi alla persona ma sono un qualcosa che si può ottenere seguendo un comportamento esemplare: lavorare, imparare la lingua, non infrangere la legge, adeguarsi ai valori della maggioranza. Un paradigma, per certi versi molto simile a quanto è stato introdotto in molti paesi dell’Unione Europea nei sistemi sociali con le riforme di stampo workfaristico, che rispolverano gli antichi principi delle Poor Law secondo cui le prestazioni sociali servono non a soddisfare dei bisogni ma a controllare e punire i poveri. Così anche i migranti vengono puniti e controllati dalle misure che al contrario avrebbero dovuto favorire la loro inclusione, come si fa notare, l’obiettivo implicito della legislazione sull’integrazione è creare dei corpi docili su cui poter esercitare il maggior grado di sfruttamento.

La genesi del razzismo, dalle riforme ordoliberali a Salvini

Il razzismo istituzionale ormai è l’elemento che accomuna gran parte dei governi occidentali, sia quando si presenta chiaramente tramite l’azione di partiti dell’estrema destra come in Italia e in Ungheria, sia quando a portarla avanti sono formazioni di matrice neoliberale come Macron in Francia (e anche il Pd nella scorsa legislatura). Come siamo arrivati a questo punto? Di certo non per caso, il punto di svolta per gli autori è il consolidamento dell’Europa ordoliberale a seguito degli accordi di Maastricht dei primi anni ’90. La marea nera non è la sorpresa nata improvvisamente dalla crisi economica, sebbene nella recessione e nei processi di impoverimento radicali successivi al 2008 si possono intravedere degli elementi di accelerazione di un processo già in corso. Le radici, infatti, sono molto più profonde e affondano nelle politiche dei decenni scorsi: quando i governi hanno iniziato ad applicare i metodi di gestione della popolazione tipici dei paesi coloniali separando la popolazione in base all’origine nazionale, alla razza e al genere.
Una continuità che si ritrova anche nella produzione legislativa. Vi è un filo conduttore che collega l’operato dei ministri dell’interno italiani da Amato a Maroni fino a Minniti e che si caratterizza per un approccio: selettivo; securitario; retorico; informale. Il razzismo istituzionale che trasuda da questi provvedimenti ha alimentato la razzializzazione della società attraverso una gerarchia della cittadinanza e degli status giuridici. Il mercato del lavoro da questo punto di vista è un esempio lampante: negli ultimi decenni il connubio tra precarizzazione e segmentazione ha comportato per i migranti una separazione di stampo etnico, per cui si formano delle nicchie occupazionali in base alla provenienza e al colore della pelle e al genere sessuale.



Quale futuro per l’antirazzismo?

Spesso gli autori utilizzano l’«inclusione differenziale» per descrivere il processo di collocamento dei migranti in una posizione gerarchica inferiore, questo concetto è stato decisivo nel dibattito sociologico per descrivere le migrazioni verso l’Europa e contrastare chi parlava dei migranti solo in termini di esclusione e allo stesso tempo chi limitava l’immagine dell’Europa alla sola «fortezza» impenetrabile. Nel disfacimento agito dall’economia neoliberale, però, sembra che il terreno, sociale ed economico, in cui includere i migranti in posizione subordinata stia progressivamente scomparendo. Alcuni fenomeni che prima riguardavano nello specifico solo i migranti sembra stiano travolgendo, seppure in maniera non lineare, ambiti sempre più ampi della società. Per esempio il workfare ha generalizzato il principio del “meritarsi” il sostegno sociale, e ancora il governo tramite tecniche di «necropolitica» non può essere limitato ai soli stranieri e infine le migrazioni interne all’Unione Europea mostrano come anche gli stessi cittadini italiani subiscono forme di subordinazione su base nazionale. Del resto, come viene fatto notare in alcuni passaggi del libro, il razzismo non è più un fatto residuale, elemento di sfogo dei partiti neofascisti, ma sta diventando l’architrave dell’attuale società neoliberale.
Per concludere sulle lotte antirazziste, finora l’opposizione sociale ha fatto leva soprattutto sulla denuncia morale. Nel dibattito pubblico questo tipo di proteste ha avuto un grande clamore e un ottimo riscontro mediatico, eppure per fermare questo governo serve un salto di qualità. È necessario allargare il più possibile il fronte: ciò significa da una parte liberarlo dalla competenza specifica di un pugno di esperti; dall’altra comprendere che il razzismo è parte di un meccanismo generale di governo che riguarda ampie fasce della popolazione oltre gli stessi migranti. Per chi ha la pretesa di rilanciare il movimento antirazzista, ma anche semplicemente di capire cos’è razzismo oggi, il libro curato da Carbone, Gargiulo e Russo Spena è un ottimo punto di riferimento.

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