Claudio Locatelli,
trenta anni, originario di Curno in provincia di Bergamo, è uno dei
combattenti internazionali arruolatisi tra le fila curde dello Ypg per
lottare contro l’Isis. E’ stato tra i liberatori di Raqqa in Siria: armi
in pugno ha affrontato i miliziani del Califfato e quando ha potuto ha
filmato scene di combattimento, fornendo così anche una preziosa
testimonianza giornalistica diretta sul campo. E’ stato a Tabqa che lo
hanno chiamato il “giornalista – combattente”.
E’ anche autore del libro
“Nessuna resa”, scritto in collaborazione con Alberto Marzocchi e
continua a divulgare e a sensibilizzare la causa contro la mentalità del
terrore, la resistenza curda e la rivoluzione in Rojava alla pagina:
https://www.facebook.com/Claudio-Locatelli-Il-giornalista-combattente-1918536748367010/Locatelli, da cosa è nata questa drastica scelta di arruolarsi con i curdi per combattere i jihadisti in Medioriente?
In
primo luogo per un discorso di coerenza: non possiamo sempre affermare
di essere contro i mali del mondo e poi non fare niente a riguardo.
Bisogna in primo luogo mettere le mani nel fango, calarsi in prima
linea. Per cambiare le cose bisogna adoperarsi in prima persona,
affrontare i problemi: considera che sono già stato ad esempio sul
fronte del terremoto ad Amatrice, prima ancora in Emilia e in Abruzzo e
in Veneto a seguito dell’alluvione. La seconda motivazione è di ordine
più emozionale: nel 2014 c’è stato quella grossa ondata di violenze che
poi si è trasformata in un genocidio a danno delle donne yazide. Mi
hanno molto colpito le immagini trasmesse dai tg dove stava un intero
popolo a Shengal, città incastonata nell’omonima regione montuosa
nell’Iraq, attaccata dall’ Isis. Dopodiché nel 2015 sono andato come
osservatore internazionale, durante il newroz, festività curda, a
Diyarbakir la capitale curda della Turchia e li ho incontrato nei campi
yazidi intere famiglie di profughi, a cui però mancavano le figlie.
Queste erano state rapite e costrette a diventare le famose schiave del
sesso degli uomini del Califfato, adatte solo al piacere di quelle
bestie: per me tutto questo era intollerabile. Quel modo di pensare,
l’idea che esistessero ancora realtà organizzate che vedessero le donne
come oggetti, come realtà secondarie per me non era più accettabile.
Tali motivazioni mi hanno spinto a rischiare la vita in prima persona.
Però ci tengo a precisare che l’ Isis non è solo un gruppo terroristico.
Isis è fascismo, è sessismo, è radicalismo religioso, è l’idea che si
possa utilizzare la violenza in politica, insomma tutte cose quelle
contro cui ho sempre combattuto in vita mia, chiaramente non col
kalashnikov in mano, mentre in Siria era un dovere farlo anche in quel
modo.
Perché è stato così affascinato dalla causa curda e in particolare dallo Ypg?
Oltre
a combattere contro qualcosa bisogna sempre combattere per qualcosa:
diciamoci la verità, io non sarei sceso a rischiare la mia vita solo per
combattere l’Isis, l’ho fatto anche per portare qualcosa di meglio. Le
Ypg ,le Ypj, le unità femminili e le unità maschili della prima
resistenza di Kobane nel 2015, sono forse il motivo principale per cui
ho deciso di combattere. Sono state e sono tuttora una speranza per
tutto il mondo. Quando il 17 ottobre 2017 Raqqa è caduta, non c’è una
persona al mondo che non abbia gioito, che non fosse stata orgogliosa
per il sangue delle mie compagne e dei miei compagni caduti per
liberarla e per liberare dunque il mondo intero. La causa curda si
innesta in questo: i curdi sono il primo popolo oppresso, senza
territorialità, hanno dato tutto per noi. Ricordo che la loro battaglia
contro l’Isis è una battaglia per tutto il mondo. In più c’è la
rivoluzione per le donne, una rivoluzione che il popolo curdo in Rojava
sta portando avanti con determinazione e forza.
Attualmente
i riflettori dei media sugli accadimenti siriani sembrano essersi
oscurati come se l’Isis fosse stato definitivamente sconfitto, eppure ci
sono ancora combattimenti in corso, giusto?
Esatto,
assolutamente! Prima di tutto vorrei ricordare che l’Isis non è
sconfitto come mentalità, infatti in primo luogo è un modo di pensare.
Un modo oltranzista che vorrebbe la donna solo ai fornelli, un
atteggiamento, una visione delle cose che chiunque anche tra noi può
assumere. Ricordo che i terroristi europei che si sono uniti all’Isis,
spesso persone disadattate, erano soggetti con quella mentalità. Per cui
quella fase lì esiste ancora. Militarmente invece resiste in
Afghanistan e in Libia, esistono delle cellule in Bosnia e Albania e
minori in Italia, in Belgio, Francia e Libano. Ricordo che solo due mesi
fa l’intelligenza italiana ha condotto 14 arresti tra le reti
jihadiste. Ad Udine un ragazzino si stava facendo saltare in area in una
scuola superiore. L’Isis esiste ancora, ma in maniera diversa. Noi
abbiamo annichilito il loro centro militare principale, però bisogna
ancora combattere ad alti livelli. In Siria, nella zona dell’Eufrate ,
al confine con l’Iraq ci aspettiamo di catturare nei prossimi mesi Abū
Bakr al-Baghdādī ovvero il fondatore dell’Isis. Già il mese scorso
abbiamo catturato il loro portavoce e prima ancora uno degli artefici
dell’attentato dell’ 11 settembre, che era finito nelle carceri di Assad
e successivamente si era arruolato con il Califfato. Noi continuiamo a
combattere, nonostante il mondo si volti dall’altro lato. L’altra zona
di lotta attuale in Siria è la zona desertica, dove si trovano dei
piccoli villaggi. Attualmente li stanno Botan, un ragazzo di Varese con
cui ho combattuto a Raqqa, Paolo “Azadi” e molti altri miei compagni
combattenti.
Dalle notizie trapelate, pare che i miliziani del Califfato disponessero di armi sofisticate, moderne, chi li riforniva?
Isis,
o Daesh, è stato supportato da fondi sauditi e dal Quatar; ricordo poi
che inizialmente gli Usa e l’Europa hanno anche finanziato gruppi
jihadisti in funzione anti Assad. Parte dei soldi derivanti dalle nostre
tasse e da quelle degli altri contribuenti europei, sono finiti anche
in mano a questi gruppi, alcuni dei quali poi si sono uniti all’Isis.
Quando qualcuno dice che l’America ha creato l’Isis, sbaglia: piuttosto è
corretto dire che l’America ha creato il background da cui è nato
l’Isis. Dobbiamo anche aggiungere che il Califfato ha un forte
radicamento internazionale, riesce a ottenere “donazioni islamiche” da
diverse parti del mondo. In merito alle armi posso dirti che mentre noi a
Raqqa ad esempio utilizzavamo droni con semplici telecamere, l’Isis
schierava droni armati, ognuno dei quali ha uno costo che si aggira
intorno alle € 60.000. Parliamo dunque di ingenti quantità di denaro a
loro disposizione.
Gli
americani che a un certo punto avevano foraggiato l’offensiva curda,
sembrano ora avere scaricato i loro alleati: cosa le hanno riferito i
suoi compagni a riguardo?
Gli
americani sono stati sì nostri alleati, ma solo militari. Non abbiamo
mai accettato nessun compromesso politico nella rivoluzione del Rojava.
Ricordo che anche Castro nella prima fase della sua rivoluzione a Cuba
attinse a fondi raccolti negli Usa. Nella fase iniziale una rivoluzione
non può sostenersi senza alleati. Sappiamo benissimo che l’America non è
un alleato affidabile. Se avete avuto modo di leggere il mio libro
avrete letto che già prima che tutto si verificasse, sapevamo che
sarebbe arrivato quello che io ho definito “giorno del tradimento”: non
perché siamo profeti, ma perché sappiamo leggere la storia, era evidente
che sarebbe successo.
Gli
americani sono stati la nostra aviazione contro i terroristi islamici,
ma non lo sono stati ad Afrin. Il 18 marzo la nostra città libera è
caduta, invasa alle spalle dalla Turchia. Gli americani ci hanno
abbandonati, lasciando che ci invadessero dopo una guerriglia durata
quasi due mesi, condotta contro un contingente bellico che disponeva di
dotazioni militari che non eravamo in grado di affrontare. Lì abbiamo
perso centinaia tra compagne e compagni. Una cosa che posso aggiungere è
che attualmente un’altra presa di posizione è quella francese, che
vogliono ristabilire una presa globale di geopolitica forte. Hanno delle
truppe schierate nel territorio, che non usano; si coordinano con noi
dal punto di vista logistico,ma non fanno di fatto niente, al momento.
Loro sperano che una volta andati via gli americani potranno prendere il
controllo dell’area tessendo un’alleanza con noi. Siamo preziosi sia
per gli americani che per i francesi, perché costituiamo l’ultima realtà
solida contro l’Isis, non schierata con Assad che non è nostro alleato,
ma al contempo neanche un nostro nemico.
Attualmente, che lei sappia, quanti italiani sono impegnati a combattere tra le fila curda?
Posso
dirti che dal 2015 circa venti italiani hanno preso parte all’
offensiva anti-Isis con i militari curdi. A Raqqa eravamo in quattro:
io, Botan, un ragazzo torinese e un altro ragazzo di Senigallia.
Ripartirà per il fronte?
Ho
dato il mio contributo mettendo in gioco la mia vita, ma la battaglia
non si ferma sul campo. Per ora cerco di mettere a disposizione le mie
competenze, i miei strumenti di comunicazione per supportare la causa.
Se però la Turchia dovesse attaccare la nostra rivoluzione in toto, in
particolare se dovessero prendere Qamişlo che per me è molto simbolica
perché è la città più grande che abbiamo, se non fosse solo una
battaglia persa, ma l’intera rivoluzione a crollare, non so se ce la
farei a rimanere qui a guardare.
Un’ultima
domanda, di carattere diverso dalle precedenti: in più di un’intervista
il giornalista di turno le ha chiesto se lei abbia ucciso dei nemici.
Forse sperando nella sensazionalità di una risposta, fanno finta di dimenticare che in guerra non si va per giocare?
Esatto,
spesso ponendomi domande del genere vanno alla ricerca del
sensazionalismo dimenticandosi che è una guerra. Come ho detto più volte
io schifo la guerra: andrebbe sempre evitata essendo il fallimento di
ogni diplomazia. Certo vivere in oppressione non è un’alternativa così
come non lo è lasciare morire centinaia di migliaia di donne. Quindi non
credo la loro sia una domanda pertinente: non è un gioco, non stiamo
stati li a giocare. Era un sacrificio che abbiamo fatto e molti di noi
sono morti.
Ci
terrei a precisare che due figure ispiratrici del mio percorso sono
state Nelson Mandela e Fidel Castro. Nel 2008 avevo dato la mia parola
che sarei andato ai funerali di entrambi e così è stato. Nel 2013 ero ai
funerali di Mandela e nel 2016 a quello di Castro. Questo per spiegare
qual è il mio percorso anche psicologico e politico, a come sono
arrivato a scegliere di dedicare la vita a qualcosa di così profondo
come quello di cui abbiamo parlato.
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