Il
settimanale economico prende spunto da una riunione dei rappresentanti
delle banche centrali, tenutosi recentemente a Sintra, in Portogallo,
per rendere pubblica la “preoccupazione” che i salari dei lavoratori in
Europa siano diventati troppo bassi.
Secondo
l’Economist, nella maggior parte dei Paesi ad alto reddito il salario
reale (al netto degli aumenti dei prezzi) è cresciuto in media dell’1%
all’anno, dal 2000 a oggi – e nella fascia dei salari più bassi
l’incremento è stato ancor più contenuto. L’attuale economia globale, si
interroga il settimanale, potrebbe aver “indebolito oltre misura il
potere contrattuale dei lavoratori al punto che nemmeno tassi di
disoccupazione particolarmente bassi riescono a infiammare le loro
pretese salariali”.
Parte del problema, nota l’Economist,
è che l’inflazione, la crescita dei prezzi, tende a “mangiare” la
maggior parte degli aumenti del salario, e nei paesi dell’Unione Europea
ancora di più che negli Stati Uniti.
“Nemmeno una
ripresa della produttività garantirebbe tempi favorevoli per i
lavoratori. Negli ultimi decenni la quota del Pil destinata al lavoro,
piuttosto che al capitale, è diminuita perché la paga reale è aumentata
più lentamente della produttività. Nelle economie avanzate la
quota salari è scesa da quasi il 55% a circa il 51% tra il 1970 e il e
2015, secondo i ricercatori del Fondo monetario internazionale.
(…) Invertire la caduta della quota del lavoro nel reddito nazionale
richiederebbe che i salari reali crescessero più rapidamente della
produttività, andando a erodere i margini di profitto delle imprese”,
sottolinea l’Economist.
Ma
nell’articolo c’è uno spazio dedicato anche alla situazione italiana.
“Alcuni paesi, come l’Italia, continuano a soffrire di tassi di
disoccupazione molto più alti di quanto non fossero prima della crisi
finanziaria. Eppure sui salari si potrebbe concedere qualcosa visto che
ora i beni vengono prodotti nelle filiere internazionali e venduti sui
mercati globali”.
Ma è proprio questo accanirsi nel deprimere il mercato interno (di cui i salari come i consumi sono il motore, ndr)
che comincia a suscitare interrogativi nell’establishment. L’Economist
cita un recente documento di lavoro di Kristin Forbes, del Massachusetts
Institute of Technology, arrivata alla conclusione che l’influenza
sull’inflazione dei prezzi alimentari e delle materie prime globali è
cresciuta nell’ultimo decennio, mentre le condizioni economiche locali
sono diventate meno importanti.
Simpatica ma emblematica la battuta di Philip Lowe, il governatore della banca centrale australiana, riportata da l’Economist,
il quale ha detto al pubblico dei suoi colleghi riuniti a Sintra che,
quando chiede alle imprese che hanno difficoltà a trovare lavoratori:
“Perché non li pagate di più? Queste mi guardano come se fossi
completamente matto”.
Volete
una piccola verifica empirica? A giugno, secondo i dati del ministero
dei Trasporti, le immatricolazioni sono state pari a 174.702 unità, con
un calo del 7,3% rispetto allo stesso periodo del 2017. Si tratta del
quarto mese negativo da inizio anno. Pe la Fiat, in particolare, il calo
è da incubo: lo scorso mese sono stati 43.642 i veicoli registrati, il
19,16% in meno rispetto allo stesso periodo del 2017. Vanno bene
soltanto le Jeep, che costano di più e sono quindi acquistate dai ceti
medio-alti. Crollano le vendite sui modelli per “poveracci”, che sono
diventati evidentemente così poveracci da non potersi più permettere di
cambiare l’auto.
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