La dicotomia inesistente tra legali e illegali.
La
questione migratoria oggi sulla bocca di tutti sembra essere stata
ridotta a una polarizzazione massmediatica che si potrebbe riassumere
così: da un lato il “non c’è spazio per tutti” (con spesso conseguente:
respingiamoli!), dall’altra il “poverini, dobbiamo aiutarli”
(quest’ultimo detto soprattutto in chiave polemica contro i primi e
dagli stessi che quando ne hanno avuto la possibilità hanno approvato
leggi come la Turco-Napolitano -prima legge sull’immigrazione in Italia-
o la più recente Minniti-Orlando che sul “aiutare” di sicuro non
prevedevano molto mentre prevedevano in termini di repressione,
limitazioni e delocalizzazione nella gestione flussi).
Comunque
ad oggi nel panorama politico italiano sembra che le migrazioni siano
un tema su cui urlare, strapparsi le vesti, “fare la voce grossa” con
questo e con quello, e soprattutto fare campagna elettorale senza mai
(volontariamente) fare un’analisi seria e strutturale della situazione,
delle sue cause e delle sue implicazioni.
La
prima balla colossale che ci viene proponiate a ripetizione (e non solo
da Salvini con le sue dichiarazioni, ma anche i vari esponenti piddini
prima di lui) è che c’è una migrazione legale e una illegale, la quale
(quest’ultima) andrebbe arginata: come dicevo, una balla. Oggi in Italia
non esiste un modo per migrare legalmente quindi (per logica) non ci
sono migranti legali. Certo, si può arrivare con un visto turistico e un
aereo (per quante/i se lo possono permettere) ma dopo 3 mesi, non
essendoci vie possibili di “regolarizzazione” del processo migratorio, si diventa clandestini e siamo quindi punto a capo.
Al
più c’è un diritto internazionale che tutela i rifugiati, per cui
quelli che vengono riconosciuti tali (e che comunque sono entrati
illegalmente in Italia secondo le varie leggi costruite alternativamente
da destra e “sinistra”) vengono poi in qualche modo “ripescati”
dall’illegalità.
L’ultimo
decreto flussi in Italia è stato nel 2011. L’ultima sanatoria nel 2012.
Basta fare un rapido conto per accorgersi che da 6 anni a questa parte è
impossibile arrivare regolarmente in Italia e se accettiamo gli ultimi
dati per cui solo il 15% di chi arriva ha diritto allo stato di
rifugiato (anche questo per un diritto internazionale che non contempla
chiunque scappi da situazione di fame, carestia, disastri ambientali
etc…) ci accorgiamo che l’85% di queste persone, di questi uomini,
donne, bambini, è fondamentalmente irregolare.
Eppure
a fronte dell’85% di migranti irregolari le statistiche ci dicono che
la microcriminalità continua a diminuire: quindi anche l’altra balla,
che collegherebbe le migrazioni illegali con la microcriminalità, si
scioglie come neve al sole.
Una
cosa, invece, non ci dicono sulle conseguenze della migrazione
“illegale”: fa bene alla finanza ed ai mercati. Fa bene perché importa
masse di soggetti fantasma, invisibili perché senza documenti e quindi
non regolari, ricattati e ricattabili, disponibili allo sfruttamento
perché senza altra scelta. La denuncia del caporalato, dello
sfruttamento (spesso a carattere mafioso ma non solo) significherebbe
infatti l’emersione che in Italia (per la situazione legislativa di cui
sopra) implica in maniera necessaria un decreto di espulsione, quindi la
sanzione definitiva e perenne dello stato di clandestinità o
l’abbandono del progetto migratorio, scelta spesso impossibile perché
frutto di un investimento familiare e collettivo di cui si deve dar
conto nel paese d’origine, o anche, più semplicemente, perché si spera
lo sfruttamento sia situazione transitoria verso un futuro più stabile.
Così i mercati ottengono manodopera a basso costo concorrenziale anche
con quella fetta di popolazione autoctona più debole, e magari meno
formata, che a quel genere di lavori potrebbe anche pensare di accedere:
e così il costo del lavoro si abbassa per tutte/i anche perché
contemporaneamente c’è stata (e continua ad esserci) la parcellizzazione
del sapere (costruita con costanza bipartisan da Berlinguer, alla
Moratti, Gelmini, Fedeli, etc…), la
svalutazione del lavoro e delle competenze di tutte/i (per cui chiunque è
replicabile e sostituibile), la distruzione del welfare,
dell’istruzione pubblica, delle politiche sociali.
Non
è un caso che i governi che hanno smantellato lo stato sociale sul
disegno del progetto neoliberista, abbiano anche firmato, una dopo
l’altra, le leggi sulla migrazione che vincolano la possibilità
migratoria per i cosiddetti “migranti economici” al possesso di un
contratto di lavoro… contratto che gli stessi poteri neoliberisti e
finanziari continuano a smantellare e ridurre sempre più nei loro tempi,
nelle loro garanzie e nelle loro tutele per il lavoratore (avete
presente il JobsAct di Renzi?!), obbligando a una precarietà che se è
difficilissima da sostenere per gli autoctoni (diminuisce la
microcriminalità ma aumentano i suicidi) è impossibile da sostenere per i
migranti.
Situazione
che arriva alla follia legislativa con la legge attuale che prevede
che, in caso di decreto flussi (che come già detto non c’è da 7 anni e
non si vede all’orizzonte), la chiamata del migrante da parte del datore
di lavoro avvenga in maniera nominale direttamente nel paese d’origine.
Ovvero:
voi siete un imprenditore e vi serve un saldatore e pensate bene di
andarne a chiamare uno in Senegal, ma non uno qualsiasi, proprio quel
Modou lì… ma vi sembra un ragionamento anche con delle minime pretese di
razionalità?
Non di sola propaganda
Ora,
stando a quanto scritto finora dovrebbe risultare evidente che la
proposta del “chiudiamo le frontiere” è pura propaganda giocata sulla
paura (costruita dai discorsi xenofobi dei leghisti ma anche delle
urlate securitarie del PD o ancora di più dei media nostrani): chiudere
le frontiere non vuol dire bloccare le migrazioni, che sono frutto di
scelte e meccanismi globali di neocolonialismo di devastazione,
sfruttamento e rapina di interi territori, e che sicuramente non si
fermeranno di fronte all’affermazione di un porto chiuso. E soprattutto
“chiudere le frontiere” non cancellerà la dimensione di illegalità e
quindi di sfruttamento esteso che ad oggi coinvolge centinaia di
migliaia di persone, anzi: vuol dire spingere queste stesse migrazioni
ancora di più nel sommerso e togliere ulteriormente diritti e
possibilità di liberarsi da quel ricatto a quante/i già ne sono
imbrigliati.
Allo
stesso modo risulta propaganda il semplice “accogliamoli” (e infatti
guarda caso esce da bocche come quella di Renzi, Macron &company che
non si sono esattamente distinti come campioni globali di pace e di
diritti). E, attenzione, “accogliamoli” diventa propaganda non perché io
non riconosca eticamente e moralmente giusto aprire i porti davanti a
persone che hanno fatto un viaggio a cui molte/i noi non sarebbero
sopravvissute/i anche solo psicologicamente, che scappano da guerre e
disastri che spesso e volentieri i diversi governi europei e
“occidentali” in genere hanno grandemente contribuito a generare, ma
perché “accogliere” non serve (quasi) a nulla finché non si modifica in
modo strutturale la legislazione (e le prassi) che regolano le
migrazioni. Non serve finché, una volta accolti, l’85% di quelle donne e
di quegli uomini rimarranno senza documenti e andranno ad ingrassare le
fila degli sfruttati, inseriti perfettamente nel meccanismo globale di
smantellamento del welfare, dei diritti sul lavoro, dello stato sociale.
Non serve finché l’accogliere significa continuare a ingrassare le
tasche delle cooperative e imprese internazionali (l’impresa che
gestisce i più grandi CARA in Italia al momento è GEPSA, un’azienda
francese che in patria gestisce le carceri): cooperative e imprese che
si prendono fondi a seconda del numero di migranti che arrivano ma che
esercitano una politica dell’accoglienza fatta di riduzione dei costi
(il personale è spesso sostituito da volontari con tanta buona volontà
ma il più delle volte non qualificati e poco formati, che invece sì
“rubano il lavoro” a personale formato e qualificato), fatta di
“stoccaggio” di corpi, mantenuti a costi bassissimi (moltissime sono le
denunce di cibo avariato distribuito nei centri di accoglienza), con
pochissime occasioni di interazione sul territorio (o anche banalmente
di formazione linguistica) finché non arriva l’accoglimento o il
respingimento della richiesta di asilo, momento in cui i migranti
vengono abbandonati al proprio destino, senza coordinate se non quelle
che, eventualmente, vengono date dalla comunità migrante di riferimento.
Ed è evidente come questo sistema, lungi dall’essere accogliente, serve
solo a scopi di lucro dei soliti noti e (danno collaterale?) ad
aumentare l’instabilità, la guerra tra i poveri e la tensione sociale.
Ancora,
poi, queste modalità di “accogliere” non servono finché si impedisce a
quei corpi (e a quelle menti) di transitare liberamente tra le frontiere
interne dell’Europa ma finché, al contrario, si continuano ad ammassare
quei corpi in Stati ormai trasformati in hotspot, che quando risultano
troppo evidenti vengono semplicemente delocalizzati altrove (come in
Libia e in Turchia, ma anche in Sudan, in Marocco, etc…), lontani dagli
occhi delle opinioni pubbliche nostrane.
Ed
anche a proposito di questo c’è bisogno di una precisazione: la Libia
non è diventata l’altro ieri un nodo centrale nei flussi migratori
provenienti dall’Africa Subsahariana e diretti verso l’Europa, né è
diventata l’altro ieri un luogo dove la violazione dei diritti umani
(soprattutto nei confronti dei migranti) è all’ordine del giorno. Al
contrario, la Libia è sempre stata centrale (così come il Marocco, la
Turchia e l’Egitto) nella politica europea della gestione dei flussi,
come dimostrano i primi accordi bilaterali firmati nel 1998 in questo
senso dall’allora ministro dell’interno Giorgio Napolitano (volto
conosciuto?!), redatti all’interno di una politica comune europea che
spingeva (e continua a spingere) verso una delocalizzazione della
gestione dei flussi nei paesi della sponda sud del Mediterraneo e che se
ne infischiava beatamente del rispetto o meno dei diritti umani. Tanto
che nel 2004 (quindi ben quattro anni prima dell’accordo di Bengasi)
l’Italia prevedeva nella finanziaria stanziamenti per costruire 4 campi
di detenzione in Libia, tra cui Kufrah, nel mezzo del deserto nel sud
del paese, salita agli onori delle cronache per gli episodi di tortura e
violazione sistematica dei diritti umani svoltisi anche con la presenza
di militari italiani.
Così
come non si può parlare della Libia come di un vaso di Pandora
scoperchiatosi improvvisamente, in quanto l’attuale situazione di
instabilità del paese è tutta imputabile alle politiche di guerra che
hanno devastato il paese e che sono state portate avanti in prima
istanza dalle potenze occidentali, a guida francese e statunitense, e a
cui l’Italia (con governo PD) si è accodata.
Un’apertura possibile
Risulta
quindi evidente che ci sia la necessità di andare oltre la propaganda,
di riconoscere la realtà strutturale e globale delle migrazioni (la
stessa realtà che porta migliaia di giovani italiani a migrare verso il
Nord Europa, gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia…) e di dare una
risposta altrettanto sistemica, tanto efficace quanto saprà superare
“l’emergenza umanitaria” e dare invece una risposta solidale e
umanitaria alla distruzione dello stato sociale e della pace sociale,
progetto in cui tanto si è impegnato il neoliberismo negli ultimi 40
anni almeno.
Una risposta possibile? Aprire le frontiere e dare documenti di soggiorno a tutte/i.
Non
perché “noi siamo buoni” o perché “loro sono poverini”, ma per provare a
rompere quel “noi” contro “loro” che serve solo al capitale ed al
neoliberismo, che con la guerra tra poveri distoglie l’attenzione dal
vero nemico, per cui puntiamo alle briciole e non alla torta. Per far
andare in cortocircuito la parcellizzazione delle identità e delle
comunità per cui io lotto e rivendico diritti solo con quante/i
riconosco come mio simile (o identico), finendo per perdere sempre. Per
smascherare la realtà di una frammentazione sociale che serve all’1% per
controllare il restante 99%.
Con
i migranti c’è bisogno di stringere un’alleanza: non sul buonismo, ma
sui diritti. Perché è attaccando le logiche di sfruttamento da parte del
capitale finanziario, della globalizzazione come cancellazione di
diritti, che i diritti si conquistano per gli autoctoni e non solo.
Perché nel momento in cui si accetta che solo una parte della
popolazione abbia diritto ai diritti, i diritti si trasformano in
privilegi e i privilegi si possono perdere in ogni momento.
Come
diceva Thomas Sankara, “le masse popolari in Europa non sono contro le
masse popolari in Africa. Ma quelli che vogliono sfruttare l’Africa sono
gli stessi che sfruttano l’Europa. Abbiamo un nemico comune”.
Riconoscere
documenti al di là del possesso di un contratto di lavoro significa
permettere a tutte/i di rivendicare condizioni di lavoro, sicurezza,
salariali degne, interrompendo il vortice di svalutazione del lavoro e
delle competenze.
In
più vorrebbe dire attuare con molta più facilità politiche di
interazione, di conoscenza linguistica e culturale, permettendo un
riconoscimento e una coesione sociale che oggi mancano sempre di più.
Immaginando un contesto dove l’acquisizione dei documenti possa essere
percorsa facilmente, i migranti non avrebbero motivo di nascondersi
(cosa che al momento crea non pochi problemi, ad esempio, sul piano
sanitario o di inserimento a scuola dei bambini) e quei fondi che al
momento ingrassano cooperative e imprese potrebbero essere invece usati
per percorsi di educazione culturale, sanitaria o linguistica (in
Germania, per esempio, migranti comunitari ed extracomunitari devono
frequentare un corso di 3 mesi di lingua: in Italia, invece, al momento
l’educazione linguistica è delegata per lo più a volontari mentre chi ha
vinto l’appalto si prende i soldi senza aver adempiuto ai propri
obblighi), per progetti di formazione ed educazione volti
all’inserimento nel tessuto sociale e lavorativo.
Aggiungo
ancora: garantire un documento a tutte/i implica permettere a quante/i
volessero di passare le frontiere intra-europee (il permesso di
soggiorno è dato da un paese UE ma permette di muoversi liberamente in
altri paesi Schengen) e quindi aprirebbe con molta più forza la
questione di Dublino III e dell’assurda limitazione dei progetti
migratori al primo paese d’arrivo (o meglio ancora, al primo paese di
registrazione dei dati e delle impronte).
Permettere
l’acquisizione di documenti da parte di tutte/i obbligherebbe l’Europa a
confrontarsi con il desiderio di riscatto sociale, di diritti, di
benessere che ha mosso e continua muovere masse di corpi in tutti
continenti, ma che vede questo desiderio e questo diritto riconosciuti
solo a quante/i possono vantare un passaporto “occidentale” (e/o un
conto in banca).
Perché
la verità è che gli slogan da “chiudiamo le frontiere” li facciamo
dall’alto di pulpiti di paesi i cui cittadini possono viaggiare quasi in
tutto il mondo senza bisogno del visto; da paesi le cui imprese e i cui
interessi devastano e depredano risorse e territori da cui poi i
migranti scappano e si muovono verso l’Europa, gli Stati Uniti, ma anche
verso i Paesi del Golfo, il Sud Africa o Israele (che sarà anche
l’unica “democrazia” in Medio Oriente ma considera i rifugiati come
“infiltrati” e li rimpatria nei paesi d’origine e in paesi terzi in
barba al diritto internazionale).
E
siamo arrivati così alle cause di una migrazione che non può essere
fermata perché frutto di una crisi sistemica delle risorse e di una
devastazione altrettanto sistematica dei territori, come abbiamo visto
in Afghanistan, Iraq, Siria, Yemen, Mali, come vediamo nelle Repubbliche
Centroafricane, o con i colpi di stato in Sud America, e la lista
sarebbe infinita.
O
meglio che può essere drasticamente ridotta solo modificando
sostanzialmente le politiche di non cooperazione e imperialismo che le
potenze “occidentali” e suppostamente democratiche hanno portato avanti
in mezzo mondo anche dopo la decolonizzazione. Ovvero vorrebbe dire, a
partire da paesi come Francia e Gran Bretagna, rinunciare ai privilegi
coloniali, smetterla di estrarre ricchezze e risorse naturali a prezzi
irrisori (ovvero di depredare territori), finirla con le guerre definite
operazioni di pace o lotta al terrorismo e con il finanziamento del
terrorismo stesso, vorrebbe dire, da parte di organismi come il Fondo
Monetario Internazionale, smetterla di esigere politiche di svendita del
proprio patrimonio e di tagli sul welfare da parte dei paesi
dell’Africa, dell’Asia, del Sud America (così come dell’Europa).
E
allora sì che la migrazione globale e sistemica potrebbe essere ridotta
perché, come 2 secoli di storia di Italia Unita e paese di emigrazione
ci hanno abbondantemente dimostrato, all’aumentare del benessere diffuso
le migrazioni diminuiscono perché la tendenza umana è comunque, per la
maggior parte, quella di progettare e costruirsi un futuro dove si hanno
reti, radici, relazioni, in contesti di cui si conosce la lingua e la
cultura, di cui ci si sente parte.
Se
il neoliberismo è lo spazio dei non-luoghi e dello sradicamento, delle
identità inventate e settarie, della reazione e della frammentazione, la
nostra risposta e la nostra progettualità non può che risiedere nel
radicare, nella costruzione di reti, di piazze, di luoghi dove
incontrarsi e riconoscersi, nell’accoglienza come pratica e non come
business.
Alla
fine di tutto, quindi, quello che ci si propone davanti è un “noi”
contro “loro”, ma non quello che ci raccontano: non è un migranti contro
autoctoni ma una questione di classe, di corpi e menti che producono,
creano, costruiscono relazioni e ricchezza (i migranti in questo momento
producono più PIL di quanto consumino in welfare), contro un capitale
finanziario che sfrutta e devasta.
È
arrivato il momento di smetterla con i buonismi e di creare invece
alleanze, di rivendicare (davvero) diritti per tutte/i, di puntare alla
luna e smetterla, una buona volta, di guardare il dito.
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