La destra a Roma è ormai una pietra che rotola verso acque sempre più fangose. Con Renata Polverini che non si schioda da quel che resta del suo sbrindellato mandato presidenziale, ancora lì a deliberare e nominare. Con Gianni Alemanno che tira a campare, mentre intorno gli si stanno sbriciolando assetti e maggioranze. Con la prima che si accanisce a spostare le elezioni il più lontano possibile e con il secondo che non vede l’ora di celebrarle al più presto per liberarsi dall’incubo del Campidoglio.
di SANDRO MEDICI
E nel frattempo si consuma il peggior decadimento che questi territori abbiano mai vissuto. Una vera e propria degradazione che attraversa ogni settore della vita quotidiana, un declino che sparge miseria e insicurezza, che incrina le coscienze e spezza la speranza.
Sono quasi trecentomila i disoccupati nel Lazio, e la tendenza è in ulteriore crescita. A centinaia e centinaia, i servizi sociali sono costretti a interrompere le loro attività, consultori, case-famiglia per anziani, progetti d’integrazione per disabili, centri anti-violenza, comunità d’accoglienza, ecc. Nelle scuole non c’è quasi più manutenzione e le famiglie sono costrette a contribuire per le spese minute, dai materiali didattici alla carta igienica. La riduzione di sussidi e contributi si sta facendo sentire su tanta povera gente che non sa di che vivere. Il sistema di trasporto pubblico scricchiola da tutte le parti, treni regionali fatiscenti e inefficienti, linee metropolitane che s’interrompono continuamente, autobus che si guastano e non ci sono risorse per ripararli.
Un panorama sociale angoscioso e incollerito, un’intelaiatura urbana sull’orlo del cedimento. Ciò che lascia la destra in fuga è un tappeto di macerie. Una città con il cuore spompato e il fegato a brandelli.
Sarà prima o dopo, durante o nel frattempo, ma Roma in ogni caso tornerà a votare. A decidere come e chi dovrà amministrarla nei prossimi anni. Ma se la scelta si limiterà a quella rituale e ormai esausta alternanza tra chi lascia e chi ritorna, difficile, forse impossibile che si dispieghi quella ventata d’energia positiva, quello slancio d’intelligenza politica necessari, anzi indispensabili, ad aprire una stagione di rinascita per la città. E se la destra cerca di riaddensare la sua spappolata frittata, sull’altro versante è in corso la preparazione di un bel polpettone.
Questa, o poco più, è la risposta che la politica dei partiti sta offrendo alla città. Alemanno uscirà dalla porta di servizio del palazzo senatorio o affronterà eroicamente il suo destino già sconfitto? Dopo la delocalizzazione di Nicola Zingaretti, il centrosinistra troverà il suo candidato sindaco tra gli otto concorrenti alle primarie, più i due ministri del governo Monti, più il più predestinato di tutti Enrico Gasbarra? Non so davvero se da questa lotteria potrà emergere una prospettiva politica credibile. Resta la drammatica distanza tra quel che sarebbe necessario per ridare fiducia a una città stremata e le smaniose dinamiche di potere che si consumano nei partiti.
Ed è qui, proprio in questo desolante divario, che c’è da suscitare il desiderio e trovare la forza per aprire a Roma una stagione politica nuova. Una stagione che abbandoni l’avvilente logica del «meno peggio» e abbia il coraggio di offrire proposte e soluzioni finalmente nette e radicali, attraverso cui riconoscere i diritti sociali e i diritti civili di tutti e tutte. Per com’è ridotta, la città ha bisogno di una svolta culturale, di una tensione popolare, di una mobilitazione delle coscienze e delle volontà, insomma di una rivoluzione. Non di compromessi e mezze misure, non di sentirsi rispondere il solito «sarebbe-bello-però-non-si-può-fare», né, infine, di opache mediazioni tra notabili per stabilire alleanze e compartecipazioni, assetti ed equilibri, filiere e spartizioni.
Se non irrompe una movimentazione politica nuova, il futuro di Roma rischia di essere già definito. Le politiche continentali, attraverso i governi nazionali vassalli, continueranno a imporre la riduzione della spesa sociale, costringendo territori e città a vendere il proprio patrimonio. Aziende, servizi, immobili, aree, beni culturali: tutto all’incanto per compensare bilanci sempre più esigui e per consentire al mercato di attutire la sua crisi. Con questa spoliazione pubblica si svilupperà una colossale redistribuzione economica che impoverirà i poveri e arricchirà i ricchi. E Roma verrà trasformata in una bancarella.
Non ci si può rassegnare al dissanguamento delle risorse locali, ed è per questo che non ci si può affidare ai partiti che oggi sostengono quelle politiche e che in futuro difficilmente se ne scosteranno. Al contrario, è proprio dalle città che diventa necessario ribellarsi a queste anguste compatibilità e organizzare un fronte di resistenza al liberismo panfinanziario. I beni pubblici, proprio perché di tutti, non sono privatizzabili. E le risorse necessarie per assicurare i servizi sociali vanno stornate dalle spese per gli armamenti e per le grandi opere. Ci sono da ribaltare le gerarchie del bilancio dello Stato: il sostegno a un bambino disabile nella scuola dell’obbligo o l’apertura di un teatro vengono prima di un sistema di puntamento o di un tunnel ferroviario.
Lo stesso metodo va applicato alla scala locale. A Roma, per esempio. Basta finanziare le grandi opere, costose e spesso inutili, si riversino le rimesse sulla manutenzione della città e sull’offerta sociale; il patrimonio pubblico diventi davvero bene comune e lo si utilizzi per accogliere servizi e centri culturali; non si rilascino concessioni edilizie per nuovi fabbricati ma si riqualifichino le sterminate volumetrie inutilizzate, anche a costo di requisirle e assegnarle alle famiglie in attesa di un alloggio popolare; c’è da accogliere le nuove esigenze sentimentali e civili in una società in rapida trasformazione: per le coppie di fatto, il testamento biologico, la cittadinanza ai figli di immigrati nati in città; nella mobilità cittadina la preminenza dev’essere indiscutibilmente pubblica, come peraltro avviene in tutte le grandi città del mondo, restringendo sensibilmente l’uso dei mezzi privati e realizzando una ramificata rete tramviaria e ciclabile; creare nuovo lavoro attraverso la riconversione ecologica dei tessuti urbani, lo sviluppo di un’agricoltura di qualità nell’ancor fertile agro romano, la valorizzazione dei beni culturali, la progettazione sociale, la ricerca scientifica e tecnologica, la cura del patrimonio ambientale, la produzione artistica e culturale, la promozione turistica del marchio Roma, l’estensione dell’offerta di attività ricreative e sportive.
Insomma, coltivare ed esaltare il valore d’uso di questa nostra città, che è un bene pressoché illimitato, piuttosto che sfruttare il suo valore di scambio, che succhia le risorse fino a esaurirle. Roma è tra le città più belle al mondo; la sua lunghissima storia ci ha lasciato un’eredità incredibilmente preziosa: se stessa. Un giacimento culturale unico e meraviglioso, incanto morfologico, struggente suggestione. Una strategia intelligente può valorizzare l’intero sistema per farne un immenso giardino della storia, dell’arte e della cultura, e trasformarlo in una risorsa economica formidabile.
E a proposito di cultura, Roma soffre di un deficit di contemporaneità che ne mortifica il profilo internazionale. L’ampio panorama creativo, che pure in città si agita e si esprime, non riesce a dispiegarsi in tutta la sua forza espressiva. Si tratta allora di accogliere e nutrire tutta questa vitalissima energia artistica. Per esempio, offrendo spazi di produzione e fruizione, in cui sperimentare e diffondere. Ed è possibile farlo attraverso l’utilizzo di quelle cubature vuote e inutilizzate che sono i forti e le caserme, i magazzini abbandonati, i vecchi depositi, ecc. Esattamente come succede a Berlino e a Barcellona con le Officine e in Francia con le Casematte. Del resto, in città, sta già succedendo al Valle, al Palazzo, all’Angelo Mai, al Garage Zero e in tante altre realtà indipendenti.
Ecco a cosa serve la politica: serve a delineare orizzonti da raggiungere, visioni future, cose belle da fare. Serve a dare senso e ragioni al cambiamento. Serve a favorire processi e progressi, non a imporre esiti e destini. Serve a migliorare luoghi e persone, materialità e immaginario. E a Roma, per ripartire, per ricominciare, proprio di questo tipo di politica c’è bisogno. Una tensione libera e pensante che appassioni e renda partecipi uomini e donne, anch’essi liberi e pensanti, disposti a vivere un’avventura sociale e culturale, a fondare una nuova repubblica romana.
Repubblica romana. Così si potrebbe chiamare la lista civica che si sta decidendo di costituire intorno alla mia candidatura a sindaco di Roma. Una candidatura che chiedeva una discussione pubblica di tutti e su tutto, oltre le canoniche rappresentanze partitiche, in un confronto aperto e inclusivo; e che forse per questo ha incontrato l’ostilità (se non il rifiuto) di chi avrebbe dovuto raccoglierla, o quanto meno verificarla. Si è preferito tracciare perimetri, decidendo chi doveva e poteva essere incluso, e poi chiuderli con il filo spinato. Ed evidentemente la mia proposta è stata ritenuta stridente, incompatibile.
Ma l’ostracismo nei miei confronti mi pare non abbia avuto particolari effetti, se dopo diversi mesi le ragioni alla base della mia offerta politica sono ancora tutte integre e, anzi, palesemente confermate. Anche dopo la decisione di non partecipare alle primarie, che, tra depistaggi e patetiche furbizie, considerando la folla di concorrenti, si stanno con tutta evidenza via via sfarinando: e chissà se mai si celebreranno.
C’era da fare un passo indietro per farne due in avanti. E così è stato. Nel pentagramma politico romano c’è oggi una proposta nuova, indipendente, che nasce come occasione di raccolta consapevole e partecipe di tutte quelle realtà non allineate, organizzate o singole, che ritengono ci sia bisogno di nuove vibrazioni in città. Fuori dalle compatibilità imposte e fuori dai perimetri improvvisati. Una felice opportunità che si sintonizza con un diffuso sentimento di liberazione da tutte quelle incrostazioni che appesantiscono la politica cittadina. E già diverse soggettività si stanno rendendo disponibili a condividere il progetto e, insieme, a scegliere obiettivi e programmi, pratiche e impronte. Quanto basta per cominciare ad alzare lo sguardo e allargare il respiro.
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