lunedì 22 ottobre 2012

Intervista a Emiliano Brancaccio: «Il rifugio dell’economia globale sarà il ritorno al protezionismo»

La missione che si è dato Emiliano Brancaccio – brillante economista napoletano – è quanto mai difficile. Nientedimeno che rompere un tabù: quello che si è creato attorno alla dottrina del libero commercio mondiale. La sua tesi è che con la crisi della globalizzazione capitalistica, nei fatti nuove forme di protezionsimo e controllo politico stanno crescendo. E che quella dottrina è in crisi e ormai superata. Ed è tempo che la sinistra se ne accorga, se non vuole che le proposte di limitazione dei movimenti di capitali e di merci, che incontrano crescenti consensi – un po’ ovunque e anche in Italia – siano cavalcate soltanto da forze populistiche e nazionaliste.

pubblico | Autore: Marco Berlinguer
Il protezionismo sta tornando di moda?
Tra il 2008 e il 2012 la Commissione europea ha registrato 534 nuove misure protezionistiche. Non solo l’Argentina, ma anche colossi come Cina, India, Brasile, Russia e Stati Uniti hanno introdotto restrizioni. L’unica che ancora resiste alla tentazione di introdurre controlli sui movimenti di capitali e di merci è l’Unione europea. Dietro ci sono gli interessi del paese più forte, la Germania, che dal libero scambio trae grandi vantaggi. Tuttavia, man mano che la crisi avanza, anche in Europa e in Italia aumentano i consensi verso misure di controllo dei commerci, di limitazione delle acquisizioni estere e di ripristino della sovranità nazionale sulla moneta. E’ un’illusione pensare di contrastare quest’onda con la solita vuota retorica europeista.
In effetti i segnali di protezionismo non mancano. Lo stesso Marchionne, in qualità di presidente dell’associazione europea dei costruttori automobilistici, ha criticato l’apertura indiscriminata alle importazioni di autoveicoli prodotti in Asia.
Non solo: Marchionne ha pure chiesto alla Commissione europea di governare i tagli di capacità produttiva delle case automobilistiche europee, in modo da lasciare invariate le quote di mercato: una vera e propria pianificazione pubblica europea dei volumi di produzione. È una posizione sensata che tuttavia apre una contraddizione, visto che al tempo stesso Marchionne rivendica piena libertà di trasferimento del capitale di Fiat all’estero ed esige dai lavoratori una totale sottomissione alle leggi del mercato. È l’ennesimo sintomo di crisi del liberismo e dei suoi ideologi, che da un lato si arrampicano sugli specchi per giustificare i massicci aiuti pubblici ai capitali privati, e dall’a ltro continuano a pretendere di avere mani libere nello scontro con i lavoratori.
E la sinistra, dice lei, risalta per il suo silenzio.

Per troppi anni ha subito il condizionamento ideologico del liberismo, dell’idea che la globalizzazione capitalistica fosse un dato ineluttabile e in fin dei conti benefico. Quando Fiat, o i vertici di Alcoa o la famiglia Riva – che hanno ricevuto varie forme di sostegno statale – hanno minacciato di abbandonare l’Italia e investire all’estero, Berlusconi e Monti hanno dato loro man forte sostenendo che un’impresa privata deve esser lasciata libera di trasferirsi dove meglio crede. Non mi risulta che da sinistra si siano levate molte critiche verso questa indiscriminata libertà di spostamento dei capitali.
Molti però mettono in guardia: il protezionismo, dicono, può provocare danni economici, pericolosi nazionalismi e persino guerre.
È un convincimento tanto diffuso quanto privo di evidenze. Il premio Nobel per l’economia Paul Samuelson, che non era un protezionista, ci ha spiegato che in presenza di disoccupazione il libero scambio crea problemi, non certo vantaggi. E l’economista di Harvard Dani Rodrik ci ricorda che negli anni Cinquanta e Sessanta sussistevano numerosi controlli sui movimenti di capitali e di merci, eppure lo sviluppo, l’occupazione e la distribuzione del reddito erano molto migliori di oggi, anche perché quei controlli permettevano ai singoli stati di perseguire obiettivi interni, occupazionali e distributivi. Si potrebbe anche ricordare che la massima liberalizzazione dei movimenti internazionali dei capitali fu raggiunta esattamente alla vigilia della prima guerra mondiale. È dunque proprio un incondizionato liberoscambismo, soprattutto in tempi di gravissima crisi economica, che rischia di alimentare le peggiori pulsioni nazionaliste .
Lei arriva anche ad argomentare che una minaccia ‘neo-protezionista’ da parte dei paesi del Sud Europa potrebbe contribuire a salvare l’unità europea. Ci spiega meglio quest’idea che suona un po’ paradossale? L’Europa può ritrovare coesione interna solo se mette un freno alla competizione salariale al ribasso e attiva un “motore interno” dello sviluppo economico e sociale. Per adesso, tuttavia, ci stiamo muovendo in direzione contraria. La Germania ha imposto ai paesi periferici dellazona euro una ricetta a base di depressione, disoccupazione e fallimenti aziendali.
La stessa Banca centrale europea segue questa linea: è disposta a difendere i paesi periferici dalla speculazione solo a condizione che questi comprimano ulteriormente la spesa pubblica e il costo del lavoro e si dispongano a vendere i capitali nazionali, incluse le banche. Questa violenta ristrutturazione a guida tedesca trasformerà vaste aree del Sud Europa in deserti produttivi, destinati solo a fornire manodopera a buon mercato alle aree più forti. I gruppi d’interesse prevalenti in Germania sanno che questi processi potrebbero scatenare tensioni tali da indurre i paesi del Sud ad abbandonare l’euro, ma questa eventualità non basta a spaventarli. L’unica vera paura dei tedeschi è che con la moneta unica salti anche il mercato unico europeo, sul quale si fonda la loro egemonia: cioè temono che i paesi del Sud introducano limiti alla libera circolazione dei capitali e delle merci in Europa. In Francia di questa opzione si discute da tempo ma il governo socialista non sembra disposto a esplicitare una minaccia protezionista.
In Italia, per evitare tentazioni, abbiamo addirittura messo un irriducibile liberoscambista ai vertici del governo. La crisi però avanza, i nodi verranno al pettine. E se la sinistra insiste con il suo liberoscambismo acritico, a scioglierli verranno chiamate forze completamente estranee alla tradizione del movimento dei lavoratori.

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