giovedì 25 ottobre 2012

Tringali: a chi conviene l’euro, la nostra grande rovina

Fabrizio Tringali
Debito pubblico, Berlusconi e la casta, la corruzione, la mafia? Aggravanti, ma non certo la causa della crisi, nonostante le chiacchiere di chi ripete che non saremmo “capaci di stare al pari con gli altri paesi dell’Europa migliori di noi”. Ormai, sostiene Fabrizio Tringali di “Alternativa”, anche l’opinione pubblica l’ha capito: l’origine della crisi, italiana ed europea, sta tutta nell’adozione della moneta unica, l’euro, che «ha unito economie molto diverse tra di loro». Così quelle più forti, Germania in primis, hanno finito per schiacciare quelle più deboli. Verità palese, ancorché negata, anche se «le criticità dell’unione monetaria europea erano assolutamente note già trent’anni fa». Nessun mistero: se la crisi finanziaria americana esplosa nel 2007-2008 era stata ben poco prevista, quella dell’euro era invece chiaramente segnalata sui radar degli economisti. In Italia, già durante il regno di Giulio Andreotti.
Era il lontano 1978, racconta Tringali in un video-intervento su “Byoblu” ripreso da “Megachip”, quando il ministro Filippo Pandolfi mise in guardia in Parlamento: l’Italia può entrare nello Sme, il nuovo sistema monetario europeo (antenato dell’euro) solo a certe condizioni: un paese meno competitivo come il nostro, gravato da un’inflazione strutturalmente più alta rispetto a quella della Germania, una volta stabilito un cambio fisso non avrebbe più potuto recuperare competitività, all’occorrenza, svalutando la lira, e quindi avrebbe dovuto inevitabilmente trasferire i necessari aggiustamenti nell’economia interna. Come? Svalutando i salari, cioè i redditi delle persone, frenando i consumi e quindi l’inflazione. «È esattamente quello che sta accadendo adesso: si sapeva perfettamente che lì si andava a parare», dice Tringali, stretto collaboratore di Giulietto Chiesa e autore, con Marino Badiale, del volume “La trappola dell’euro”, edito da Asterios.

Di cambi fissi tra le monete sovrane nazionali, ricorda Tringali, si iniziò a discutere già alla fine degli anni ‘70, archiviato il regime di Bretton Woods e quindi la parità dei cambi rispetto al dollaro e la convertibilità del dollaro con l’oro. In Europa, si cominciò a studiare un sistema che irrigidisse i cambi: in un’economia in via di globalizzazione, con libera circolazione di merci, capitali e servizi, chi detiene il capitale desidera la rigidità dei cambi proprio per poter investire là dove conviene di più, senza rischiare di rimetterci proprio a causa della fluttuazione del cambio delle valute. Dopo il primo esperimento del “Serpente monetario”, arrivò lo Sme. Il monocolore Dc guidato da Andreotti con l’appoggio esterno del Pci mise le mani avanti: servivano “paletti” per proteggere l’Italia dal divieto di svalutare la lira per restituire competitività al proprio export. Il 10 ottobre 1978, Pandolfi intervenne alla Camera: chiese di far precedere l’adesione allo Sme (cambio fisso della lira) con un regime di transizione meno rigido. Lo stesso Pandolfi chiese anche l’introduzione di regole speciali per garantire «un’equilibrata Filippo Pandolfidistribuzione degli oneri di aggiustamento tra paesi in disavanzo esterno e paesi in avanzo».
In un’unione monetaria, spiega Tringali, rappresenta una criticità il fatto che ci siano paesi strutturalmente in surplus, come la Germania, accanto a paesi strutturalmente in deficit: «Non ci sono da una parte i “virtuosi” e dall’altra i “cattivi”, sono entrambe criticità del sistema». Non siamo lontani dall’idea di Keynes del dopoguerra, rispetto a un sistema di cambi mondiali: cosa che non venne mai adottata, tantomeno in Europa. Difatti, già il vertice di Bruxelles, dicembre 1978, sancì la sconfitta della posizione italiana. Francia e soprattutto Germania, osserva Tringali, non accettarono meccanismi di aggiustamento automatico e condiviso degli squilibri tra le varie economie europee, limitandosi ad accordare all’Italia una banda di oscillazione più ampia rispetto a quella prevista dal sistema stesso. Lo Sme non era rigido come l’euro, tollerava fluttuazioni nei cambi. Ma proprio le rigidità introdotte dal Sistema Monetario Europeo portarono l’Italia alla drammatica crisi del 1992, e quindi all’uscita dallo Sme.
«Inizia così ad essere chiaro già all’epoca che i paesi forti dell’Europa non vogliono assolutamente meccanismi di solidarietà e di riequilibrio delle economie – spiega Tringali – perché questo gli consente di gestire meglio la loro condizione di forza e sostanzialmente di costringere i paesi più deboli ad adeguarsi, cioè ad adeguare le loro politiche economiche». Tant’è vero che la cosiddetta “virtù” della Germania in realtà non è altro che la capacità della Germania stessa di mantenere bassa l’inflazione. Come? Contenendo i salari e facendo una politica non espansiva, che in qualche modo deprime la domanda interna. «E questo è esattamente quello che poi è avvenuto nel periodo successivo all’introduzione dell’euro». Un mito da sfatare: «Tutti pensano che in Germania si sta molto meglio che in Italia, che tutti guadagnano più degli italiani. Non è affatto vero. La forza e la competitivitàAngela Merkeldella Germania è stata costruita sul contenimento dei salari. E la Germania, non a caso, è uno dei paesi europei meno sindacalizzati d’Europa».
Negli anni successivi all’euro, in Germania sono state realizzate le famose riforme strutturali, quelle che ora stanno cercando di imporre – sanguinosamente – anche in Italia: «Sono quelle che hanno flessibilizzato ulteriormente il lavoro, che hanno creato i mini-job: un terzo dei lavoratori tedeschi oggi guadagna 400 euro al mese». Riforme strutturali: le stesse che hanno diminuito le garanzie a sostegno dei lavoratori e dei contratti nazionali di lavoro. Ma perché, dopo lo Sme, arrivare addirittura all’euro, nonostante fosse ormai chiaro che mezza Europa – quella più debole – ci avrebbe rimesso le penne? «Per i paesi forti è chiaro: perché gli conveniva. Ma nei paesi deboli, alla fine, i ceti dirigenti hanno capito che il vincolo esterno dato dall’appartenenza all’euro, alla moneta unica, e poi anche all’Unione Europea, di fatto consentiva loro di fare quello che altrimenti non sarebbero riusciti a fare», sostiene Tringali. Ovvero: «L’introduzione della flessibilità così come è stata fatta in Italia, fino ad arrivare oggi alla messa in discussione dei contratti nazionali di lavoro, non si sarebbero potuti realizzare senza che il vincolo esterno del “ce lo chiede l’Europa” costringesse sostanzialmente tutti a considerare quelle scelte come “inevitabili”».
In realtà, quelle scelte antisociali non sono mai state inevitabili. Azzerarle ora è possibile: «La strada è quella dell’abbandono della moneta unica e anche dei vincoli europei». Sfortuna vuole che Bruxelles marci spedita in direzione opposta: verso un governo unico europeo che decida al 100% le politiche economiche degli Stati membri, come anticipato da provvedimenti-capestro come il Fiscal Compact, che prescrive il pareggio di bilancio e la fine sostanziale delle autonomie finanziarie nazionali in materia di spesa pubblica. «Il “più Europa” non è altro che l’idea di spogliare gli Stati nazionali della loro sovranità e demandare la sovranità nelle scelte di politica economica e sociale». Finanziaria, contratti di lavoro, politiche sociali, investimenti: tutto demandato “tecnicamente” a Bruxelles, ma (attualmente) senza il minimo controllo democratico, dato il super-potere della Commissione Europea, retta da tecnocrati non-eletti, bensì designati Gerhard Schroederformalmente dai paesi membri ma, in sostanza, dalle élite finanziarie e dalle multinazionali.
Secondo l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schroeder, Berlino accetterebbe l’elasticità dei meccanismi di compensazione se Bruxelles ottenesse la sovranità definitiva sull’Europa. Il motivo è intuitivo: comanderebbe anche ufficialmente il più forte, cioè la Germania, che a quel punto potrebbe imporre anche agli altri membri dell’Eurozona la sue politiche di deflazione. Problema: manovre così poderose richiederebbero come minimo un processo autenticamente condiviso, in modo democratico. Mission impossible: «Non esiste nessuna possibilità di democratizzare l’Unione Europea – dice Tringali – e  non esiste nessuna possibilità di costruire un governo democratico europeo». Non c’è esiste neppure un vero “popolo europeo”, di elettori autorizzati a scegliere il proprio governo federale: cosa che oggi non avviene, visto che i cittadini eleggono solo gli europarlamentari, mentre le poltrone che contano – quelle della Commissione – sono diretto appannaggio degli Stati e dei gruppi di potere ad essi collegati.
E poi non è solo questione di procedure: dalla Rivoluzione Francese in poi, continua Tringali, l’idea di democraziarappresentativa si fonda sul fatto che un qualunque governo, per essere qualificato come democratico, non deve solo rispondere a un Parlamento, ma anche all’opinione pubblica e alle forze sociali, sindacati e associazioni, liberamente costituite dai cittadini. Ed è esattamente quello che avviene in tutti gli Stati nazionali». Non a livello europeo, però, «perché i cittadini e i popoli europei sono divisi tra di loro». Per poter creare un’opinione pubblica e una vera comunità sociale europea servono almeno tre condizioni: una lingua comune, una significativa mescolanza delle popolazioni – l’incontro le la lenta fusione di tradizioni diversissime – e un sistema mediatico che assicuri l’accesso alla stessa informazione, fino a formare un’opinione pubblica europea. Senza queste Sergio Marchionnepre-condizioni, l’ipotetica formazione di un vero governo legittimo europeo (non all’orizzonte, peraltro) non avrebbe nulla di realmente democratico.
«Al sogno di una grande Europa democratica e unita, pacifica e solidale – afferma Tringali – si contrappone la dura realtà, il terribile incubo della maggiore unionepolitica all’interno dell’Unione Europea, che non può che trasformarsi, per questi motivi, in un super-Stato con poteri semi-assoluti, perché a questo punto potrebbero decidere quasi tutto, e rispetto al quale non vi è possibilità di un confronto con le forze sociali che nascono tra i cittadini e nella società». E perché mai lo si vuole realizzare, l’euro-mostro? Risposta facile: non per tutti sarebbe un incubo. Se la stragrande maggioranza dei cittadini perderebbe diritti duramente conquistati, i profitti del grande capitale industriale volerebbero alle stelle. Grazie anche al regime dei cambi fissi, figlio della globalizzazione: monete bloccate, volute proprio da chi intende proteggere il proprio business dalle fluttuazioni valutarie. Risultato: le economie nazionali “ingabbiate” dall’euro scatenano «una guerra al ribasso delle condizioni di lavoro», per ottenere «esattamente quello che serve alle classi dominanti per aumentare i margini di profitto».
Parla da solo il caso della Fiat di Marchionne: «Oggi devi accettare condizioni di lavoro impensabili fino a poco tempo fa, con la minaccia che altrimenti la produzione viene spostata in Serbia». Poi ovviamente a Belgrado avviene la stessa cosa: lavoro quasi schiavistico, sotto la minaccia di trasferire le fabbriche in Cina o chissà dove.  E’ la globalizzazione: ci sarà sempre un paese dove il lavoro costa meno, e dove quindi il profitto cresce. A condizione, ovviamente, che i capitali possano circolare liberamente, e senza il rischio della fluttuazione dei cambi. Questo vale per le grandi industrie, dice Tringali, mentre la piccola e media impresa – cuore dell’economia italiana – sta cominciando a capire, schierandosi contro l’euro. Se Montezemolo e Marchionne sono tifosi della Bce e della moneta unica, lo stesso presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, prova a smarcarsi dall’euro per salvaguardare i medio-piccoli, che arrancano e Giorgio Squinzisubiscono l’aggressione dell’imprenditoria tedesca, impegnata ad acquistare a prezzo di saldo le aziende italiane.
Un disastro, mascherato da un muro ideologico invalicabile: «Bisogna ammettere che sono stati bravi, chiunque di noi provi a ragionare sul rapporto costi-benefici dell’adesione all’euro e all’Unione Europea va a sbattere contro una barriera ideologica». Possibile uscire dall’euro? C’è chi teme una iper-svalutazione, il dilagare dell’inflazione: «Non potremmo più comprare le materie prime – protestano alcuni – e diventeremmo assolutamente incapaci di sopravvivere nel mondo con la nostra “liretta”». Errore: non essendovi correlazione diretta tra svalutazione e inflazione, secondo l’economista Alberto Bagnai il deprezzamento della lira post-euro sarebbe commisurato con la perdita di competitività che si è avuta rispetto alla differenza dei tassi di inflazione tra la Germania e l’Italia nel periodo dell’euro. In sintesi: una svalutazione intorno al 20%. Quando l’Italia uscì dallo Sme, subì una svalutazione iniziale del 7% ma l’inflazione, anziché esplodere, diminuì. E una svalutazione relativamente contenuta, aggiunge Alberto AlesinaTringali, non ci impedirà assolutamente di acquistare energia e materie prime vitali.
Altra demonizzazione ideologica fabbricata dall’élite egemone, lo spettro dell’inflazione: in eccesso può essere distruttiva, ma mai quanto l’aumento dei prezzi se i salari restano bloccati. Oggi l’inflazione italiana oscilla fra il 3 e il 4,5%, ma gli stipendi non crescono o addirittura diminuiscono: perdiamo potere d’acquisto e, grazie all’euro, siamo sempre più poveri. «Se hai un’inflazione del 7-8% ma il tuo salario aumenta di quel tanto o anche un po’ di più, tu aumenti il tuo potere di acquisto e sei più ricco». L’inflazione, poi, è una boccata d’ossigeno in caso di debiti e mutui: se il salario aumenta in base all’inflazione, le rate restano bloccate rispetto alla cifra iniziale pattuita. Senza contare il maxi-debito dello Stato. Domanda retorica: «Per un paese che ha un alto debito pubblico, un po’ di inflazione sarebbe un bene o un male?». Peccato che in Europa nessuno ragioni così: si pretende che l’Unione Europea sia intangibile. Una sorta di tabù, che incombe sul destino di tutti. Ad aprire gli occhi, ora, provvede l’emergenza della crisi: il problema si chiama euro, creatura di una costruzione giuridica – l’Unione Europea – che non ha niente a che fare con lademocrazia.

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