domenica 22 luglio 2018

Studio. Repertorio ragionato sul “reddito sociale minimo” su Proteo, dal 1998 ad oggi.

PREMESSA. Tracciare un repertorio sul reddito sociale minimo significa riprendere le fila di un ragionamento che nell’ultimo ventennio ha visto il Cestes ed USB (prima Rdb) in primo piano nell’impostazione teorica e pratica di una battaglia politica, sociale e culturale strettamente legata alla fase della accumulazione flessibile. 

Le pagine che seguono (da leggere in parallelo a quelle dell’altra rassegna  presentata sul sito del Cestes, quella sul tema delle privatizzazioni) saranno un percorso per condurre al dibattito attuale, in cui la questione del reddito è riesplosa in forme spesso distorte (come potrete leggere nell’Appendice sulla proposta del M5S), ma che segnano comunque l’urgenza di una discussione approfondita ed in grado di rispondere agli stimoli che il nostro blocco sociale di riferimento ci lancia. Resta utile, per chi voglia approfondire ulteriormente, andare a leggere gli articoli integrali nelle pagine on line di Proteo (www.proteo.usb.it), a testimonianza di una lunga elaborazione; è per questo che la rassegna mantiene un ordine cronologico ed un riferimento puntuale ai testi da cui trae spunto.
Fin dalla prima annata della nostra rivista il tema è ben presente all’interno dell’elaborazione. Il primo articolo sul reddito sociale minimo (da ora RSM) compare sul n° 2 di «Proteo» nel 1998. Il titolo è Economia marginale del Mezzogiorno e Reddito Sociale Minimo e l’autore è Luciano Vasapollo. Esso è frutto di un intervento presentato in convegni e assemblee delle Rappresentanze Sindacali di Base (RdB) e di altre strutture dell’associazionismo e del sindacalismo di base.

Nell’articolo ci si concentra sul fatto che le fasi dello sviluppo economico del nostro Paese e la via italiana al neoliberismo incentivata dal trattato di Maastricht e dalle politiche del governo dell’Ulivo  hanno creato una crescente differenziazione territoriale e sociale fra Nord e Sud. Il risultato viene individuato dall’autore nell’aumento della disoccupazione strutturale, della precarizzazione della vita e dello sfruttamento. Invece nel Nord continua a svilupparsi quell’industria moderna affiancata da un terziario avanzato ad alto contenuto di risorse immateriali, caratterizzando così le regioni settentrionali in una maggiormente dinamica e diversa collocazione economico-produttiva e socio-culturale. Questa descrizione parla al nostro presente, perchè in grado di leggere le tendenze profonde che oggi esplodono nella frattura profonda che anche l’ultima tornata elettorale ha evidenziato. Essa rimanda anche ad una lettura del rapporto Nord-Sud non intesa in senso antropologico o di folklore, ma come una delle faglie in cui si incunea, a livello mondiale, il conflitto capitale-lavoro oggi, sia a livello nazionale che soprattutto a livello internazionale, e certamente nella dinamica di costruzione dell’Unione Europea. Nell’articolo, al di là degli aspetti specifici, emerge per noi l’indicazione politica generale: redistribuzione degli incrementi di produttività che si sono realizzati in particolare negli ultimi due decenni, rivendicando da subito una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario reale, ponendo le basi per creare nuova occupazione a partire da lavori a compatibilità sociale e ambientale e di pubblica utilità con pieni diritti e piena retribuzione, rafforzando nel contempo il Welfare State tramite incrementi delle entrate del bilancio pubblico determinate dalla tassazione dei capitali, in modo da poter inserire nella spesa sociale anche un Reddito Sociale Minimo europeo da distribuire ai disoccupati, ai precari, ai marginali. In questo senso andava anche la legge di iniziativa popolare promossa dal CESTES, fondata sulla riduzione generalizzata dell’orario di lavoro sull’intero arco di vita del lavoratore a parità di salario e con controllo dei ritmi e della condensazione del lavoro, ragionando su produzioni non mercantili e sulla ridefinizione di uno Stato occupatore. Oggi la questione della riduzione generalizzata dell’orario del lavoro, fa il paio con la straordinaria crescita della produttività del lavoro, con la cosiddetta Industria 4.0, con la ormai evidente contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive, ed i rapporti di lavoro che continuano ad incatenare in un mondo di sfruttamento, precarietà, disagio, la possibilità di un modello produttivo diverso. Per questo la battaglia per il reddito resta una battaglia tutta politica e di prospettiva e non ovviamente il ricorso ad un palliativo rispetto alla crisi sociale diffusa.
Nello stesso numero della rivista è spiegata accuratamente la ratio della legge promossa dal CESTES e la sua diversità dalle altre ipotesi che si basano o sul carattere assistenzialistico e pietistico o impongono clausole di accesso al reddito confermando le differenze di classe nel nostro paese: l’ipotesi di reddito o salario ai disoccupati è concepita come una prospettiva di lotta contro le piaghe della inoccupazione, della precarietà e del lavoro nero. Tale reddito dovrà consistere in una parte monetizzata che sarà concessa direttamente ai disoccupati e a tutti coloro che percepiscono bassi salari (lavoratori precari, part time etc.), ed in una parte concessa indirettamente attraverso una concessione della gratuità delle tariffe e servizi sociali (sanità, trasporti, casa, cultura etc.). Una misura di questo tipo si fa sempre più necessaria anche a fronte dell’introduzione di nuova e più avanzata tecnologia nei processi produttivi, e nella ormai diffusa tendenza nel delocalizzare la produzione in paesi terzi, dove la manodopera ha un più basso costo.
Nel numero successivo della rivista (3, 1998) si può trovare un articolo intitolato Unire disoccupati e precari contro le compatibilità che descrive i risultati di una vera a propria “inchiesta sul campo”  avvenuta durante la raccolta firme per la presentazione della proposta di legge. Si evince che, paradossalmente, in una fase di attacco alle condizioni di vita della classe, il reddito pare una proposta troppo avanzata e le argomentazioni più ricorrenti a sfavore erano al tempo le seguenti: il pericolo dell’assistenzialismo, dell’adeguarsi-adagiarsi ad un reddito assicurato e del dove eventualmente prendere i soldi per finanziare il Reddito Sociale Minimo. Occorre chiarire che la proposta del Reddito portata avanti dal CESTES non mirava ad introdurre elementi di assistenzialismo ma a contrapporre alcuni limiti alla flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro. È anche opportuno fare un richiamo ad una questione che deve essere bene intesa, per potere comprendere appieno il ragionamento che stiamo cercando di fare: i processi di velocizzazione determinano una accelerazione potente delle dinamiche economiche, sociali e politiche. Se lo sfondo della fase storica è quello della distruzione dello Stato sociale, quello della fase politica è che oggi questi processi non avvengono nella sostanziale approvazione degli attori sociali, ma  si inseriscono in una gigantesca crisi di egemonia che come sua prima vittima  ha proprio quelle ipotesi di “centrosinistra” che storicamente hanno gestito la privatizzazione dello Stato, con la complicità evidente di Rifondazione Comunista. Questo soggetto, tra la fine degli anni ’90 e gli inizi del nuovo millennio, era ancora una forza organizzata di una certa consistenza, del tutto inadeguata politicamente, ma in grado comunque di incanalare elettoralmente una parte importante del mondo della “sinistra”, quello stesso mondo oggi uscito a pezzi dalla competizione elettorale.
Per tornare sull’argomento è Nicola Galloni. In Flessibilità, occupazione e reddito sociale minimo, in «Proteo» 1999-2, a sostenere che lo scambio tra flessibilità e occupazione non abbia funzionato per nulla. I livelli della disoccupazione permangono, infatti, incredibilmente alti, mentre esistono beni e servizi che la popolazione domanda, ma che non vengono concessi. Come soluzione a questa situazione Galloni propone quella sostenuta da Martufi e Vasapollo nel loro libro Profit State, redistribuzione della accumulazione e reddito sociale minimo (La Città del Sole, Roma 1999), opera a cui deve tornare chiunque voglia cercare le basi teoriche del ragionamento che si regge l’intero numero di questa rivista; nel testo i due autori fanno il punto della situazione distinguendo tra i due tipi di misure di sostegno del reddito: 1) un dividendo che spetterebbe a TUTTI i cittadini – in determinate condizioni socio-economiche o meno – in quanto tali consentendo loro di scegliere tra il “non lavoro”, la valorizzazione del tempo libero, l’impiego di sé stessi in attività produttive a qualunque condizione di flessibilità; 2) un’integrazione retributiva comunque capace di contribuire alla definizione di un “reddito minimo” che costituisca un limite alla flessibilizzazione selvaggia così da consentire la piena occupazione. Comunque sia, appare evidente in tutta Europa che le risposte efficaci alla disoccupazione, alla precarizzazione e alla povertà di massa impongono una riflessione più matura sul ruolo dello Stato, la redistribuzione della ricchezza prodotta e la definizione di un reddito minimo collegato o alla mera esigenza di sostenere il livello della domanda oppure alla risposta dei bisogni di cura delle persone e dell’ambiente a condizioni economiche possibili.
Nell’articolo di Andrea Fumagalli intitolato Sul Reddito di cittadinanza, in Proteo 1999-2, si dava spazio ad una prospettiva sul reddito non certo assimilabile a quella del Cestes (valgano anche qui i richiami al contesto, di cui sopra), come emergeva chiaramente d’altra parte nella messa a confronto di tre testi (Tute bianche: disoccupazione di massa e reddito di cittadinanzaa cura di A. Fumagalli e M. Lazzarato, Il salario sociale di G. Malabarba, e infine Profit State, redistribuzione dell’accumulazione e Reddito Sociale Minimo, di R. Martufi e L. Vasapollo) che, in quel periodo, davano definitivamente l’avvio al dibattito sul reddito. La prima differenza fra i testi viene trovata nell’eccezione più generale del reddito di cittadinanza ossia nell’erogazione di una certa somma monetaria che, secondo Fumagalli e Lazzarato, deve essere universale e incondizionata, invece, nei testi di Malabarba e Martufi – Vasapollo, seppur con alcune differenze, vengono posti dei requisiti per accedervi come la condizione professionale o il reddito e, in ogni caso, il sostegno del reddito  è  considerato funzionale e temporaneo in attesa che venga comunque espletato il costituzionale diritto al lavoro, la vera rivendicazione rivoluzionaria sulle quale occorre puntare. Il reddito di cittadinanza è la forma più moderna di redistribuzione della ricchezza nell’attuale sistema e i campi nei quali reperire le sue risorse vengono individuati in un intervento sui guadagni di produttività e sulle transazioni finanziarie, aprendo così dirompenti contraddizioni all’interno della gerarchia economia. Inoltre, il “riformismo radicale” del reddito può avere il ruolo strumentale di ricomposizione sociale delle diverse soggettività del lavoro oggi divise e frammentate rompendo il disciplinamento sociale imposto dal ricatto del bisogno e dalla necessità del lavoro e aumentando il grado di contrattazione individuale degli individui.
Nel numero successivo, in Proteo 1999-3, nell’articolo di Elettra Deiana, Profit State e Reddito di cittadinanza, viene affrontata la questione di genere che, all’interno dei nuovi processi di accumulazione del capitale presenti nell’impresa postfordista, è considerata come una delle principali ragion d’essere dell’idea del reddito di cittadinanza. Infatti, la dimensione della riproduzione sociale in ambito domestico, il cosiddetto lavoro di cura e di accudimento, il poderoso concorso alle stesse condizioni della produzione che viene da questa sfera del lavoro, dall’immenso sommerso del lavoro femminile, non pagato per i 1/3, rivestono un ruolo di primo piano nell’accumulazione delle risorse primarie per l’accumulazione capitalistica totale dell’oggi. La tematica anticipa e in un certo senso preannuncia la  possibilità di aprire un intervento sulla questione del lavoro femminile di riproduzione sociale, che oggi a livello mondiale trova cittadinanza nel movimento Non una di meno, e che vede USB coinvolta in un ragionamento sulle forme attuali dello sfruttamento capitalistico e sulle forme concrete in cui questo si attua.
Una riflessione sulla disumana evoluzione del capitalismo è presente in Reddito Sociale Minimo e disumanizzazione del lavoro di Sergio Garavini in Proteo 1999-3. Le ragioni che sostengono la proposta del reddito sociale minimo si fondano sulla necessità di denunciare le nuove ingiustizie e di indicare obiettivi sociali che contrastino il crescere dell’ineguaglianza e l’impoverimento di parte decisiva della popolazione. Viene proposta una rivendicazione che non sia soltanto di carattere economico ma intervenga sui rapporti di forza e di potere fra imprese, che con l’aumento della tecnologizzazione assumono un potere imprenditoriale sempre più forte, e lavoratori che si trovano in un nuovo processo di disumanizzazione del lavoro e riduzione dei diritti nei contratti e nel welfare che minano la dignità e la libertà dei lavoratori che il movimento operaio aveva conquistato. In quest’ottica, la ristrutturazione del sistema di sfruttamento capitalistico nel contesto della globalizzazione e dell’aumento della tecnologizzazione delle imprese si fonda sullo smembramento della classe lavoratrice.  Il lavoratore non è più una persona e un cittadino ma è un’impresa che offre lavoro così che le aziende, grazie alle nuove tecnologie, assumono un potere imprenditoriale sempre più forte e concentrato. Quindi il potere del lavoratore non sta più nell’associarsi con altri per pretendere diritti e tutele ma soltanto nella qualità e nella appetibilità per la domanda delle prestazioni di lavoro che può vendere aumentando la competitività, le disuguaglianze, la precarietà e la flessibilità. Il commento si conclude focalizzandosi su come impostare un’azione pratica che si riproponga di affrontare nelle nuove condizioni il problema dei diritti dei lavoratori, dei lavoratori-impresa che tuttavia sono persone, cittadini, parte debole della società. Il che impone una nuova problematica contrattuale, giuridica e di cultura, sulla quale i promotori del reddito sociale minimo si devono interrogare.
Nello stesso numero di Proteo, viene illustrata dettagliatamente la proposta di legge di iniziativa popolare sull’istituzione del Reddito Sociale Minimo (rsm) presentata in parlamento il 7 Dicembre 1999. Prima di passare a riportare l’intero testo della legge, articolo per articolo vengono spiegate le ragioni politiche e sociali di questo tipo di proposta. Oggi, invece di un realtà in cui “ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro e alla protezione contro la disoccupazione”, come si legge nella dichiarazione dei diritti umani, la realtà è costituita dalla disoccupazione e dallo sfruttamento sempre maggiore dei lavoratori in un contesto di crescente finanziarizzazione economica e globalizzazione fondate su modelli economici neoliberisti. Si insiste su come la ristrutturazione capitalistica, soprattutto in Italia, ruoti intorno alla trasformazione del Welfare State in Profit State, lo Stato-impresa di modello neoliberista e che questi cambiamenti pongano le basi per la necessità di creare nuove soggettività di ricomposizione e aggregazione del mondo del lavoro, un sindacalismo conflittuale e territoriale che sappiano porre come cruciale il problema della redistribuzione della ricchezza. Come sicuramente è evidente a chi segua le evoluzioni della nostra organizzazione sindacale, sta qui in nuce ciò che poi diventerà la federazione del sociale (fds), a partire da queste intuizioni del Cestes e a partire dalla lettura di questo quadro di scomposizione forte, a cui non può che seguire una risposta di ricomposizione a livello di coscienza e di organizzazione. È a questo tipo di deriva neoliberista che si intende contrapporre l’istutuzione del Reddito Sociale Minimo: il lavoratore deve essere portatore di diritti e non essere “disponibile a tutto”, in un contesto di smantellamento dello Stato Sociale il rsm vuole essere uno strumento di protezione sociale che assicuri una situazione reddituale dignitosa anche in vista dell’entrata dell’Italia nell’Unione Europea e nell’Euro. È per questi motivi che il Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) e la rivista PROTEO, insieme all’Associazione Progetto Diritti, all’Unione Popolare e al Centro Sociale Intifada e a decine di sigle dell’associazionismo di base che hanno dato vita al Comitato Promotore Nazionale per il Reddito Sociale Minimo già in quegli anni, hanno lanciato una battaglia culturale, politica e sociale, che voleva avere dimensioni europee, a partire da una proposta di legge di iniziativa popolare che non può essere disgiunta dalla necessità di tassare i capitali speculativi e non e i movimenti di capitale all’estero. Si passa poi a descrivere la legge nel dettaglio e a calarla maggiormente nel contesto del nostro paese.
L’articolo La lunga marcia verso il reddito di Domenico de Simone in Proteo 2000-1 riprende il discorso già avviato con il congresso del 17 febbraio tenuto a Roma promosso dal CESTES sul reddito sociale minimo e sul reddito di cittadinanza. Proprio il CESTES, insieme al comitato per il reddito sociale minimo, ha raccolto le firme per una proposta di legge di iniziativa popolare che rilanciando un terreno concreto di lotta, tenga insieme le rivendicazioni di un reddito sociale minimo o di cittadinanza con una tassazione dei capitali finanziari.  L’ obiettivo finale rimane  il reddito di cittadinanza universale, tuttavia la vertenza sul reddito sociale minimo per i disoccupati può rappresentare  una tappa di un’azione di più ampio respiro. Queste tappe vengono riportate per avere un quadro storico dei passaggi, e dunque l’aspetto descrittivo cammina di pari passo con quello teorico generale che rimane l’obiettivo di questa rassegna.

Il numero di Proteo 2003-3, si apre con una lunga intervista a Luciano Vasapollo eseguita da Contropiano e Radio Città Aperta, ad un anno dal deposito in Parlamento di 63.000 firme per la legge di iniziativa popolare sull’istituzione del reddito sociale minimo (RSM).
Si incomincia parlando delle differenze fra la proposta nebulosa e puramente assistenzialistica di un ”qualche riconoscimento di salario per disoccupati”(abbozzata dall’allora partito dell’Ulivo di Rutelli e tutta orientata verso politiche neoliberiste), quella di proposta di legge sulla “retribuzione sociale minima” (proposta da Rifondazione Comunista) e la proposta del reddito sociale minimo.
La seconda di queste proposte sembra apparentemente simile a quella dell’RSM, ma alcune aggiunte la rendono molto diversa in quanto a contenuti, metodo e di conseguenza terrreno politico di azione. La proposta del RSM parte da un’analisi dalla situazione di disoccupazione strutturale che la ristrutturazione del modo di produzione capitalistico ha portato con sé, espellendo o mettendo ai margini della produzione nuove figure professionali, escludendole dalla ricchezza sociale prodotta. Questi soggetti non sono solo i disoccupati, ma anche i precari, i lavoratori intermittenti, i lavoratori autonomi di ultima generazione, i parasubordinati e i pensionati al minimo che, in quanto vittime di una crisi strutturale, non troveranno certamente una risposta in trentasei mesi di corresponsione della retribuzione sociale, costretti ad accettare qualunque tipo di impiego anche al ribasso(come prevede la proposta del PRC). 
Questo errore di metedo e di analisi è ancora più evidente se si guarda agli articoli 9,10 e 11 della proposta di legge del PRC, nei quali si prevedono incentivi per le imprese, per l’imprenditoria autonoma e cooperativa, forme di lavoro minimo garantito e forme assunzionali part-time che incentivano la logica di flessibilità e precarizzazione del lavoro. Peraltro, si può dire con il senno di poi, per molti aspetti pericolosamente vicina a quella che sarà la proposta sul reddito del M5S, cosa che rimanda chiaramente alla deriva ideologica che ha caratterizzato la storia del PRC.
Non vanno offerti nuovi incentivi alle imprese ma bisogna immediatamente rivendicare una battaglia autonoma di redistribuizione della ricchezza sociale prodotta dai lavoratori, attraverso una riduzione dell’orario di lavoro in tutti i settori, su base settimanale con un controllo dei ritmi e degli straordinari, in modo tale da creare realmente nuovi posti di lavoro attraverso la redistribuzione dell’attuale carico di lavoro.

Nel numero 2003-1 di Proteo si inizia a parlare di un tema che troverà ampio sviluppo nel numero successivo: l’approvazione della legge sul reddito sociale di cittadinanza della regione Campania  Nel numero di Proteo 2003-2/3 si prende in considerazione l’applicazione locale di una proposta che ha comunque sempre avuto come prospettiva quella nazionale.
Considerando che le competenze in capo alle regioni sono tali da determinare diversi modelli di vita per i cittadini di diverse regioni e che si va in una direzione in cui le politiche sociali e di welfare dovranno articolarsi anche su base regionale, il terreno regionale assume un’importanza inconsueta.
È naturale che una Regione, da sola, non potrà mai sostituirsi alle politiche nazionale e non è certo questo l’obiettivo. È vero però che nulla impedisce ad una Regione di sperimentare politiche più avanzate e di stampo opposto a quelle nazionali.  Tale sperimentazione, per quanto possa trovare dei limiti (soprattutto riguardanti la disponibilità fiscale) è però una sperimentazione necessaria che può aprire la strada ad altre lotte più avanzate.

Qui di seguito il link per una consultazione più completa del testo della Regione Campania: Il reddito sociale di cittadinanza della Regione Campania: dall’idea alla pratica:  http://www.proteo.rdbcub.it/article.php3?id_article=249

Sulla legge approvata in Campania ritornano gli autori di due articoli del successivo numero di Proteo, nello specifico Francesco Maranta in Il reddito di cittadinanza  regionale. Luci e ombre in Proteo 2004-2 e  Dario Stefano dell’Aquila Disuguaglianza o povertà? Analisi, limiti e prospettive del reddito di cittadinanza regionale.  Vengono qui mostrate da una parte il lungo iter che ha portato al progressivo miglioramento della proposta, dall’altro i limiti strutturali della stessa.
Come spiega Francesco Maranta, il lavoro dei movimenti  popolari e i comitati per il reddito, nello scontro con le forze istituzionali non è stato semplice ma ha permesso di rendere questa legge davvero innovativa:  dall’inclusione degli immigrati fra i beneficiari (segno di una precisa idea di cittadinanza e appartenenza a una comunità), all’ampliamento dell’erogazione monetaria (da 300 a 350 euro), fino all’inclusione degli interventi extramonetari (come gli abbonamenti per i trasporti, l’accesso ai beni e alle manifestazioni culturali, il sostegno alle spese per i fitti) che consentono ad ogni individuo la partecipazione alla vita sociale, civile e politica.
 L’articolo di dell’Acqua, dopo aver inserito il reddito di cittadinanza della Regione Campania in quella tradizione di misure di contrasto alla povertà ispirate al reddito minimo di inserimento, passa a indicarne le criticità. Le più evidenti riguardano il reperimento delle risorse (ci si scontra insomma con i limiti dell’auotonomia federalistica, dove le regioni più bisognose, proprio in quanto tali dispongono di minori risorse per contrastare le proprie povertà), l’ obbligo di dover ragionare su base familiare e non considerare il reddito un diritto che spetterebbe a ciascun individuo e ovviamente la fragilità del sistema amministrativo che dovrà attuare il provvedimento (cioè i comuni).
Nonostante ciò la legge mostra delle potenzialità ma nell’attuale contesto politico-economico, rimarrà sempre incompleta, approssimativa e insufficiente a combattere disuguaglianza o povertà.

Due articoli di Vincenzo Bellini intitolati Reddito Sociale Minimo: una riflessione sulla prospettiva e Il Reddito Sociale Minimo: ieri e oggi, nei numeri 2 e 3 del 2004 di Proteo, partono dalle caratteristiche internazionali, economiche, politiche e sociali, entro cui la proposta del Reddito Sociale è nata ed è andata avanti. L’autore parte da un confronto fra Unione Europea e Stati Uniti, entrambi investiti da politiche neoliberiste per concentrarsi poi sulle trasformazioni del mondo del lavoro in ambito europeo e sulle conseguenze sulla classe lavoratrice. Di fronte a un impoverimento sempre maggiore, alla cancellazione dei diritti sociali, al ritirarsi dello ruolo dell’assistenza pubblica a vantaggio di prestazioni private, le risposte che sono state date da parte del mondo istituzionali e dei sindacati concertativi sono state inadeguate, se non compiacenti a una politica di sacrifici, compatibilità e moderazione salariale, subordinazione alle strategie aziendali dettate dal padronato.
Viene quindi rilanciata l’esigenza di costruire un movimento che si batta per un rifiuto del lavoro precario e che si doti di un mezzo, come appunto quello del RSM capace di  abbassare  qui e ora il ricatto del lavoro e il conseguente sfruttamento che si subisce ogni giorno.
Nell’articolo intitolato Cooperative sociali e precarietà: una risposta nel reddito sociale. Miti e degenerazione del lavoro in cooperativa, di Luigi Marinelli in Proteo 2004-3, si dà uno spaccato del mondo delle cooperative sociali e di tutti quegli operatori che, in gran parte su commesse pubbliche, si occupano dell’assistenza ad anziani e disabili, di disagio sociale, di integrazione scolastica e di molto altro ancora.
Andando a demolire una certa narrazione sostenuta da una parte della sinistra e del movimento, che vede ancora le cooperative e il no-profit in generale come la soluzione per conservare, se non addirittura migliorare, i livelli di assistenza socio-sanitaria, l’autore dimostra quale sia il vero delle cooperative, grandi e piccole. La realtà, le inchieste hanno negli anni che ci separano da questo articolo, dato ragione a Marinelli e al Cestes sulla vera natura del sistema delle cooperative, oggi uno dei luoghi di lavoro a più alta intensità di sfruttamento e di presenza di forme di vero e proprio caporalato. Negli anni infatti le cooperative sono diventate dei veri e propri laboratori di flessibilità e ipersfruttamento grazie alle caratteristiche di estrema disponibilità della formula cooperativistica. L’affidamento dei servizi pubblici alle cooperative sociali permette sia un minore costo del personale sia una maggior flessibilità nella gestione dell’organizzazione del lavoro, soprattutto vista la possibilità, se necessario, di dequalificare, ridurre o chiudere servizi e interventi con minori resistenze e difficoltà. Data le caratteristiche del settore, che renderebbero estremamente parziali le classiche vertenze, viene anche in questo caso rivendicato il diritto ad un reddito diretto (che si rifiuti di essere un sussidio di povertà) e indiretto per tutti rilanciando lo Stato sociale.

L’articolo in Proteo 2004-3 intitolato Il Sud impone un’inversione di tendenza: il Reddito Sociale Minimo, scritto da Sabino de Razza, mette in luce diverse lotte popolari e operaie che hanno, in qualche modo, segnato una inversione di tendenza straordinaria rispetto ad un quadro sociale e politico sempre descritto come stagnante e immobile.
Quello che emerge da queste lotte non è un Mezzogiorno che chiede assistenzialismo, bensì la richiesta di nuovo modello di sviluppo, di una diversa qualità della vita e del lavoro, nonché di diritti e reddito a fronte di una disoccupazione di massa. La sperimentazione del reddito sociale avviata in Campania, seppur con tutti i limiti e i tetti di spesa, è una parziale risposta all’impoverimento della gente; ma da sola non basta, va rilanciata una battaglia per un nuovo stato sociale che garantisca servizi gratuiti (scuola, trasposti, casa, ecc.) e una integrazione al reddito tale da garantire a tutti livelli esistenziali minimi e stabilità economica a fronte dell’enorme flessibilità del lavoro e dei salari.
In questo senso, la proposta di reddito sociale minimo è al momento l’unica proposta che risponde ai tantissimi disoccupati e lavoratori precari.

Nel numero successivo, 2005-1, si trova Il Reddito Sociale Minimo: una prospettiva nel conflitto capitale-lavoro, e l’autore è ancora Sabino de Razza; si parla della grande manifestazione nazionale del 6 novembre 2004, che si è tenuta a Roma e alla quale hanno partecipato oltre 50.000 persone: la questione del reddito sociale o reddito di cittadinanza ha mobilitato gran parte del movimento autorganizzato e antagonista e fatto “irruzione” nella agenda politica di quasi tutti partiti del centro sinistra.
La proposta è stata capace anche di unificare l’intero movimento che, con forme e pratiche diverse, si batte contro il carovita e l’impoverimento di vasti settori della società devastati dalle politiche liberiste e capitalistiche in atto. Si riflette poi sul ruolo decisivo che, in questo contesto, assume il sindacalismo di base. Esso, al contrario dei sindacati concertativi e di un centrosinistra votati alla accettazione delle logiche del neoliberismo e al moderatismo salariale, può essere la rappresentanza sindacale e politica a questo vasto movimento attivo o essere lo strumento per l’organizzazione e il collegamento delle varie vertenze, rivendicazioni e proposte, in un forte movimento nazionale e diffuso sul territorio.


Appendice – Reddito di Cittadinanza o reddito minimo garantito: perchè la proposta del Movimento Cinque Stelle pone così tante criticità

Prima di inserire questo nuovo tema è opportuno dire che la discussione sul RSM è continuata all’interno del Cestes e nelle pagine della rivista Proteo, anche qui come nel caso delle privatizzazioni, come tema di fondo presente  anche quando al centro dell’analisi vi erano temi come la costruzione europea, la storia del sindacalismo conflittuale, la nuova catena del valore, etc.
Certamente l’attualità politica ci impone un riferimento alla proposta che appartemente si inserisce nel solco di quanto detto finora, ma che in realtà proprio alla luce di quanto detto mostrerà tutte le sue contraddizioni, i suoi limiti, e la sostanziale distanza da quanto sosteniamo da anni.
La proposta di reddito di cittadinanza agitata dal Movimento Cinque Stelle in questa campagna elettorale è stata sicuramente uno dei focus principali su cui questa forza politica ha costruito il suo successo elettorale. Al di là delle fantasiose e surreali code di sfaticati giovani e meno giovani davanti ai centri per l’impiego che i media si sono divertiti a  descrivere, è bene entrare nel dettaglio e analizzare da dove parta questa proposta.
Dalle analisi del voto è facile notare come essa abbia fatto breccia in quella zona d’Italia più martoriata da politiche di abbandono sociale, precarietà e progressivo impoverimento delle famiglie che è il Mezzogiorno. Ciò non deve stupire: il Sud Italia più di una volta si è dimostrato attento a proposte e lotte che potessero prospettare un miglioramento delle condizioni. Si parte insomma da regioni che vivono una condizione oggettiva di impoverimento e disoccupazione di massa che cercano e hanno sempre cercato di riscattarsi. La natura della proposta dei pentastellati è però sensibilmente diversa rispetto alla proposta di reddito di cittadinanza della regione Campania del 2003, o alle lotte e al percorso portato avanti dai comitati per il reddito minimo sociale di cui abbiamo parlato finora. C’è infatti uno scollamento innegabile tra i propositi ideali e le proposte fattuali, cioè come questa forza politica intende attuare il progetto, dove immagina di reperire le risorse e a quali condizioni il reddito possa essere erogato.

Innanzitutto è necessario chiedersi: che tipo di reddito è quello promosso dal M5S. Stando alle parole più volte ribadite da Beppe Grillo:
L’inizio è un reddito di cittadinanza, ma il sogno è un reddito universale per tutti. Per tutti, mettere al centro l’individuo, togliere il salario, perché il lavoro salariato sta finendo. Non c’é più (…). Il rapporto deve cambiare. Metti al centro l’individuo e non il mercato del lavoro. Io ho un reddito, decido io se lavorare, quanto lavorare, come lavorare. Magari non faccio niente. Magari sarò un creativo”.
Ogni cittadino deve poter contare su un reddito minimo indispensabile per vivere dignitosamente, sul diritto alla casa, al riscaldamento, al cibo, all’istruzione, all’informazione: un reddito minimo utile ad ottenere un lavoro congruo, nel rispetto della formazione scolastica e delle competenze professionali acquisite”.
E ancora: “Altra esigenza, non meno importante delle precedenti, è quella di abbattere la condizione di schiavi moderni, cioè la condizione nella quale si trovano tanti individui, laureati e non, costretti ad accettare qualsiasi lavoro, sottopagato, precario, senza possibilità di crescita o, addirittura, senza un adeguato contratto”.
Questi principi si scontrano però quando si incomincia a parlare del sistema di erogazione. E qui viene fuori la prima grande verità: il reddito promesso dai pentastellati non è un reddito di cittadinanza (cioè un trasferimento incondizionato da parte dello Stato ai cittadini, a prescindere dalla loro posizione lavorativa ed economica), bensì un reddito minimo garantito vale a dire un trasferimento condizionato a  cui  hanno  diritto  solamente  i  cittadini  disoccupati  oppure  quegli occupati che percepiscono un salario inferiore ai 780 euro, per i quali si prevede un’integrazione al salario già percepito.
Quali sono questi condizionamenti?
Chi aspira al reddito di cittadinanza, in età non pensionabile superiore a 18 anni, è tenuto a iscriversi al Centro per l’impiego (…), ad accettare espressamente di essere avviato a corsi di formazione o riqualificazione professionale, o ad un progetto individuale di inserimento o reinserimento nel mondo del lavoro; a seguire il percorso di bilancio delle competenze previsto, nonché redigere, con il supporto dell’operatore addetto, il piano di azione individuale funzionale all’inserimento lavorativo”. “Deve intraprendere, entro sette giorni dall’iscrizione, percorsi di inserimento lavorativo; svolgere con continuità un’azione di ricerca attiva del lavoro (…), con la registrazione delle azioni intraprese anche attraverso l’utilizzo della pagina web personale”. Finché non trova lavoro, “l’azione documentata di ricerca attiva del lavoro non può essere inferiore a due ore giornaliere” . Tuttavia chi riceve il reddito e dopo un anno non ha ancora trovato occupazione è tenuto ad accettare un lavoro qualsiasi per non perdere il sussidio. O almeno il terzo che gli viene proposto.
Questa proposta non solo non prende in considerazione i problemi strutturali della disoccupazione, ma colpevolizza chi ne è è vittima costringendolo sia a registrare periodocamente i suoi fallimenti, sia ad accettare un qualunque tipo di lavoro, non importa se precario, senza tutele, mal retribuito o poco qualificato.
Si tratta di una forma di assistenzialismo temporaneo condizionato che schiaccia i richiedenti fra due morse di ricattabilità: quella dello Stato che potrebbe cessare di erogare il reddito e quella del datore di lavoro presso il quale, per evitare la prima morsa, si è costretti a lavorare.
È del tutto assente, in questa proposta, una prospettiva di classe e di ricomposizione di una soggettività; emblamatici sono sia la modalità di reperimento delle risorse che l’assenza della componente migrante nei soggetti aventi diritto.
Pensare di reperire le risorse attraverso la tassazione del gioco d’azzardo o i tagli delle auto blu, è riduttivo e in nome della ”legalità”, tanto cara ai Cinque Stelle, sposta il focus dell’individuazione del nemico che, nonostante non intendono chiamare con il suo nome, rimane, ad oggi, il grande capitale finanziario. Ci sembra molto più convincente in questo senso la proposta che era stata data dal Comitato per il Reddito Sociale Minimo riguardo all’istituzione di una Tobin tax e la prospettiva che quell’esperienza si è data: creare rete, dare forza e rappresentanza a una nuova soggettività che vive a un passo dalla povertà, a disoccupati, inoccupati, precari, pensionati al minimo, studenti, immigrati, il tutto prendendo atto delle cause dell’attuale situazione del mondo del lavoro (e del non lavoro) e avendo il coraggio di indicarne i responsabili. È certamente in questo spirito e con quest’ottica che questa rassegna ha cercato di attualizzare e riprendere una storia di elaborazione ventennale, per proporla al dibattito politico all’interno della nostra organizzazione.

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