Davvero ora “Atene respira” come è stato scritto? Purtroppo no. La verità è che la Troika non se ne andrà affatto dalla Grecia che continuerà ad essere un Paese commissariato, con un cappio al collo per decadi. Perché una vera ristrutturazione del debito non c’è stata. Tanto la sinistra quanto l’Europa dovrebbero imparare dalla vicenda greca senza raccontarsi favole rassicuranti.
|
Ma che piccola storia ignobile che mi tocca raccontare…
Atto primo - Dalla tigre greca alla crisi e al primo “salvataggio”
Vale la pena ricapitolare un po’ l’accaduto di questi dieci o
vent’anni. Com’è tradizionale per i paesi in ritardo, negli anni
dell’euro pre-crisi la piccola Grecia ha fondato la sua crescita
sull’indebitamento estero. Come abbiamo più volte spiegato (Cesaratto
2018), tassi di cambio fissi favoriscono i prestiti centro-periferia.
Così fu nel gold standard, così è stato nell’euro. Tale modello andava
benissimo alla mercantilista Germania (e alla Francia) che poteva così
disporre di un piccolo ma prezioso mercato per le proprie esportazioni
(e infatti la Merkel andava a braccetto con Karamanlis, il primo
ministro greco di centro-destra nel 2004-9). A differenza della Spagna,
dove era una bolla edilizia a guidare la crescita, in Grecia era
soprattutto la spesa pubblica ad assolvere a questo compito. La crisi da
indebitamento scoppia nel 2009-10, quando il socialista Papandreu
rivela il conti falsificati dalla precedente amministrazione in un
contesto minato dalla grande recessione.
I capitali stranieri cominciano a fuggire dai titoli di Stato
greci, e il paese è sull’orlo del default (in pratica impossibilitato a
collocare sul mercato a tassi accettabili nuovi titoli in sostituzione
di quelli in scadenza). Anche se non esattamente così, la lettrice
identifichi debito pubblico e debito estero, vale a dire supponga che
tutto il debito pubblico greco fosse detenuto da stranieri (del resto,
lo Stato funge da garante di ultima istanza anche sul debito estero
delle banche). Il soccorso allo Stato greco attraverso fondi prestati
bilateralmente dagli Stati dell’eurozona e dal FMI fu chiaramente un
salvataggio della banche francesi e tedesche. Queste ultime erano già
piene di titoli tossici americani e, così ci si giustificò, non
avrebbero retto all’urto di ulteriori perdite sul fronte greco
trascinando l’Europa in una (seconda) grave crisi finanziaria. Così il
FMI, nella parte a lui inusuale del buono, ingoiò il primo pacchetto di
aiuti (maggio 2010, dell’ordine di 110 miliardi di euro) chiaramente
destinato a un paese insolvente (vale a dire si stava gettando moneta
buona dietro quella cattiva).
Alla Grecia si inflisse un primo pacchetto di misure di austerità e
di “riforme strutturali” del tutto inutile a riportare il paese su un
qualche sentiero di sostenibilità. Solo una robusta ristrutturazione del
debito estero – vale a dire un taglio di una parte significativa e
dilazione del rimanente a tassi agevolati – avrebbe potuto operare in
questa direzione, pur mancando la componente essenziale della
svalutazione della moneta che tradizionalmente completa i pacchetti di
salvataggio marca FMI. La svalutazione aiuta infatti la ripresa della
competitività estera, alleviando il peso dell’austerità (cioè del taglio
della domanda interna) e agevolando il riaggiustamento delle partire
correnti - un paese indebitato deve realizzare un surplus esterno se
vuole lentamente restituire il debito estero. Senza svalutazione,
invece, tale riaggiustamento ricade tutto sulla contrazione della
domanda interna, sì da ridurre le importazioni, e sul taglio dei salari
nominali per riacquistare competitività. Questa è definita “svalutazione
interna”. Al contrario, tuttavia, di ciò che pensano gli economisti
piddini (e i loro accoliti della sinistra radicale e antagonista), la
svalutazione interna è più dolorosa di quella esterna perché richiede
massicce dosi di disoccupazione e riforme del mercato del lavoro sì da
far accettare ai lavoratori il taglio dei salari. Inoltre la deflazione
comporta il fallimento dei debitori (imprese e famiglie che vedono
diminuire le entrate a fronte dei mutui da pagare) e di conseguenza
delle banche (come ben sappiamo in Italia).
A fronte dell’evidente impossibilità della Grecia di far fronte
alla restituzione del debito estero e del suo servizio (pagamento degli
interessi), nel marzo 2012 viene approvato un secondo pacchetto di aiuti
(ordine 200 miliardi) accompagnato da un taglio del debito di circa 100
miliardi e da un “reprofiling” dei prestiti europei, la cui
restituzione viene differita di dieci anni (al 2023) a tassi più
accettabili. Il taglio colpisce però soprattutto i titoli detenuti dalle
banche greche e dai fondi pensionistici (comunque le banche tedesche e
francesi erano state messe al sicuro nel 2010). Sicché parte dei nuovi
prestiti (circa 50 miliardi) viene destinata a ricapitalizzare le banche
greche che sarebbero altrimenti fallite. Insomma il taglio del debito
fu in parte fittizio – a fronte del taglio di 50 miliardi di debito
pubblico, lo Stato greco si trovò con 50 miliardi di debito estero di
più – mentre il resto del taglio colpì le pensioni (quelle private). La
solita lista di misure di austerità (surplus di bilancio primari di mole
impossibile) e di “riforme” (tagli di diritti sociali, pensioni
pubbliche in primis) accompagnò il pacchetto.
Nel luglio 2015, dopo le drammatiche vicende che conosciamo, la
Troika accordò alla Grecia altri 80 miliardi, sì da consentirle la
restituzione dei prestiti FMI in scadenza, allungando la lista di tagli e
“riforme”.
La verità è che la Grecia è impossibilitata a pagare il debito
estero, quindi è persino sbagliato dire che il periodo di grazia le dia
respiro. In verità proprio perché non può pagare, né ora né mai, avrà un
cappio al collo per decadi affinché viva delle sole proprie risorse.
Poi, certo, chissà come sarà il mondo nel 2033 ed oltre. Il debito
tedesco fu definitivamente liquidato, come da accordi stipulati nel
1953, dopo l’unificazione, quando era ormai noccioline per la Germania
(Cesaratto 2018, p. 65): ma possiamo aspettarci altrettanto per la
povera Grecia? L’attesa è che il debito greco serva a guadagnar tempo
all’Europa e diventi per essa “peanuts”, e venga perciò in parte
condonato senza proteste dell’elettorato. Ma questo non potrà accadere
prima del 2033, condannando il paese ad almeno 15 anni di austerità
fiscale.
Che morale trarre da questa vicenda. Alla luce di un inquadramento
storico di lungo periodo, la recente vicenda greca è quella di un
piccolo paese che per la quarta volta (almeno) in due secoli di
indipendenza è incorsa in un default sul debito estero, con conseguente
deflazione interna e perdita di sovranità (Reinhart e Trebesch 2015).
Una via nazionale allo sviluppo, senza indebitamento esterno, è
certamente possibile ma richiede una serie di fattori non presenti in
Grecia: istituzioni giuste (come una classe politica adeguata e
orientata allo sviluppo, e sufficienti livelli di istruzione); risorse
naturali (che in Grecia non vanno probabilmente molto oltre alle
bellezze naturali); aiuti esterni. Alcuni di questi fattori sono stati
per esempio presenti in alcuni paesi asiatici – dotati di un
“developmental State” (una borghesia nazionale che guida lo sviluppo
attraverso l’apparato pubblico), e oggetto di un particolare sostegno
esterno americano che ha anche aperto il mercato alle loro esportazioni.
Per contro la Grecia ha svolto nell’euro funzione di complemento al
mercantilismo tedesco che, attraverso forme di “vendor finance”, ne
finanziava la domanda per le proprie esportazioni.
Questa storia comporta per una sinistra pensante riflettere sui
fattori dello sviluppo economico, di domanda quanto di offerta. Per
l’Europa si tratta di pensare a politiche regionali di sviluppo più
incisive, una volta assunta la responsabilità, che non è solo greca, di
quanto accaduto. Già ma quale Europa? Cos’è l’Europa se non un consesso
di nazioni rivali e litigiose. Ma questo è il mondo, ci piaccia o no. E
se il mondo è brutto, è bene cercare di governarlo prendendone atto, e
ponendo la cura del proprio interesse come premessa al compromesso. La
sinistra vive, tuttavia, in un mondo parallelo in cui ci si raccontano
le favole di Esopo, ed è per questo destinata alla scomparsa in un mondo
di adulti.
Riferimenti
Malkoutzis, N. (2018) The tie that binds, http://www.macropolis.gr/?i=portal.en.the-agora.7177
Malkoutzis, N. (2018) About last night, http://www.macropolis.gr/?i=portal.en.the-agora.7177
Reinhart, C. M. and Trebesch, C. (2015), ‘The Pitfalls of External Dependence: Greece, 1829–2015’, NBER Working Paper no. 21664.
Roos, J. (2018) Why the debt deal with the EU is bad for Greece, https://www.aljazeera.com/indepth/opinion/debt-deal-eu-bad-greece-180624082950318.html
(1 luglio 2018)
Nessun commento:
Posta un commento