Completamente assimilabile e compatibile con il dogma dell’austerità
che ha soffocato l’Italia, il governo gialloverde ha adottato una
strategia di distrazione di massa tanto rozza quanto efficace:
riempiendo notiziari e televisioni con dichiarazioni ed atti ogni giorno più aberranti,
Salvini e compagnia sono riusciti a spostare l’attenzione dalla propria
incapacità e mancanza di volontà nel contrastare disoccupazione,
precarietà e compressione del potere d’acquisto della maggioranza della
popolazione. Deboli con i forti in Europa, sono forti solo con i deboli
abbandonati in mezzo al mare. Combattere le migrazioni chiudendo le frontiere,
nonostante sia chiaro che il problema in Italia è il contesto delle
politiche di austerità, è una scelta inequivocabilmente reazionaria,
indubbiamente di destra. In quanto tale va affrontata di petto e
combattuta, per quanto nello scenario attuale questa possa apparire una
battaglia difficile e con poche speranze di riuscita.
C’è tuttavia una maniera completamente
sbagliata di contrapporsi a questa deriva ed è incarnata alla perfezione
dalle prese di posizione di pezzi di establishment, scambiati dalle anime candide per alfieri dell’antirazzismo. Hanno fatto molto rumore, in particolare, recenti dichiarazioni
di Tito Boeri, presidente dell’INPS, secondo cui il mero calcolo
economico dovrebbe indurci a favorire l’accoglienza degli immigrati:
“Abbiamo bisogno dei migranti per finanziare il nostro sistema di
protezione sociale”. Proprio per fare opposizione in maniera efficace al
governo dei pagliacci, è fondamentale sgomberare il campo da possibili
equivoci: il governo gialloverde è inequivocabilmente il nemico, ma
Boeri non è e mai sarà nostro alleato. Vediamo perché.
Anche se, apparentemente, le
dichiarazioni di Boeri appaiono come un attacco ai provvedimenti di
Salvini e Toninelli, ciò non deve trarre in inganno su quale sia il suo
reale posizionamento di classe. Per scoprire ciò, è sufficiente leggere e
prendere sul serio quanto il presidente dell’INPS dichiara: gli
immigrati ci servono, perché contribuiscono alla sostenibilità
dei conti previdenziali italiani. Precisiamo innanzitutto che, declinato
in questi termini, il messaggio è di per sé fallace. In primo luogo
perché, opportunamente misurato, il bilancio dell’INPS è in attivo.
In secondo luogo perché il ragionamento di Boeri sembra presupporre che
la sostenibilità dei conti previdenziali italiani sia a prescindere in
pericolo, come per una qualche legge di natura, e non sia invece
minacciata delle misure di contenimento della spesa pubblica e dei tagli
effettuati in nome dell’austerità: l’austerità produce disoccupazione,
precarietà e lavoro nero, e sono questi fattori a causare minori
versamenti nella casse dell’INPS. Il ragionamento di Boeri, tuttavia,
non è solo errato, ma diventa aberrante nella misura in cui concepisce
gli immigrati come strumento di aggiustamento finanziario dei conti
pensionistici a costo zero: secondo quella visione, infatti, solo un
afflusso miracoloso di fondi dall’esterno dell’economia potrebbe salvare
il sistema pensionistico italiano. Ma come funziona, concretamente,
questo ruolo salvifico degli immigrati? Al riguardo, Boeri è estremamente e sfacciatamente chiaro:
i lavoratori stranieri pagano regolarmente contributi previdenziali e
pensionistici; tuttavia, in una rilevante proporzione, non rimarranno in
Italia a sufficienza per godere anche dei benefici pensionistici che ne
conseguirebbero. Detto altrimenti, pagano dei contributi per una
pensione che non riscuoteranno mai, perché torneranno prima o poi nel
loro Paese d’origine. Leggere per credere: “in molti casi i contributi degli immigrati non si traducono in pensioni … sin qui gli immigrati ci hanno ‘regalato’
circa un punto di Pil di contributi sociali a fronte dei quali non sono
state erogate delle pensioni. E ogni anno questi contributi a fondo perduto
(ovvero versati negli anni ma mai ritirati in forma di pensioni, ndr)
degli immigrati valgono circa 300 milioni di entrate aggiuntive per le
casse dell’Inps”. Detto ancora più chiaramente, Boeri sostiene che
la presenza del lavoratore straniero ci è utile perché ci permette di
sottrarre loro risorse finanziarie con cui pagare le nostre
pensioni. Siamo sulla frontiera dell’esaltazione del furto, e del furto
ai danni di chi occupa i gradini più bassi della scala sociale.
C’è un ulteriore argomento altrettanto sbagliato usato per contrastare la retorica salviniana: i lavoratori migranti ci servono,
perché svolgono tutta una serie di mansioni, magari umili e non
particolarmente gratificanti, grazie alle quali l’economia italiana può
andare avanti. La Repubblica sintetizzava questa posizione, in maniera involontariamente caricaturale: “Un’Italia
senza stranieri vedrebbe svuotarsi i cantieri edili e i campi,
perderebbe un terzo dei componenti delle squadre che puliscono gli
uffici, troverebbe chiusa una bancarella su due al mercato quando deve
andare a comprare frutta e verdura. In casa, dovrebbe salutare due
collaboratrici domestiche su tre e la metà di coloro che danno una mano a
prendersi cura dei propri familiari”. È una linea di
argomentazione che è stata fatta propria dallo stesso Boeri e, a prima
vista, può apparire ragionevole e virtuosa. Il sottotesto, che ha i suoi
fondamenti analitici nell’approccio cosiddetto neoclassico alla teoria
economica oggi dominante, è tuttavia un concentrato di classismo e
razzismo.
Partendo per gradi, secondo questa
visione dell’economia il livello di occupazione di un Paese dipende
dall’offerta di lavoro, ovverosia dalle condizioni a cui i lavoratori si
offrono sul mercato. Non importa quale sia il livello di domanda nel
Paese (cioè la somma di consumi, investimenti, spesa pubblica ed
esportazioni nette), ciò che conta è la disponibilità dei lavoratori a
lavorare al salario prevalente sul mercato. Alcune categorie di
lavoratori, in questo caso i migranti, avrebbero – non è chiaro se per
ragioni genetiche – inerentemente delle capacità lavorative adatte a
pulire i cessi o al massimo il sedere ai vecchi. Se sono fortunati,
possono aspirare a scaricare le cassette di frutta al mercato, ma nulla
di più. Seguendo l’approccio dominante all’economia, si giunge ad una
chiara conclusione in merito al ruolo dei lavoratori immigrati: se non
ci fossero loro ad offrirsi per queste posizioni, nessuno si
sporcherebbe le mani a fare questi lavori. Secondo questa logica, cosa
si può dire in merito ai salari ai quali questi lavoratori possono
aspirare? Ovviamente la distribuzione del reddito, seguendo questa
narrazione tossica, non è un fenomeno conflittuale, in cui classi
sociali opposte cercano di appropriarsi di una quota maggiore di reddito
in funzione del loro maggiore o minore potere contrattuale. Si
conclude, invece, che il contributo che queste categorie di lavoratori
danno all’accrescimento del valore aggiunto di un Paese è decisamente
minore rispetto a quello di un ‘normale’ lavoratore indigeno: sono meno
produttivi, lavoratori di serie b per natura, e per questa
ragione meritano un salario minore. D’altronde, ci dice l’economia
dominante, se gli immigrati contribuiscono di meno al benessere
collettivo, è anche giusto che prendano salari minori, o magari da fame
come gli schiavi che raccolgono i pomodori per pochi euro al giorno:
valgono poco.
La Repubblica e Boeri ci raccontano che
questo stato di cose è l’ideale, l’unico coerente con il funzionamento
ottimale dell’economia: partendo da questi presupposti, le posizioni
leghiste in tema di immigrazione sarebbero infondate in quanto
incompatibili con l’efficienza del sistema produttivo. Non ci vuole
molto, tuttavia, ad accorgersi che il becerume che propaganda Salvini e
l’apparente buonsenso di Repubblica e Boeri sono due facce della stessa
medaglia. Illegalizzare e colpevolizzare il migrante serve a renderlo
vulnerabile e ricattabile, pronto ad accettare condizioni lavorative
degradanti. Così facendo, ci raccontano i razzisti buoni, il migrante
contribuisce al prodotto interno lordo del Paese ed è complementare alle
capacità lavorative del bianco italiano, il quale si può dedicare a
lavori ‘veri’. Tutti insieme appassionatamente, ognuno secondo le sue
(presunte) capacità.
C’è poi anche una maniera giusta di combattere contro il governo Salvini-Di Maio,
in perfetta continuità con la battaglia contro quello Renzi-Minniti e
per questa ragione impossibile da rintracciare nelle posizioni di Boeri o
tra le pagine de La Repubblica. È incredibilmente complicata e, stanti
gli attuali rapporti di forza, con scarse probabilità di successo
immediato. Ciò non toglie che la ricerca di scorciatoie non è ammessa.
Se il problema è il liberismo, se il problema è l’austerità, se il
problema è lo sfruttamento, liberismo, austerità e sfruttamento sono gli
obiettivi da combattere. Se ci sono lavori di merda, con remunerazioni
miserabili, non si deve né gioire perché il lavoratore migrante li
svolge al posto nostro né colpevolizzare il lavoratore migrante perché,
così facendo, contribuirebbe ad una pressione al ribasso sui salari dei
bianchi. Se ci sono lavori di merda si combattono i datori di lavoro
che, su questi lavori e sullo sfruttamento, prosperano e si
arricchiscono. Se anche esistesse una supposta (ad oggi inesistente)
insostenibilità dei conti pensionistici, in ogni caso il problema si
affronta liberandosi del giogo dell’austerità e combattendo la
disoccupazione ed una distribuzione del reddito che favorisce unicamente
pochi privilegiati. Tutto questo è facile? No, è quasi impossibile. Ma
per quanto impervia sia, questa è l’unica strada disponibile per evitare
di tradurre la legittima rabbia sociale in una guerra tra poveri, a
tutto vantaggio della classe dominante.
In questa lotta Boeri, Salvini, Di Maio e
Repubblica staranno dalla stessa parte della barricata. Lavoratori e
disoccupati staranno dall’altra, indipendentemente dal colore della
pelle.
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