sabato 15 settembre 2018

Si scrive rete, si legge cambiamento: la rivoluzione tecnologica di Barcellona.

Intervista a Francesca Bria, 38enne italiana, assessora nella giunta Colau e grande esperta di democrazia digitale: “La tecnologia deve essere al servizio dei cittadini per ripensare il modello di città che resta un luogo chiave per sviluppare un'economia più circolare”. Autrice insieme a Evgeny Morozov del libro “Ripensare la smart city”, lavora per costruire modelli virtuosi di trasparenza, partecipazione e condivisione: “L'innovazione digitale non ha una traiettoria lineare ma abbiamo bisogno di alternative sostenibili”.



micromega Steven Forti
A dirigere l’assessorato di Tecnologia e Innovazione Digitale del Comune di Barcellona c’è un’italiana, Francesca Bria. Romana, trentottenne, docente all’Imperial College di Londra e consulente della Commissione Europea per lo sviluppo di internet e delle smart city, Bria è stata chiamata a Barcellona dalla sindaca Ada Colau per mettere al centro dell’agenda tecnologica il cittadino. È appena uscito il suo ultimo libro, “Ripensare la smart city” (Codice edizioni), scritto a quattro mani con Evgeny Morozov, uno degli intellettuali di riferimento in merito al dibattito sugli effetti sociali e politici dello sviluppo della tecnologia.

Che cosa significa mettere al centro dell’agenda tecnologica il cittadino?

Significa mettere in discussione il modello precedente di smart city. Da una parte, criticare l’idea di partire dalla tecnologia, ossia di pensare prima ai sensori, alla connettività e solo dopo pensare perché ne abbiamo bisogno, che tipo di problemi urbani ci risolve, chi li gestisce, chi è proprietario di cosa, come governiamo la tecnologia per implementare quali politiche. Dall’altra, significa criticare il fatto che la digitalizzazione è usata come volano per supportare delle politiche neoliberali di esternalizzazione dei servizi pubblici. Il modello precedente di smart city di Barcellona era stata essenzialmente promossa dalle grandi imprese tecnologiche americane, che hanno venduto una idea di città smart dove la tecnologia poteva essere una facile soluzione a qualsiasi tipo di problema, dalla povertà al cambiamento climatico, soprattutto in un momento di austerity e di politiche restrittive, in cui gli stati si ritrovavano con meno risorse. Dietro il mantra della smart city stavano in realtà privatizzando le infrastrutture critiche della città.

Come avete superato questa impostazione?

Prima di arrivare a Barcellona, nella mia esperienza a Nesta, la più importante Agenzia d’innovazione inglese ho lavorato molto sulla democrazia partecipativa e digitale e sulla riappropriazione della tecnologia a fini politici e sociali. Per cambiare il modello esistente di smart city bisogna dunque allineare la tecnologia alla politica della città. Nel caso di Barcellona le nostre priorità sono il diritto alla casa, la transizione energetica ed ecologica, la creazione di nuovi spazi pubblici per i cittadini, la democrazia partecipativa. Ossia ripensare la relazione tra i cittadini e le istituzioni. La questione chiave è dunque come allineare questa politica pubblica con la politica tecnologica, come fare in modo che la tecnologia, e la nuova rivoluzione industriale possano servire agli interessi collettivi. Abbiamo dunque co-creato in maniera partecipata insieme ai cittadini, alle imprese e all’ecosistema locale, Barcellona Città Digitale, un piano strategico per l’innovazione digitale della città che ripensa la tecnologia al servizio di una società più giusta e democratica.

In che modo?

Sono tre i pilastri principali su cui stiamo lavorando. Il primo è la trasformazione digitale, ossia trasformare il governo per renderlo più trasparente e aperto attraverso lo sviluppo di standard etici per quanto riguarda gli appalti e i contratti pubblici e la politica dei dati. Il secondo è l’innovazione digitale: puntare sulle imprese locali per sviluppare piattaforme collaborative per la gestione dei servizi e promuovere la manifattura digitale e la tecnologia 4.0 in città. Il terzo è l’empowerment: la democrazia e l’educazione digitale, oltre all’inclusione sociale con un focus molto forte sulla nuova occupazione e la questione di genere.

Come si può introdurre la tecnologia nel governo della città e rendere le istituzioni più aperte, partecipative e trasparenti?

Tutto il bilancio del Comune di Barcellona è pubblicato in open data: il cittadino può vedere come stiamo spendendo i soldi secondo le diverse voci di bilancio. Abbiamo poi un portale di partecipazione democratica, Decidim.Barcelona [Decidiamo.Barcellona] che è sviluppato in software libero con un codice etico che regola le forme della partecipazione. Ciò permette che i cittadini possano partecipare attivamente alla formulazione delle politiche e priorità del governo. Il 70% delle azioni di governo che stiamo mettendo in atto vengono da questo processo partecipativo gestito come ibrido online-offline attraverso il portale e assemblee partecipate nei quartieri. All’interno di Decidim.Barcelona tutti i cittadini possono poi monitorare come si stanno portando avanti le politiche. La trasparenza non è solo una questione formale, ma è una questione di fatto: servono gli strumenti per integrare l’intelligenza collettiva dei cittadini nei processi decisionali.

Quanto conta il passaggio all’open source software? E di cosa si tratta esattamente?

Stiamo migrando i sistemi informatici di Barcellona – software, hardware, servers e dati – verso sistemi aperti e standard tecnologici liberi, per riconquistare sovranità tecnologica. Si cerca così di evitare il “vendor lock-in”, ossia la dipendenza tecnologica da pochi fornitori che sono spesso multinazionali straniere e aprire il mercato delle gare pubbliche alle piccole imprese. Il Comune di Barcellona oggi investe oltre l’80% del bilancio tecnologico in software libero e soluzioni interoperabili. Questo permette di reinternalizzare competenze, funzioni e know-how per essere in grado di gestire i processi più critici, dalla contrattazione pubblica alla gestione del bilancio.

Come si ottiene la sovranità tecnologica?

Bisogna essere in grado di gestire le infrastrutture critiche del futuro – connettività, dati, intelligenza artificiale – e determinare la direzione del cambiamento tecnologico. Alcuni strumenti sono la migrazione all’open source, la trasformazione della contrattazione pubblica inserendo delle clausole che garantiscano non solo i diritti ambientali, del lavoro, di genere e sociali, ma anche clausole di sovranità tecnologica. Quando si parla quindi di sovranità tecnologica si parla dunque anche di sovranità economica e politica.

Ossia?

Tutti i servizi contrattati dal comune, come i trasporti, l’energia, la raccolta dei rifiuti o la mobilità, contengono anche una parte che si riferisce alla gestione della proprietà intellettuale, dell’informazione, dei dati che in molti casi rappresenta il vero valore aggiunto del servizio. Abbiamo inserito delle clausole di sovranità dei dati, per fare in modo che i dati rimangano di proprietà di tutti i cittadini, un bene comune al servizio dell’interesse generale. L’impresa che vince il contratto deve poi passare tutti i dati al comune in formato aperto. I dati sono diventati una vera e propria meta-utility, un’infrastruttura urbana come l’acqua, l’elettricità, le strade e l’aria che respiriamo. E deve essere di proprietà dei cittadini e non dei Big Tech. Questi dati li pubblichiamo poi nel portale di Barcelona Open Data, in formato aperto per renderli accessibili alla cittadinanza e alle piccole imprese che rispettando la privacy e la sicurezza possono poi utilizzarli per creare soluzioni a valore aggiunto. Il Comune di Barcellona ha 600km di fibra ottica di proprietà pubblica e una rete di sensori che si chiama Sentilo (https://connecta.bcn.cat) che raccoglie continuamente dati urbani. Stiamo gestendo questi dati pubblici di città per rispondere ai bisogni dei cittadini sulla mobilità, sulla transizione energetica, sulla raccolta dei rifiuti. Poi analizziamo i dati attraverso una piattaforma che si chiama CityOS (http://cityos.io) che ci permette di creare sistemi di intelligenza artificiale e modelli predittivi per una migliore pianificazione e gestione urbana.

Come può il cittadino sentirsi proprietario di questi dati e non pensare solo che i suoi dati invece che in mano a un’impresa privata sono in mano all’amministrazione comunale?

C’è bisogno di ridefinire un nuovo patto sociale sui dati nella società digitale. Siamo all’inizio della quarta rivoluzione industriale con la rapida robotizzazione dell’economia e l’automazione di molti settori economici tradizionali che creerà enormi ricchezze, ma distruggerà tanti lavori. Un patto sociale sui dati nella società digitale significa un patto sociale sulla nuova condizione di produzione e sulla distribuzione della ricchezza. Bisogna arginare lo strapotere dei Big Tech con policy a favore dell’equità fiscale, della privacy e della concorrenza. Ciò si può fare in maniera efficace solo a livello europeo, ma le città hanno un ruolo chiave perché il processo deve partire dal basso. La politica di Barcellona su questo è all’avanguardia. Ad esempio sui dati abbiamo approvato una delibera che considera i dati urbani un bene comune e un’infrastruttura pubblica, e in parallelo attraverso il progetto europeo DECODE (decodeproject.eu), finanziato dalla Commissione Europea, stiamo sviluppando un’infrastruttura pubblica decentralizzata basata sulla tecnologia cifrata blockchain che permette ai cittadini di controllare i propri dati.

E il cittadino dunque che cosa può fare?

Sono i cittadini che devono decidere quali dati vogliono tenere privati, quali dati condividere, con chi e a quali condizioni. Magari i dati sanitari li vogliamo condividere solo con i medici, ma non con le compagnie assicurative che potrebbe venderli a terzi e poi utilizzare le informazioni per discriminare l’accesso ad alcuni servizi. In Cina è già cosi, con il sistema dei crediti sociali, dove lo Stato profila i cittadini e poi gli dà un punteggio e stila una classifica in base al comportamento conforme alle regole dettate dal governo. Lo stesso fanno le piattaforme americane da Uber a Facebook che fanno un ranking privatizzato del comportamento di utenti e lavoratori. Queste classifiche costruite sulla base di regole e algoritmi definiti in maniera opaca dalle aziende servono poi a creare un sistema di fiducia e reputazione che viene poi usato anche per dare accesso al mutuo, sconfiggere le fake news o contrastare gli attacchi informatici. A mio avviso serve un’alternativa democratica che si basi su regole trasparenti ed etiche e che preservi i diritti collettivi. Questi sistemi che governano sempre di più le nostre vite in maniera algoritmica sono delle scatole nere in cui i dati vengono controllati da pochi, venduti a terzi e usati per fare profitti o per manipolazioni a fini elettorali, senza nessuna regola democratica.


C’è abbastanza coscienza da parte del cittadino su tutto ciò?

Sempre di più. Anche grazie alle rivelazioni di Snowden e al lavoro di Assange con Wikileaks o a scandali sempre più frequenti di manipolazione dei dati a fini politici come quello di Facebook e Cambridge Analytica, si è più coscienti del fatto che questo modello di capitalismo della sorveglianza, sempre più concentrato e che si finanzia attraverso la pubblicità e la commercializzazione dei dati personali, non funziona. E dunque c’è sempre di più la volontà di sviluppare modelli alternativi che si basano su regole democratiche e sul controllo pubblico. Le città hanno una scala adeguata per sperimentare alternative: una rete di città che sperimenta politiche di sovranità dei dati e di gestione democratica delle nuove infrastrutture digitali permette di avviare delle alternative concrete e pragmatiche.

Vede la sfida digitale come una maniera per modificare i rapporti all’interno dell’economia e della società?

Assolutamente. L’innovazione digitale non ha una traiettoria lineare e una direzione a senso unico. Non deve per forza generare più privatizzazione e concentrazione delle risorse dando vita a un mercato oligopolistico dominato da poche piattaforme digitali che evadono le tasse ed erodono i diritti dei cittadini e dei lavoratori. AirBnb, ad esempio, sta aumentando la gentrificazione entrando in conflitto con le politiche di accesso alla casa ed evadendo le leggi locali, mentre Uber sta tentando di prendersi il mercato dei trasporti precarizzando le condizioni di lavoro. Abbiamo bisogno di alternative sostenibili, sviluppate da imprese locali che rispettino gli standard di lavoro e ambientali. E che preservino i diritti dei cittadini. Le città sono un luogo chiave per sviluppare un’economia più sostenibile e circolare, scommettendo sul talento delle imprese che investono la ricchezza sul territorio. È per questo che stiamo anche potenziando l’industria 4.0, ossia la digitalizzazione del settore manifatturiero e abbiamo creato un nuovo incubatore di startup puntando su robotica e intelligenza artificiale.

Il Comune di Barcellona ha multato in due occasioni con 600mila euro AirBnb. Si è creato poi il progetto di FairBnb. Di cosa si tratta?

Stiamo lavorando in rete con le altre città per trovare le formule migliori per regolare le piattaforme digitali. Per farlo bene abbiamo bisogno che le grandi piattaforme condividano i dati e le informazioni con le città. Se non si conosce bene l’entità e la dimensione del problema non si può regolare bene, quindi avere acceso ai dati è una condizione necessaria per stabilire le regole del gioco. Poi stiamo dando supporto alle soluzioni locali. Fairbnb è una piattaforma cooperativa che vuole promuovere un modello di turismo più sostenibile. Lavorano con noi attraverso il progetto DECODE, in cui collaboriamo con la città di Amsterdam. Lo stiamo collegando con l’Osservatorio sulla Casa per fare in modo che le città si dotino di un registro digitale che deve essere usato da tutte le imprese, rendendo quindi pubblico il sistema di identità e autenticazione digitale e il sistema di reputazione connessi che ora sono solo appannaggio di poche imprese. Seguendo l’esempio di Parigi e Berlino stiamo anche creando un indice dei prezzi degli affitti per fermarne l’aumento incontrollato.

Il terzo pilastro della vostra Agenda Digitale è l’empowerment.

Sì, la democrazia digitale e il futuro dell’educazione. Dobbiamo creare una nuova consapevolezza sul fatto che questa sarà la prima rivoluzione industriale che distruggerà più lavori di quanti ne crea. Vi è un’assoluta necessità di mettere in campo politiche alternative per reinventare il lavoro del futuro e in alcuni casi per ripensare il reddito di cittadinanza come alternativa alla perdita del lavoro. A Barcellona c’è un progetto pilota sul reddito di cittadinanza con le criptomonete che stiamo sviluppando su scala locale. Abbiamo poi quattro Fab Labs pubblici, degli spazi in cui si insegna la programmazione software e fabbricazione digitale e in 3D. Sono spazi aperti a tutti i cittadini: stiamo collaborando con le istituzioni scolastiche affinché sia gli insegnanti che i ragazzi apprendano queste nuove tecnologie come parte del curricolo scolastico attraverso nuove metodologie pedagogiche di apprendimento.

Come funziona la vostra criptomoneta?

È un progetto pilota finanziato dalla Commissione Europea. Si stanno sperimentando politiche di sostegno e integrazione al reddito su due livelli. Da una parte, per le imprese e il tessuto produttivo locale, che ha sofferto di più con la crisi economica, per fare in modo che i soldi vengano spesi localmente e che le imprese possano avere accesso al credito. Dall’altra, per i giovani neet o a famiglie con esclusione sociale forte. Ci permette anche di sviluppare politiche integrative o sostitutive in caso di perdita del lavoro.

Un altro progetto molto interessante è quello della Bustia Etica, letteralmente della “cassetta della posta etica”. Di cosa si tratta?

È un’infrastruttura, sviluppata in collaborazione con il gruppo di attivisti X-Net, che protegge e favorisce il whistleblowing. Tutti i cittadini e i funzionari pubblici la possono utilizzare perché mantiene l’anonimato per filtrare qualsiasi tipo di denuncia riguardante casi di corruzione o cattiva gestione. È a disposizione di tutti ed è integrata totalmente nell’infrastruttura informatica del Comune.

Quali sono le maggiori difficoltà che avete incontrato?

Quella di ripensare il pubblico per convertirlo in “comune”. Questa è la vera sfida del progetto di Barcelona en Comú. Ossia ripensare la macchina istituzionale per metterla al servizio della cittadinanza. Il problema a volte viene dall’inerzia burocratica. Ma si tratta di trasformazioni sostanziali e irreversibili. Se domani viene eletto un governo di un colore politico diverso avrà più difficoltà a modificare queste politiche piuttosto che a portarle avanti. La democrazia partecipativa è l’unico antidoto al populismo di destra, ma serve un ampio consenso nella società per metterla in pratica.

Esiste questo consenso?

In alcune politiche che facciamo c’è un ampio consenso, in altre è più difficile e ci vuole più tempo. Ma l’unica alternativa ai quarant’anni di neoliberismo e di una gestione clientelare, corrotta e privatistica del pubblico è ripensare il pubblico con questo tipo di politica. E ciò non riguarda solo Barcellona, ma tutta l’Europa che deve trovare il proprio modello di leadership nell’era digitale. Altrimenti finiamo nel colonialismo digitale, completamente dipendenti dai giganti degli Stati Uniti e della Cina. L’Europa deve trovare il proprio modello che coniughi innovazione, diritti e ridistribuzione della ricchezza.

A maggio del 2019 a Barcellona si torna a votare. La città sarà diversa da quella del 2015 dal punto di vista delle politiche digitali?

Sicuramente. È una Barcellona diversa che vuole essere moderna e punta sull’innovazione, sul sistema imprenditoriale locale, su quello universitario, sulle imprese cooperative, ma che mette al centro dell’agenda tecnologica i diritti dei cittadini, la sovranità energetica, il diritto alla casa, la mobilità sostenibile, il bene e il vivere comune. Si può dunque progettare la tecnologia al servizio di questo modello di Barcellona.

A che modelli avete guardato?

Lavoriamo molto in rete con altre città. Con New York abbiamo un laboratorio congiunto di innovazione civica e urbana. Con Berlino lavoriamo sulle politiche abitative e su come regolare le piattaforme della sharing economy, con Parigi sui Fab Labs e l’economia circolare, con Amsterdam abbiamo forti affinità e progetti congiunti come DECODE. In Italia collaboriamo con Milano, Roma e Torino sulle politiche dei dati, sulle piattaforme digitali per la partecipazione democratica e sul software libero. Le altre città vedono Barcellona come modello di una politica innovativa e allo stesso tempo democratica. Abbiamo lavorato anche con il team digitale del governo inglese, che già da alcuni anni ha realizzato una digitalizzazione di successo, e quello estone, che è stato il primo a creare un’identità pubblica digitale. E nel contesto europeo coordino una rete di Chief Innovation Officers (CIOs) che si scambiano policy e soluzioni concrete per valorizzare le opportunità e ridurre i rischi del digitale. È fondamentale sperimentare e replicare strategie e progetti, partendo dalle città come laboratorio del futuro digitale che vogliamo, più inclusivo e democratico.


(14 settembre 2018)

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