Intervista
a Francesca Bria, 38enne italiana, assessora nella giunta Colau e
grande esperta di democrazia digitale: “La tecnologia deve essere al
servizio dei cittadini per ripensare il modello di città che resta un
luogo chiave per sviluppare un'economia più circolare”. Autrice insieme a
Evgeny Morozov del libro “Ripensare la smart city”, lavora per
costruire modelli virtuosi di trasparenza, partecipazione e
condivisione: “L'innovazione digitale non ha una traiettoria lineare ma
abbiamo bisogno di alternative sostenibili”.
micromega Steven Forti
A
dirigere l’assessorato di Tecnologia e Innovazione Digitale del Comune
di Barcellona c’è un’italiana, Francesca Bria. Romana, trentottenne,
docente all’Imperial College di Londra e consulente della Commissione
Europea per lo sviluppo di internet e delle smart city, Bria è stata
chiamata a Barcellona dalla sindaca Ada Colau per mettere al centro
dell’agenda tecnologica il cittadino. È appena uscito il suo ultimo
libro, “
Ripensare la smart city”
(Codice edizioni), scritto a quattro mani con Evgeny Morozov, uno degli
intellettuali di riferimento in merito al dibattito sugli effetti
sociali e politici dello sviluppo della tecnologia.
Che cosa significa mettere al centro dell’agenda tecnologica il cittadino?
Significa mettere in discussione il modello precedente di smart city. Da
una parte, criticare l’idea di partire dalla tecnologia, ossia di
pensare prima ai sensori, alla connettività e solo dopo pensare perché
ne abbiamo bisogno, che tipo di problemi urbani ci risolve, chi li
gestisce, chi è proprietario di cosa, come governiamo la tecnologia per
implementare quali politiche. Dall’altra, significa criticare il fatto
che la digitalizzazione è usata come volano per supportare delle
politiche neoliberali di esternalizzazione dei servizi pubblici. Il
modello precedente di smart city di Barcellona era stata essenzialmente
promossa dalle grandi imprese tecnologiche americane, che hanno venduto
una idea di città smart dove la tecnologia poteva essere una facile
soluzione a qualsiasi tipo di problema, dalla povertà al cambiamento
climatico, soprattutto in un momento di austerity e di politiche
restrittive, in cui gli stati si ritrovavano con meno risorse. Dietro il
mantra della smart city stavano in realtà privatizzando le
infrastrutture critiche della città.
Come avete superato questa impostazione?
Prima di arrivare a Barcellona, nella mia esperienza a Nesta, la più
importante Agenzia d’innovazione inglese ho lavorato molto sulla
democrazia partecipativa e digitale e sulla riappropriazione della
tecnologia a fini politici e sociali. Per cambiare il modello esistente
di smart city bisogna dunque allineare la tecnologia alla politica della
città. Nel caso di Barcellona le nostre priorità sono il diritto alla
casa, la transizione energetica ed ecologica, la creazione di nuovi
spazi pubblici per i cittadini, la democrazia partecipativa. Ossia
ripensare la relazione tra i cittadini e le istituzioni. La questione
chiave è dunque come allineare questa politica pubblica con la politica
tecnologica, come fare in modo che la tecnologia, e la nuova rivoluzione
industriale possano servire agli interessi collettivi. Abbiamo dunque
co-creato in maniera partecipata insieme ai cittadini, alle imprese e
all’ecosistema locale, Barcellona Città Digitale, un piano strategico
per l’innovazione digitale della città che ripensa la tecnologia al
servizio di una società più giusta e democratica.
In che modo?
Sono tre i pilastri principali su cui stiamo lavorando. Il primo è la
trasformazione digitale, ossia trasformare il governo per renderlo più
trasparente e aperto attraverso lo sviluppo di standard etici per quanto
riguarda gli appalti e i contratti pubblici e la politica dei dati. Il
secondo è l’innovazione digitale: puntare sulle imprese locali per
sviluppare piattaforme collaborative per la gestione dei servizi e
promuovere la manifattura digitale e la tecnologia 4.0 in città. Il
terzo è l’empowerment: la democrazia e l’educazione digitale, oltre
all’inclusione sociale con un focus molto forte sulla nuova occupazione e
la questione di genere.
Come si può introdurre la tecnologia nel governo della città e rendere le istituzioni più aperte, partecipative e trasparenti?
Tutto il bilancio del Comune di Barcellona è pubblicato in open data: il
cittadino può vedere come stiamo spendendo i soldi secondo le diverse
voci di bilancio. Abbiamo poi un portale di partecipazione democratica,
Decidim.Barcelona [Decidiamo.Barcellona] che è sviluppato in software
libero con un codice etico che regola le forme della partecipazione. Ciò
permette che i cittadini possano partecipare attivamente alla
formulazione delle politiche e priorità del governo. Il 70% delle azioni
di governo che stiamo mettendo in atto vengono da questo processo
partecipativo gestito come ibrido online-offline attraverso il portale e
assemblee partecipate nei quartieri. All’interno di Decidim.Barcelona
tutti i cittadini possono poi monitorare come si stanno portando avanti
le politiche. La trasparenza non è solo una questione formale, ma è una
questione di fatto: servono gli strumenti per integrare l’intelligenza
collettiva dei cittadini nei processi decisionali.
Quanto conta il passaggio all’open source software? E di cosa si tratta esattamente?
Stiamo migrando i sistemi informatici di Barcellona – software,
hardware, servers e dati – verso sistemi aperti e standard tecnologici
liberi, per riconquistare sovranità tecnologica. Si cerca così di
evitare il “vendor lock-in”, ossia la dipendenza tecnologica da pochi
fornitori che sono spesso multinazionali straniere e aprire il mercato
delle gare pubbliche alle piccole imprese. Il Comune di Barcellona oggi
investe oltre l’80% del bilancio tecnologico in software libero e
soluzioni interoperabili. Questo permette di reinternalizzare
competenze, funzioni e know-how per essere in grado di gestire i
processi più critici, dalla contrattazione pubblica alla gestione del
bilancio.
Come si ottiene la sovranità tecnologica?
Bisogna essere in grado di gestire le infrastrutture critiche del futuro
– connettività, dati, intelligenza artificiale – e determinare la
direzione del cambiamento tecnologico. Alcuni strumenti sono la
migrazione all’open source, la trasformazione della contrattazione
pubblica inserendo delle clausole che garantiscano non solo i diritti
ambientali, del lavoro, di genere e sociali, ma anche clausole di
sovranità tecnologica. Quando si parla quindi di sovranità tecnologica
si parla dunque anche di sovranità economica e politica.
Ossia?
Tutti i servizi contrattati dal comune, come i trasporti, l’energia, la
raccolta dei rifiuti o la mobilità, contengono anche una parte che si
riferisce alla gestione della proprietà intellettuale,
dell’informazione, dei dati che in molti casi rappresenta il vero valore
aggiunto del servizio. Abbiamo inserito delle clausole di sovranità dei
dati, per fare in modo che i dati rimangano di proprietà di tutti i
cittadini, un bene comune al servizio dell’interesse generale. L’impresa
che vince il contratto deve poi passare tutti i dati al comune in
formato aperto. I dati sono diventati una vera e propria meta-utility,
un’infrastruttura urbana come l’acqua, l’elettricità, le strade e l’aria
che respiriamo. E deve essere di proprietà dei cittadini e non dei Big
Tech. Questi dati li pubblichiamo poi nel portale di Barcelona Open
Data, in formato aperto per renderli accessibili alla cittadinanza e
alle piccole imprese che rispettando la privacy e la sicurezza possono
poi utilizzarli per creare soluzioni a valore aggiunto. Il Comune di
Barcellona ha 600km di fibra ottica di proprietà pubblica e una rete di
sensori che si chiama Sentilo (https://connecta.bcn.cat) che raccoglie
continuamente dati urbani. Stiamo gestendo questi dati pubblici di città
per rispondere ai bisogni dei cittadini sulla mobilità, sulla
transizione energetica, sulla raccolta dei rifiuti. Poi analizziamo i
dati attraverso una piattaforma che si chiama CityOS (http://cityos.io)
che ci permette di creare sistemi di intelligenza artificiale e modelli
predittivi per una migliore pianificazione e gestione urbana.
Come può il cittadino sentirsi proprietario di questi dati e
non pensare solo che i suoi dati invece che in mano a un’impresa
privata sono in mano all’amministrazione comunale?
C’è bisogno di ridefinire un nuovo patto sociale sui dati nella società
digitale. Siamo all’inizio della quarta rivoluzione industriale con la
rapida robotizzazione dell’economia e l’automazione di molti settori
economici tradizionali che creerà enormi ricchezze, ma distruggerà tanti
lavori. Un patto sociale sui dati nella società digitale significa un
patto sociale sulla nuova condizione di produzione e sulla distribuzione
della ricchezza. Bisogna arginare lo strapotere dei Big Tech con policy
a favore dell’equità fiscale, della privacy e della concorrenza. Ciò si
può fare in maniera efficace solo a livello europeo, ma le città hanno
un ruolo chiave perché il processo deve partire dal basso. La politica
di Barcellona su questo è all’avanguardia. Ad esempio sui dati abbiamo
approvato una delibera che considera i dati urbani un bene comune e
un’infrastruttura pubblica, e in parallelo attraverso il progetto
europeo DECODE (decodeproject.eu), finanziato dalla Commissione Europea,
stiamo sviluppando un’infrastruttura pubblica decentralizzata basata
sulla tecnologia cifrata blockchain che permette ai cittadini di
controllare i propri dati.
E il cittadino dunque che cosa può fare?
Sono i cittadini che devono decidere quali dati vogliono tenere privati,
quali dati condividere, con chi e a quali condizioni. Magari i dati
sanitari li vogliamo condividere solo con i medici, ma non con le
compagnie assicurative che potrebbe venderli a terzi e poi utilizzare le
informazioni per discriminare l’accesso ad alcuni servizi. In Cina è
già cosi, con il sistema dei crediti sociali, dove lo Stato profila i
cittadini e poi gli dà un punteggio e stila una classifica in base al
comportamento conforme alle regole dettate dal governo. Lo stesso fanno
le piattaforme americane da Uber a Facebook che fanno un ranking
privatizzato del comportamento di utenti e lavoratori. Queste
classifiche costruite sulla base di regole e algoritmi definiti in
maniera opaca dalle aziende servono poi a creare un sistema di fiducia e
reputazione che viene poi usato anche per dare accesso al mutuo,
sconfiggere le fake news o contrastare gli attacchi informatici. A mio
avviso serve un’alternativa democratica che si basi su regole
trasparenti ed etiche e che preservi i diritti collettivi. Questi
sistemi che governano sempre di più le nostre vite in maniera
algoritmica sono delle scatole nere in cui i dati vengono controllati da
pochi, venduti a terzi e usati per fare profitti o per manipolazioni a
fini elettorali, senza nessuna regola democratica.
C’è abbastanza coscienza da parte del cittadino su tutto ciò?
Sempre di più. Anche grazie alle rivelazioni di Snowden e al lavoro di
Assange con Wikileaks o a scandali sempre più frequenti di manipolazione
dei dati a fini politici come quello di Facebook e Cambridge Analytica,
si è più coscienti del fatto che questo modello di capitalismo della
sorveglianza, sempre più concentrato e che si finanzia attraverso la
pubblicità e la commercializzazione dei dati personali, non funziona. E
dunque c’è sempre di più la volontà di sviluppare modelli alternativi
che si basano su regole democratiche e sul controllo pubblico. Le città
hanno una scala adeguata per sperimentare alternative: una rete di città
che sperimenta politiche di sovranità dei dati e di gestione
democratica delle nuove infrastrutture digitali permette di avviare
delle alternative concrete e pragmatiche.
Vede la sfida digitale come una maniera per modificare i rapporti all’interno dell’economia e della società?
Assolutamente. L’innovazione digitale non ha una traiettoria lineare e
una direzione a senso unico. Non deve per forza generare più
privatizzazione e concentrazione delle risorse dando vita a un mercato
oligopolistico dominato da poche piattaforme digitali che evadono le
tasse ed erodono i diritti dei cittadini e dei lavoratori. AirBnb, ad
esempio, sta aumentando la gentrificazione entrando in conflitto con le
politiche di accesso alla casa ed evadendo le leggi locali, mentre Uber
sta tentando di prendersi il mercato dei trasporti precarizzando le
condizioni di lavoro. Abbiamo bisogno di alternative sostenibili,
sviluppate da imprese locali che rispettino gli standard di lavoro e
ambientali. E che preservino i diritti dei cittadini. Le città sono un
luogo chiave per sviluppare un’economia più sostenibile e circolare,
scommettendo sul talento delle imprese che investono la ricchezza sul
territorio. È per questo che stiamo anche potenziando l’industria 4.0,
ossia la digitalizzazione del settore manifatturiero e abbiamo creato un
nuovo incubatore di startup puntando su robotica e intelligenza
artificiale.
Il Comune di Barcellona ha multato in due occasioni con
600mila euro AirBnb. Si è creato poi il progetto di FairBnb. Di cosa si
tratta?
Stiamo lavorando in rete con le altre città per trovare le formule
migliori per regolare le piattaforme digitali. Per farlo bene abbiamo
bisogno che le grandi piattaforme condividano i dati e le informazioni
con le città. Se non si conosce bene l’entità e la dimensione del
problema non si può regolare bene, quindi avere acceso ai dati è una
condizione necessaria per stabilire le regole del gioco. Poi stiamo
dando supporto alle soluzioni locali. Fairbnb è una piattaforma
cooperativa che vuole promuovere un modello di turismo più sostenibile.
Lavorano con noi attraverso il progetto DECODE, in cui collaboriamo con
la città di Amsterdam. Lo stiamo collegando con l’Osservatorio sulla
Casa per fare in modo che le città si dotino di un registro digitale che
deve essere usato da tutte le imprese, rendendo quindi pubblico il
sistema di identità e autenticazione digitale e il sistema di
reputazione connessi che ora sono solo appannaggio di poche imprese.
Seguendo l’esempio di Parigi e Berlino stiamo anche creando un indice
dei prezzi degli affitti per fermarne l’aumento incontrollato.
Il terzo pilastro della vostra Agenda Digitale è l’empowerment.
Sì, la democrazia digitale e il futuro dell’educazione. Dobbiamo
creare una nuova consapevolezza sul fatto che questa sarà la prima
rivoluzione industriale che distruggerà più lavori di quanti ne crea. Vi
è un’assoluta necessità di mettere in campo politiche alternative per
reinventare il lavoro del futuro e in alcuni casi per ripensare il
reddito di cittadinanza come alternativa alla perdita del lavoro. A
Barcellona c’è un progetto pilota sul reddito di cittadinanza con le
criptomonete che stiamo sviluppando su scala locale. Abbiamo poi quattro
Fab Labs pubblici, degli spazi in cui si insegna la programmazione
software e fabbricazione digitale e in 3D. Sono spazi aperti a tutti i
cittadini: stiamo collaborando con le istituzioni scolastiche affinché
sia gli insegnanti che i ragazzi apprendano queste nuove tecnologie come
parte del curricolo scolastico attraverso nuove metodologie pedagogiche
di apprendimento.
Come funziona la vostra criptomoneta?
È un progetto pilota finanziato dalla Commissione Europea. Si stanno
sperimentando politiche di sostegno e integrazione al reddito su due
livelli. Da una parte, per le imprese e il tessuto produttivo locale,
che ha sofferto di più con la crisi economica, per fare in modo che i
soldi vengano spesi localmente e che le imprese possano avere accesso al
credito. Dall’altra, per i giovani neet o a famiglie con esclusione
sociale forte. Ci permette anche di sviluppare politiche integrative o
sostitutive in caso di perdita del lavoro.
Un altro
progetto molto interessante è quello della Bustia Etica, letteralmente
della “cassetta della posta etica”. Di cosa si tratta?
È un’infrastruttura, sviluppata in collaborazione con il gruppo di
attivisti X-Net, che protegge e favorisce il whistleblowing. Tutti i
cittadini e i funzionari pubblici la possono utilizzare perché mantiene
l’anonimato per filtrare qualsiasi tipo di denuncia riguardante casi di
corruzione o cattiva gestione. È a disposizione di tutti ed è integrata
totalmente nell’infrastruttura informatica del Comune.
Quali sono le maggiori difficoltà che avete incontrato?
Quella di ripensare il pubblico per convertirlo in “comune”. Questa
è la vera sfida del progetto di Barcelona en Comú. Ossia ripensare la
macchina istituzionale per metterla al servizio della cittadinanza. Il
problema a volte viene dall’inerzia burocratica. Ma si tratta di
trasformazioni sostanziali e irreversibili. Se domani viene eletto un
governo di un colore politico diverso avrà più difficoltà a modificare
queste politiche piuttosto che a portarle avanti. La democrazia
partecipativa è l’unico antidoto al populismo di destra, ma serve un
ampio consenso nella società per metterla in pratica.
Esiste questo consenso?
In alcune politiche che facciamo c’è un ampio consenso, in altre è più
difficile e ci vuole più tempo. Ma l’unica alternativa ai quarant’anni
di neoliberismo e di una gestione clientelare, corrotta e privatistica
del pubblico è ripensare il pubblico con questo tipo di politica. E ciò
non riguarda solo Barcellona, ma tutta l’Europa che deve trovare il
proprio modello di leadership nell’era digitale. Altrimenti finiamo nel
colonialismo digitale, completamente dipendenti dai giganti degli Stati
Uniti e della Cina. L’Europa deve trovare il proprio modello che
coniughi innovazione, diritti e ridistribuzione della ricchezza.
A
maggio del 2019 a Barcellona si torna a votare. La città sarà diversa
da quella del 2015 dal punto di vista delle politiche digitali?
Sicuramente. È una Barcellona diversa che vuole essere moderna e
punta sull’innovazione, sul sistema imprenditoriale locale, su quello
universitario, sulle imprese cooperative, ma che mette al centro
dell’agenda tecnologica i diritti dei cittadini, la sovranità
energetica, il diritto alla casa, la mobilità sostenibile, il bene e il
vivere comune. Si può dunque progettare la tecnologia al servizio di
questo modello di Barcellona.
A che modelli avete guardato?
Lavoriamo molto in rete con altre città. Con New York abbiamo un
laboratorio congiunto di innovazione civica e urbana. Con Berlino
lavoriamo sulle politiche abitative e su come regolare le piattaforme
della sharing economy, con Parigi sui Fab Labs e l’economia circolare,
con Amsterdam abbiamo forti affinità e progetti congiunti come DECODE.
In Italia collaboriamo con Milano, Roma e Torino sulle politiche dei
dati, sulle piattaforme digitali per la partecipazione democratica e sul
software libero. Le altre città vedono Barcellona come modello di una
politica innovativa e allo stesso tempo democratica. Abbiamo lavorato
anche con il team digitale del governo inglese, che già da alcuni anni
ha realizzato una digitalizzazione di successo, e quello estone, che è
stato il primo a creare un’identità pubblica digitale. E nel contesto
europeo coordino una rete di Chief Innovation Officers (CIOs) che si
scambiano policy e soluzioni concrete per valorizzare le opportunità e
ridurre i rischi del digitale. È fondamentale sperimentare e replicare
strategie e progetti, partendo dalle città come laboratorio del futuro
digitale che vogliamo, più inclusivo e democratico.
(14 settembre 2018)
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