I Cinquestelle, pur pesando il doppio dell’alleato leghista, si ritrovano a rincorrere buona parte di temi e proclami lanciati da Salvini, mostrandosi privi di una coerente e strutturata idea di società. Così quella che, nelle migliori delle speranze, si presentava come una rivoluzione degli strumenti democratici dopo la crisi dei sistemi rappresentativi, rischia invece di avere connotati fortemente reazionari.
micromega Daniele Gullì
Io c’ero quel pomeriggio al Teatro Smeraldo di Milano. Era il 4 di
ottobre del 2009, Berlusconi guidava il Governo del Paese e le onde
concentriche della crisi economica nata sullo schianto della Lehman
Brothers cominciavano ad infrangersi sul sistema italiano. Quel giorno
nasceva il Movimento 5 Stelle. Nessuno dei presenti sapeva cosa
aspettarsi. Oramai da anni attorno a Giuseppe Grillo si era creata una
vera e propria comunità. Le persone seguivano i suoi spettacoli,
leggevano il Blog, partecipavano attivamente alle iniziative civiche che
il comico genovese proponeva. Con i V-Day aveva riempito le piazze di
mezza Italia, raccolto centinaia di migliaia di firme, inveito contro il
sistema partitocratico, denunciato il malaffare politico, auspicato un
cambio radicale del sistema dell’informazione. Ricordo il momento in cui
Grillo cominciò ad elencare i punti di un possibile programma politico.
Ricalcavano le battaglie storiche del comico e del blogger. Nulla di
strutturato ma una serie sterminata di slogan. Partì
un applauso avvolgente, continuo, ininterrotto, acritico. Nonostante
all’epoca vedessi di buon occhio la nascita di una nuova forza politica
nello stagnante panorama italiano, rimasi negativamente colpito da
quell’ignavo conformismo collettivo nei confronti di un fantomatico
programma che palesava già contraddizioni, lacune e meri pareri
personali del bicefalo Grillo-Casaleggio.
In meno di dieci anni il Movimento 5 Stelle è divenuta la forza politica
più rappresentata in Parlamento e governa il Paese insieme alla Lega.
Fin dalle origini però, dalle prime piazze gremite dalle arringhe di
Grillo, la tendenza è stata quella di relegare questa nuova realtà a
fenomeno effimero, passeggero, figlio di una inconsistente follia
collettiva. Successivamente, con il boom delle
Politiche del 2013, iniziò la gara all’etichettatura semplicistica. Tra
le più inflazionate c’è l’accostamento al movimento fascista del
Ventennio. Ho sempre considerato questo, come anche altri, un tentativo
banale di liquidare sentenziosamente ciò che invece avrebbe meritato
un’osservazione caleidoscopica. Intendiamoci, non che siano assenti
punti in comune tra M5S e Fascismo: la critica feroce al sistema
partitico; la trasversalità ideologica nella quale si è attinto nella
prima fase di creazione del consenso; l’insindacabilità del fondatore.
Tali peculiarità, da tenere in seria considerazione, rappresentano però
solo parte di un ventaglio più ampio di caratteristiche riconducibili
all’esperienza fascista nel senso più gobettiano del termine, quindi
comuni alla società italiana tutta. Di certo ciò che non manca nel
Movimento 5 stelle sono le connotazioni marcatamente populiste come
l’idea del popolo come organo monolitico e infallibile contrapposto al
corrotto potere delle élite e la repulsione nei confronti degli organi
intermedi. La retorica della democrazia diretta usata al fine
d’innalzare una presunta volontà popolare è volta proprio in quella
direzione. Il richiamo al filosofo Rousseau è suggestivo quanto
scivoloso. La differenza tra plebiscito e referendum risulta labile
all’interno delle votazioni gestite dalla Casaleggio Associati. Tutte le
grandi decisioni riguardanti struttura e direzione politica dei 5stelle
esulano da qualsivoglia controllo da parte della base. A tal proposito
non viene difficile ripensare alla discrezione che il filosofo ginevrino
faceva della figura del Legislatore: l’uomo esterno
alle istituzioni, profondo conoscitore dell’animo umano, capace di
guidare la moltitudine verso una società migliore in quanto autogestita,
senza intermediari, senza rappresentanti se non dei meri esecutori
della volontà generale. Una figura, quella del Legislatore, che ha
suscitato non poca ambiguità nella storia della filosofia politica. La
stessa ambiguità la ritroviamo oggi pensando al ruolo che la Casaleggio
Associati ricopre nel rapporto con il suo popolo. L’innegabile forza mobilitante, che il connubio tra l’istrione ligure e il compianto Gianroberto Casaleggio ha innescato, può essere vista di buon occhio da chi lamenta da tempo un sempre maggior divario tra rappresentanti e rappresentati. D’altra parte, le criticità che inevitabilmente lo strumento digitale proposto come nuovo alfiere nello scacchiere politico si porta dietro, sono ben presto venute a galla. Il rischio di favorire una debacle del valore della competenza in politica, incentivando un malsano disintermediato ed eterodiretto rapporto tra base e Leader, avrebbe meritato da parte degli addetti ai lavori una maggiore attenzione. Di fatto, nei primi anni di sviluppo del Movimento, troppo spesso si è sceverato il giudizio - il più delle volte sommario - da necessarie quanto sfaccettate analisi. Leggendo i giornali dell’epoca, ricordando con quale supponenza veniva raccontato via Tv ciò che stava prendendo vita, si capisce quanto la classe dirigente e politica del paese, unita a doppio nodo con il sistema dell’informazione, fosse totalmente incapace di accogliere ciò che la società civile stava offrendo. Soprattutto a Sinistra, nell’area che fu dell’Ulivo prima e dell’Unione poi, si preferì far finta di non vedere la diaspora di consensi infilando la testa sotto la sabbia; invece che inglobare quella richiesta di cambiamento si finì per trascurarla. Anche per queste ragioni, quando si vuol raccontare ciò che è diventato il M5S, sarebbe saggio farlo non dimenticando le responsabilità di chi non ha voluto interferire con quel cambiamento. Sarebbe saggio farlo tenendo ben a mente quale fosse il contesto che lo partorì.
I decenni transfrontalieri a cavallo tra i due millenni hanno visto il tramonto della contrapposizione diadica tra Comunismo e Capitalismo. Scavando tra le macerie berlinesi dell’89 del secolo scorso non troviamo però la fine delle ideologie ma bensì l’imporsi in modo culturalmente totalitario di una sola di queste. La parabola ascendente della riscossa liberista iniziata alla fine degli anni Settanta continua con un filo conduttore ben chiaro: la subordinazione dello Stato e del potere pubblico al Mercato. Le politiche deflattive in atto, lo stabilizzarsi di livelli alti di disoccupazione, la crescente insicurezza sociale e sfiducia nel futuro non vengono però elaborate dall’opinione pubblica in critica verso il pensiero economico dominante, ma bensì in una più facile quanto pericolosa sfiducia nella Politica. Il conseguente e progressivo sfilacciamento del legame tra partiti, attivisti politici ed elettori ha però anche a che fare con l’avvento e il consolidarsi della comunicazione politica attraverso la Televisione. Questa ha alleggerito le forze politiche dall’incombenza di investire mezzi e fatica direttamente nelle relazioni personali sul territorio. Creare consenso attraverso la comunicazione mainstream ha ingolosito i partiti, abituandoli ad una facile unidirezionalità comunicativa, efficace nel breve periodo quanto controproducente nel lungo. I circoli han cominciato a svuotarsi, gli elettori - orfani di una rappresentanza fondata su valori politici solidi - ad allontanarsi dalle urne e il voto - persa buona parte della propria natura identitaria - è divenuto volubile come mai prima. La crisi del sistema rappresentativo e il parallelo spostamento a destra dell’intero impianto ideologico dello spettro politico hanno messo in crisi quelle forze che storicamente si sono collocate alla sinistra della geografia politica. Queste, venute meno alcune prerogative proprie dell’impalcatura culturale della propria tradizione ideologica, han dovuto reinventarsi, concentrando la propria attenzione sui diritti civili ma, contestualmente, palesando la propria subalternità culturale rispetto all’onda liberista imperante. In Italia la peculiarità del fenomeno berlusconiano ha rappresentato il collante grazie al quale il Centro-Sinistra, superato il Partito Comunista, ha provato a costruire consenso identitario. Il fallimento dell’antiberlusconismo ha però finito per solcare un profondissimo vuoto di rappresentanza. E in politica i vuoti si riempiono sempre. Una fetta di società civile si sentiva inascoltata, ignorata dalle istituzioni. È in questo humus sociale, culturale, storico e politico che prosperò la galassia grillina.
Ambientalismo, nuove tecnologie, mobilità, denuncia delle storture di potere del sistema economico e partitico: queste erano alcune delle tematiche che Grillo toccava durante i suoi spettacoli. Beppegrillo.it è inoltre stato per molti un’oasi informativa alternativa allo strapotere berlusconiano. Grillo, colui che - prima di Tangentopoli - aveva accusato i socialisti di rubare, predetto il Crack Parmalat, inveito all’assemblea dei soci Telecom, pubblicato - nella totale ignavia degli organi di informazione - la lista dei parlamentari pregiudicati, mentre veniva scientemente ignorato - quando non denigrato - da vari esponenti politici, aumentava esponenzialmente la propria aurea consensuale. Ben presto, anche grazie la piattaforma digitale Meet-Up che ha permesso a migliaia di persone di organizzarsi e coordinarsi attraverso una vera e propria rete sociale, cominciarono a nascere piccole liste civiche. Riavvicinare la politica ai cittadini riportando questi dentro le istituzioni: questo fu il propedeutico mantra grillino alla base della nascita del Movimento 5 Stelle. Assenza di struttura partitica né classe dirigente: Il movimento lanciato dalla coppia Grillo-Casaleggio si presentava leggero, sostenuto dalla sola tecnologia digitale. Nessuna gabbia ideologica dentro la quale incastrare questa nuova forza politica. Il M5S si dichiara post-ideologico. Anche per questo la retorica di Grillo è risultata oltremodo affascinante. Nulla che potesse essere confuso, accostato alla vecchia politica. Ed anche se la critica economica ed alcune posizioni prese nella prima fase sembravano proprie di una forza cosiddetta progressista, la narrazione grillina si guardava bene dal raccontarsi vicina a questa o a quella tradizionale coordinata politica.
In un momento di transizione dei valori fondanti le democrazie rappresentative, definirsi post-ideologici può avere propagandisticamente un senso. Il rischio, per una forza politica senza storia né tradizione alle spalle, è quello però di svelare una sostanziale passività di fronte alle ideologie dominanti, che stride con qualsivoglia sedicente connotazione rivoluzionaria. I primi mesi di Governo ci suggeriscono proprio questo. I Cinquestelle, pur pesando il doppio dell’alleato leghista, si ritrovano a rincorrere buona parte di temi e proclami lanciati da Salvini. Lo stesso Contratto di Governo, per quanto riporti alcune battaglie storiche del Movimento, ricalca una visione politica propria di una destra sovranista, nazionalista, identitaria. Un Contratto con l’esoscheletro della Lega, ma solo adornato da punti pentastellati. Il Movimento visto finora svela la propria immaturità, mostrandosi privo di una coerente, organica, strutturata idea di società. Tutto ciò indica un’organizzazione liquida non solo strutturalmente, ma anche concettualmente, in quanto capace di adattarsi a contenitori contenutistici diversi. Buona parte del successo delle strategie di marketing elettorale attuato dai 5stelle è dovuto propria alla capacità trasformista nella comunicazione. Grazie al potenziale virale dell’aggressiva propaganda on-line, il M5S, prima e meglio di tutti, ha saputo interpretare quella condizione di campagna elettorale permanente che le strutture digitali permettono. Al netto dell’oggettivo quanto disordinato risveglio nell’opinione pubblica dell’interesse verso la politica, c’è da chiedersi se, dove e quando le forze politiche troveranno un equilibrio tra la comunicazione in regime di propaganda permanente e la cruda realtà delle policies di governo.
Se esiste una natura rivoluzionaria nel Movimento 5 Stelle sta nell’aver prima di tutti intrapreso un nuovo percorso in cui comunicazione digitale e azione politica stanno cercando faticosamente equilibrio. La necessità di strutturarsi organizzativamente sembra però cozzare con una realtà che possiamo identificare come partito-piattaforma. Ma se è vero che le forze politiche del futuro - a partire dall’esperienza pentastellata – si struttureranno diversamente dai passati partiti di massa, è altrettanto vero che la legge ferrea dell’oligarchia alla quale tutte le organizzazioni sociali sono presto o tardi sottoposte ci consegnerà delle strutture che, nonostante i buoni propositi, non è detto che incorporeranno maggiori elementi democratici rispetto all’esperienza dei partiti tradizionali. Pare ci si trovi di fronte ad una cesura col passato rispetto al metodo di selezione della classe politica. Ciclicamente le élite necessitano di un rinnovamento. Questo può avvenire tramite cooptazione o tramite uno scontro vero e proprio tra tendenze elitiste e popolar democratiche. Il partito-piattaforma funziona diversamente da quello tradizionale e se la necessità di oligarchie interne attraversa indenne le epoche, i modi con cui queste si impongono cambia con il cambiare dei tempi e delle società. C’è da augurarsi che questo rinnovamento non si limiti ad incarnare, strutturandola, quella che il Maestro Bobbio apostrofava come democrazia dell’applauso o che il Prof. Bovero chiama autocrazia elettiva. La disintermediazione che gli strumenti digitali permettono, invece che offrire opportunità di diversa partecipazione popolare alle scelte collettive oliando meccanismi di rinnovamento delle classi dirigenti, rischia di indebolire ulteriormente strutture e funzioni del potere pubblico, prestando così il fianco a quel trend imperante negli ultimi quarant’anni che vede l’orbita economica e individualista occupare totalitariamente tutti gli aspetti sociali, togliendo spazio alle sfere di intervento della Politica che rimarrebbe perciò orfana della sua natura qualificante. In un periodo storico in cui l’avvicendamento tra socialdemocrazie e liberaldemocrazie pare inesorabilmente ad appannaggio delle seconde, quella che, nelle migliori delle speranze, si presentava come una rivoluzione degli strumenti democratici venuta in soccorso alla crisi dei sistemi parlamentari rappresentativi, rischia invece di avere connotati fortemente reazionari.
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