giovedì 27 settembre 2018

Perché il film su Cucchi è un piccolo capolavoro

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“Sulla mia pelle” ricostruisce fedelmente l'ultima settimana di Stefano. Una pellicola angosciante ma empatica, che fa immedesimare lo spettatore nel giovane ragazzo ucciso. Un caso di abuso, in cui lo Stato non può autoassolversi, che ci interroga su quel che siamo e sulla nostra società. Per questo va visto e fatto vedere, soprattutto, nelle scuole.

di Giacomo Russo Spena



Sono 100 minuti di angoscia. Sulla mia pelle genera rabbia, dolore, frustrazione. Il film di Alessio Cremonini, presentato a Venezia e dal 12 settembre al cinema e su Netflix, narra senza sensazionalismo né voyeurismo – emblematica la scelta di non mostrare le immagini del pestaggio letale – una realtà cruda. E lo fa, con minuzia di particolari, riproducendo la vicenda tramite le testimonianze e gli atti giudiziari (oltre 10mila pagine di verbale). Una fedele ricostruzione, oggettivamente documentabile, in cui istantanea dopo istantanea si rivive con veridicità dei fatti l'ultima settimana di Cucchi, dal momento dell'arresto alla sua morte. Alcune scene sono strazianti: lo spettatore è assalito da un groppo in gola tanto da sognare un'utopica fine, una fine diversa da quel che si conosce, una vana speranza che Cucchi si salvi e resti in vita. Perché tanto accanimento su quel corpo? E possibile che sia avvenuto nella “civile” Italia? Ebbene sì. La storia di Stefano Cucchi è terribile ma italianissima. Non certo un episodio isolato se guardiamo le cronache degli ultimi anni e la lunga lista di vittime per abusi delle forze dell'ordine: Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Giuseppe Uva, per citare i casi più noti.


Evitando buonismi, Sulla mia pelle non fa sconti a nessuno. Neanche a Stefanino né alla sorella Ilaria né ai genitori e neppure ad uno Stato che sta facendo carte false per autoassolversi. Cucchi viene raccontato per quel che era, senza alcuna enfasi salvifica: un ragazzo trentenne – ex tossicodipendente, con piccoli precedenti penali, diventato un problema per la famiglia – che stava provando a risalire la china con un lavoro stabile, una casa propria e allontanando il vizio dell'eroina.

Fino a quel fermo dei carabinieri avvenuto mentre si fumava uno spinello la sera in macchina con un amico. Le dosi di hashish, già tagliate, e qualche grammo di cocaina trovati dentro la sua scarpa faranno il resto. È l'inizio del calvario. Comincerà un girone dantesco che lo porterà prima ad una perquisizione in piena notte a casa dei genitori – dove le forze dell'ordine non troveranno nulla – e poi alle botte in caserma. Cucchi viene risucchiato in un buco nero: la sospensione di ogni diritto basilare.

Lo Stato ne è l'unico responsabile: il pestaggio, l'impedimento di chiamare l'avvocato o avvertire qualcuno, le umiliazioni subite, i trasferimenti da un luogo all'altro, il processo farsa in cui viene convalidato lo stato di arresto, l'incapacità dei medici. Ma anche lui che ha paura di denunciare, che rifiuta le cure come forma di protesta. Nessuno che lo aiuta, solo la voce del vicino di stanza nell'ala carceraria del Sandro Pertini. Solo voci, non presenze. Un film, quindi, sull'assenza. Sull'assenza dello Stato, delle regole, della giustizia.

Il cast della pellicola aiuta, non poco, a delinearci il quadro. Oltre alla solita bravura di Jasmine Trinca, nelle vesti di Ilaria Cucchi, sorprendente è la recitazione di Alessandro Borghi che, persi 20 chili, fa rivivere una seconda volta Stefano Cucchi. Malgrado l'attore sia più alto di Stefano, la somiglianza è incredibile. Durante i titoli di coda, si sente l'unico audio originale depositato agli atti: il processo che convalida l'arresto di Cucchi. Si può benissimo ascoltare la voce di Stefano che si dichiara colpevole per detenzione di hashish “a scopo personale” ed innocente per l'accusa di spaccio. Una voce riprodotta in maniera fedele da Borghi, durante il film. Stessa cadenza romana. Stesso timbro vocale. “L’interpretazione magistrale di Alessandro Borghi ci ha restituito un po’ dell’aspetto umano, intimo, spirituale, con cui Stefano ha vissuto quei giorni del suo calvario” sono le parole di Ilaria Cucchi. Grazie anche alla maestria dell'attore, la forza empatica della pellicola è sconvolgente. È la vera caratteristica del film. Lo spettatore si immedesima in Stefano Cucchi a tal punto da pensare costantemente, durante la visione, che al suo posto in quella situazione ci sarebbe potuto essere chiunque: se stesso o un proprio caro.

"E tu com'è che stai così?" gli chiede la guardia penitenziaria di Rebibbia, "Sò caduto dae scale", la repentina risposta di Cucchi. "Ma quando finirete de raccontà sta cosa delle scale?". "Quando le scale smetteranno de menacce". In questo dialogo, invece, c'è il senso (politico) del film. La denuncia per gli abusi delle forze dell'ordine. Soltanto lo scorso anno, dopo anni di richiami internazionali, l'Italia ha promulgato una legge che introduce il reato di tortura. Una legge però depotenziata e non soddisfacente. Il testo approvato prevede che il reato si verifichi se ci sono “violenze e minacce” (al plurale) e se “il fatto è commesso mediante più condotte”. Ciò potrebbe portarci al paradosso di non rendere applicabile la nuova legge in casi di singoli episodi di violenza. Inoltre, si parla di tortura soltanto se “cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico”. La specificazione che il trauma debba essere verificabile creerà grossi problemi rendendo la legge molto meno efficace.

Così l'Italia resta uno dei pochi Paesi in Europa senza i numeri alfanumerici per le forze di sicurezza. E pensare che le matricole identificative sarebbero necessarie non solo a tutela dei manifestanti/cittadini, ma anche (e soprattutto) degli stessi agenti: solo rendendo identificabile chi commette degli abusi si impedisce la formazione di nuclei informali, opachi, ideologizzati, il cui comportamento ha poco a che fare con la gestione dell'ordine pubblico.

La politica, invece, va nella direzione opposta col ministro degli Interni, Salvini, che fregandosene di chiedere verità e giustizia, si preoccupa di attaccare Ilaria Cucchi sollevando a priori le forze dell'ordine da ogni responsabilità. Si preferisce l'oblio su tale vicenda. La pellicola è in pochi cinema (anche per la scelta di proiettarlo contemporaneamente su Netflix) e la proiezione è pressoché militante.


Dopo anni e anni di battaglie la famiglia Cucchi è riuscita a far riconoscere che Stefano non è morto per cause naturali. In 7 anni di processi (iniziati nel marzo 2011) c’è stato un altalenarsi di condanne e assoluzioni del personale medico e degli agenti di polizia penitenziaria. Il 13 ottobre 2017 è partito il processo bis in seguito al rinvio a giudizio di 5 carabinieri. Le accuse sono di omicidio preterintenzionale, calunnia e falso. La prossima udienza si terrà domani 27 settembre. Un appuntamento che non riguarda più soltanto la famiglia Cucchi, ma tutti. È ciò che ci trasmette Sulla mia pelle, un film che andrebbe proiettato ovunque, in primis in luoghi di formazione come le scuole. Visto, commentato e dibattuto. Un film importante per dire “mai più”. Mai più abusi delle forze dell'ordine. Mai più casi di malapolizia. Mai più violenza di Stato. Mai più Stefano Cucchi. È la democrazia che ce lo chiede.



(26 settembre 2018)

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