mercoledì 26 settembre 2018

Gli statuti di potere al popolo: le assemblee territoriali

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Comparazione del funzionamento delle assemblee territoriali di Potere al popolo secondo i due statuti redatti dal Coordinamento nazionale provvisorio.

Gli statuti di potere al popolo: le assemblee territoriali Credits: poterealpopolo.org
In questo secondo articolo proverò a descrivere le regole organizzative delle assemblee territoriali i cui principi ispiratori sono in ambedue i casi richiamati a conclusione della prima parte. Questa sulle assemblee territoriali è, a mio modo di vedere, la parte migliore in entrambi gli statuti.
Nel primo documento, Pap si basa “sul principio democratico ‘una persona, un’idea, un voto’”; nel secondo sulla “democrazia partecipativa e proporzionale tra le/i singole/i aderenti”. La diversa formulazione adottata, tuttavia, risponde ad una diversa concezione di ciò che Pap deve essere. Per gli estensori del primo documento un vero e proprio partito cui si aderisce individualmente, per gli altri un movimento cui si aderisce individualmente ma che lavora come una coalizione, salvaguardando le soggettività politiche esistenti.

Peccato che, come vedremo nell’articolo dedicato all’organizzazione nazionale di Pap, in entrambi i casi la proporzionalità tra eletti ed elettori - su cui tante battaglie costituzionali sono state fatte e debbono ancora essere fatte nel nostro paese - è negata dalla legge elettorale adottata e dal “rispetto della parità tra i sessi in tutti i ruoli”. In entrambi i casi, poi, si parla di “revocabilità delle cariche” (“tutte”, per il primo documento) che però, come vedremo, è resa impraticabile dalle regole elettive adottate.
Per quanto riguarda l’organizzazione, in entrambe le proposte le “assemblee territoriali insediate nelle aree metropolitane e nelle province” rappresentano la struttura di base. In entrambe, per essere riconosciuta “un’assemblea territoriale deve avere un minimo di 30 aderenti”; serve “a promuovere il conflitto sociale, il mutualismo” e i “gruppi di azione tematici”. In entrambi i casi i territori vengono subordinati nell’elaborazione di programmi e della linea politica alle decisioni nazionali.
Per entrambi i documenti si può (ma forse intendevano “deve”) essere iscritti ad una sola assemblea territoriale; bisogna tenere almeno un’assemblea mensile che sia aperta ai non iscritti e trasmessa in diretta streaming; vi è l’obbligo di pubblicare un report sulla piattaforma informatica ufficiale di Pap con l'eventuale esito di tutte le votazioni; si può votare - dal vivo oppure elettronicamente da casa - solo se si è in regola con l’iscrizione e si è pagata la quota; ci si può dotare di un coordinamento e di portavoce (ma per il primo documento “sempre rispettando il criterio di parità di genere”); per convocare un’assemblea straordinaria servono almeno le firme del 30% degli iscritti o dei coordinatori; i componenti degli organi nazionali eletti dai territori vengono eletti/revocati dalle assemblee territoriali convocate su base regionale. In entrambi i casi è possibile partecipare e votare per via telematica.
Per quanto riguarda le analogie, personalmente ravviso solamente tre criticità. La prima è la presenza di un relativamente alto numero di iscritti (trenta) necessario per formare un’assemblea territoriale che, unita alla votazione elettronica da casa e all’assenza di un numero minimo di partecipanti per renderne le deliberazioni valide, potrebbe rendere difficoltoso il lavoro di radicamento, incentivare il cammellaggio ed il disimpegno militante. Problema che potrebbe non essere solo dei piccoli centri ma anche delle grandi metropoli dove spostarsi non è facile e già sono nate, ad es. a Roma, numerose assemblee di quartiere (alcuni dei quali figurerebbero tra i più grandi comuni d’Italia).
La seconda è relativa alla modalità di elezione e revoca dei componenti degli organismi nazionali che avviene su base nazionale e regionale ma non provinciale, il che potrebbe favorire la formazione di delegati che per la propria appartenenza o disponibilità possono permettersi di raccogliere consenso su un bacino relativamente molto ampio.
La terza criticità, infine, è relativa all’assenza di una qualunque disciplina relativa al ruolo, le modalità di elezione, la durata del mandato, la revocabilità, ecc, dei coordinatori/portavoce delle assemblee territoriali. Coordinamento e portavoce che ripropongono il meccanismo della delega la cui sola parola fa rabbrividire molti dei sostenitori del primo documento ma che entrambe le bozze di statuto non possono non accogliere, essendo già presente nei fatti. Oltre all’esistenza di delegati nazionali (per ora provvisori in quanto non eletti da nessuno), già oggi, durante le plenarie nazionali, ad aver diritto prioritario di parola non sono i singoli ma i rappresentanti delle assemblee territoriali (e delle organizzazioni). Dunque la delega esiste in entrambi gli statuti e sta a noi far sì che l’unico strumento a disposizione per far funzionare un’associazione più grande di un collettivo non venga piegato a visioni organicistiche (come nel primo documento) o burocratiche (come nel secondo documento).
Per quanto riguarda invece la possibilità di istituire “gruppi tematici”, siamo di fronte ad un’importante intuizione che avrebbe meritato maggior coraggio. Con essi, infatti, non siamo ancora ad una vera organizzazione dei lavoratori e articolazione sui luoghi di lavoro. I gruppi tematici, infatti, potrebbero rappresentare un buon inizio se fossero messi in grado di promuovere la partecipazione dei lavoratori interessati a quel tema per affiancare al confronto democratico interclassista che avviene durante il tempo libero (le assemblee territoriali) un confronto democratico intra-classista che progressivamente sappia svolgersi anche sui luoghi di lavoro e durante l’orario di servizio (organizzazione per cellule). Perché non è solo della politica dei massimi sistemi di cui bisogna tornare a parlare tra lavoratori - e questo i mutualisti lo sanno bene - ma anche di quella relativa al governo del proprio posto di lavoro, questione propedeutica per governare il soddisfacimento dei propri bisogni. Questo, beninteso, se si vuole davvero far sì che i lavoratori imparino a porsi come classe dominante e dirigente - e non semplicemente che diversi cittadini sostituiscano il ceto politico esistente - e dunque diventino maturi per conquistare e gestire il potere di reindirizzare l’apparato produttivo verso la soddisfazione dei bisogni sociali (e non semplicemente in favore di diverse cordate padronali).
Per quanto riguarda le differenze, il secondo documento prevede esplicitamente che “l’assemblea territoriale, con maggioranza qualificata e motivandolo per iscritto, può rifiutare l’adesione ad una persona” (decisione “ricorribile alla sola Commissione di garanzia”). Nulla viene detto, invece, nel primo documento. Nessuna parola, in entrambe le proposte, per quanto riguarda la perdita dei diritti degli associati (alias le espulsioni).
Ma forse la più grande differenza sta nella maggioranza necessaria per prendere le decisioni. Pur essendo sempre favorita la ricerca del consenso, infatti, se si deve votare, per il primo documento le decisioni delle assemblee territoriali vengono prese a maggioranza semplice dei presenti (50% +1), per il secondo a maggioranza dei ⅔ (66%). Nel secondo documento, inoltre, “le assemblee territoriali avanzano in piattaforma proposte che – in base al consenso ricevuto – devono essere discusse in assemblea nazionale” mentre nel primo ciò non è possibile dal momento che, come si vedrà nel terzo articolo, tutti i militanti sono anche componenti dell’assemblea nazionale.
Le differenze tra i due documenti, dunque, al di là delle parole utilizzate, anche in questo caso non sono molte né sono tali da giustificare la presenza di due documenti contrapposti se non per la soglia di validità delle deliberazioni (50% + 1 vs 66%). Una differenza che con un po’ di buonsenso potrebbe essere facilmente ricomposta.

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