Alla
fine del XX Secolo l’Unione Europea contribuiva a circa il 25% delle
esportazioni mondiali di prodotti industriali, se si fa riferimento al
commercio è tra gli stessi paesi dell’UE e tale percentuale è salita
fino al 45%.
Parallelamente
all’avvio dell’euro, l’emergere della Cina nel commercio di prodotti
manifatturieri ha ridotto il peso delle esportazioni comunitarie, che
hanno perso circa 5 punti percentuali. Successivamente, la crisi
finanziaria del 2008 ha accelerato la crisi industriale in Europa,
cosicché la presenza di prodotti industriali europei nel commercio
mondiale è scesa al 18% nel 2016. Ma questa caduta congiunta nasconde
profonde differenze nella composizione del settore industriale tra i
paesi europei:
Quando
la Spagna ha aderito all’UE nel 1986, tutti i paesi partner avevano un
settore industriale manifatturiero con un peso simile o superiore al
20%, ad eccezione della Danimarca, della Francia, della Grecia e del
Portogallo. Oggi gli unici che mantengono un peso superiore a un quinto
del valore della produzione annuale sono la Germania e l’Irlanda,
seguiti dai paesi che compongono l’officina di subappalto e quartier
generale delle succursali di produzione a basso costo dell’industria
tedesca: Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria e Slovenia.
I
paesi dell’UE15 (ovvero i paesi membri prima dell’espansione nell’est
Europa) sono passati da possedere un peso del settore manifatturiero del
21% del PIL nel 1986 al 14% nel 2016. In Italia, l’evoluzione è stata
coerente con il suo ruolo nella nuova periferia deindustrializzata
dell’Europa meridionale: nel 1986 il 22% del PIL è stato generato
dall’industria ed è rimasto al 20% nel 1996. Nel 2006 è sceso al 16% e
dieci anni dopo rappresenta appena il 14% del PIL.
La
conseguenza è chiara: l’Italia è passata dal possedere il 16% delle
esportazioni di prodotti manifatturieri nei paesi dell’Eurozona a circa
il 12%, oggi. Ma la quota delle esportazioni industriali è diminuita
negli stessi anni dal 10% al 5%. Al contrario, nonostante la comparsa di
nuovi concorrenti asiatici nel mercato europeo, la quota della Germania
è rimasta stabile al 15% -16%.
È
sufficiente analizzare le proposte della Commissione Europea per una
politica industriale o il piano per completare l’Unione dell’Energia,
l’Unione per la Sicurezza, l’Unione dei Mercati dei Capitali, l’Unione
Bancaria e un Mercato Unico Digitale, per capire che se un paese o una
regione della comunità vuole proteggere e sviluppare la sua attività
industriale, a meno che non abbia un’industria militare di una certa
dimensione, non può aspettarsi nulla dalle iniziative della comunità. E,
al contrario, la rete di ostacoli che la legislazione comunitaria
stabilisce contro un obiettivo del genere impedisce effettivamente
qualsiasi seria iniziativa di sviluppo produttivo dell’industria
nazionale nella periferia europea, condannato a essere sempre più il
laboratorio di riparazione e fornitura di pezzi (l’est) e la riserva
agricola e servizi turistici (il sud).
La
politica di aggiustamento permanente stabilita nell’UE come politica
unica rappresenta un problema politico enorme per qualsiasi forza che
non sia necessariamente rivoluzionaria, ma semplicemente riformista,
che, senza mettere in discussione il quadro dell’accumulazione
capitalista, vuole migliorare le condizioni di inserimento del proprio
paese nella divisione del lavoro internazionale ed europea. Questo
perché è una politica che, lungi dal tentare di risolvere il problema
dell’indebitamento pubblico e privato, mira solo a renderla
“sostenibile”, cioè a impedire che raggiunga un livello tale da mettere a
repentaglio la valorizzazione del capitale.
Di
questo non si parla nelle proposte che sono sul tavolo dei capi di
governo europei, come non si parla dell’effetto più pernicioso della
moneta unica, che non ha nulla a che fare con lo squilibrio fiscale o
finanziario, ma con il fatto che consente a un’economia fortemente
esportatrice (Germania) di vendere a buon mercato (rispetto al tasso di
cambio che avrebbe una valuta nazionale tedesca) e costringe a vendere
prodotti costosi a paesi con strutture produttive fortemente
importatrici (inoltre in una valuta rivalutata).
Quindi
l’unica opportunità rimasta a paesi come la Spagna, il Portogallo o
l’Italia – e talvolta anche la Francia – per riequilibrare il proprio
conto estero è… salari più bassi. “Condannati per sempre”, perché la
riduzione salariale è il miglior modo per far sì che investimenti
inefficienti in termini internazionali ottengano guadagni nello spazio
nazionale, cioè per accumulo e concentrazione di capitale in settori a
bassa produttività.
L’importanza
del commercio estero e dei tassi di cambio non può essere sottovalutata
in un contesto di guerra commerciale globale come quello che sta
iniziando a essere progettato. Se la guerra è un modo di fare politica
con altri mezzi, l’annuncio di una guerra commerciale è anche un altro
mezzo per fare politica. Resta da sapere quali siano gli obiettivi
politici perseguiti dal promotore dello scontro: il governo degli Stati
Uniti.
Se
oltre un terzo delle esportazioni cinesi negli Stati Uniti sono
prodotti elettrici, computer, telefoni e apparecchiature elettroniche,
un terzo delle esportazioni statunitensi verso la Cina sono cibo e
materie prime.
Il
commercio tra i due paesi è sempre più simile all’idea canonica di
commercio tra un paese sviluppato che vende prodotti industriali e uno
sottosviluppato che fornisce in cambio materie prime. Questa idea di
specializzazione commerciale tuttavia è un errore – i principali
esportatori di cibo del mondo sono per lo più paesi sviluppati – ed è in
realtà sintomo di un esaurimento del cambiamento tecnologico negli
Stati Uniti, che si traduce in una crescente specializzazione nella
vendita di prodotti a bassa tecnologia.
La
Cina è passata, negli ultimi venti anni, da esportare otto a esportare
nove su dieci euro sotto forma di prodotti industriali, l’UE mantiene la
stessa percentuale (otto su dieci euro), invece gli Stati Uniti hanno
ridotto il peso dei prodotti manifatturieri nelle loro esportazioni di
cinque punti, quindi a meno del 70%. Per ogni dollaro che la Cina
esporta nel resto del mondo in prodotti high-tech realizzati da
lavoratori altamente qualificati, gli Stati Uniti vendono solo sessanta
centesimi e l’UE, fuori dal suo territorio, ottanta centesimi.
Il
“concorrente” attuale è, essenzialmente, la Cina, dal momento che
questo paese è quello che manifesta maggiormente la costante storica
secondo cui quando una potenza raggiunge una posizione di dominio
economico globale, il livello di vita dei suoi lavoratori presenta una
crescita sostenuta. Pertanto, i salari dei lavoratori industriali cinesi
sono cresciuti per oltre un decennio proporzionalmente di più
all’aumento del PIL e molti milioni di persone sono già entrati nella
società dei consumi del capitalismo sviluppato.
Insieme
alla Cina però, anche la Germania, controllando la nuova Europa
germanizzata, quella del protezionismo agrario, si presenta come un
difensore globale del libero scambio, sbandierando le teorie degli
economisti anglosassoni per giustificarlo. La divisione europea del
lavoro, con la formazione di periferie interne perfettamente delimitate,
consente al capitale industriale tedesco di svolgere un ruolo sempre
più autonomo nei confronti degli Stati Uniti.
La
soggezione delle economie dell’Europa meridionale e orientale è la
condizione necessaria per sviluppare questo ruolo nell’accumulazione
globale. La nuova amministrazione nordamericana, che in questo non
differisce dalle precedenti, è molto consapevole della sfida di cercare
di mantenere una posizione di dominio, che ormai non si riflette più
nelle proprie strutture produttive.
La
novità che Trump presenta è che, per la prima volta, si ricorre a
misure che implicano un riconoscimento esplicito del cambiamento
dell’epoca; applicare il protezionismo industriale come un nuovo
strumento di politica di sviluppo e sostenerlo, non è per portare avanti
una concorrenza sleale (dumping o prezzi sovvenzionati) ma per la
sicurezza nazionale e si collega la politica commerciale alla politica
della guerra.
Pertanto,
riferirsi alla situazione attuale con il termine di “guerra
commerciale”, presente o potenziale, non coglie adeguatamente la sfida
posta: il commercio infatti non è l’obiettivo strategico dell’azione
intrapresa dall’amministrazione Trump, ma è piuttosto una parte di una
strategia più ampia di rafforzamento della predominanza militare,
attuata garantendosi il controllo delle materie prime di base per lo
sviluppo del suo armamento.
Questa
fase del processo potrebbe finire per forzare un accordo commerciale in
base al quale la Cina, che ha un sistema commerciale amministrato,
possa consumare più prodotti americani, riducendo così l’enorme
squilibrio commerciale tra i due paesi, che dal 2012 supera i 250
miliardi di dollari annuali. La mossa successiva in questa fase, quindi,
è cercare di limitare il campo di manovra commerciale cinese negli
altri mercati di approvvigionamento. Qualcosa che è iniziato qualche
anno fa in Africa e che l’amministrazione statunitense sta estendendo
all’America Latina.
In
ogni caso, la reazione non si è fatta aspettare e non è consistita
tanto nell’istituzione di tariffe su varie materie prime e sulle carni
importate dagli Stati Uniti, misure puramente difensive, quanto
piuttosto sull’azione in un altro fronte, finanziario-monetario, con la
decisione di accelerare il processo di globalizzazione della moneta
cinese, decidendo di pagare il petrolio in yuan e non più in dollari. Se
lo scambio libero è entrato in “modalità pausa”, il sistema finanziario
e monetario sta per subire un cambio di sistema operativo.
L’euro,
in questo contesto, agisce solo come una neomoneta tedesca, senza che
il ruolo istituzionale che l’UE (cioè la Germania) vuole assumere,
necessariamente in conflitto con le istituzioni legate agli Stati Uniti –
il FMI e il dollaro -, sia ancora delineato.
Ciò
che i popoli dell’Europa meridionale e orientale devono considerare è
se vogliono continuare a svolgere un ruolo subordinato agli interessi
del grande capitale tedesco e globale, o se sono disposti ad assumersi i
rischi della libertà.
*Joaquìm Arriola, economista, docente
dell’Università del Pais Vasco. Coautore di “Pigs. La vendetta dei
maiali”. Relazione al convegno di Eurostop sulla presentazione del
libro.
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