Marta Fana Dottore di ricerca in Economia presso SciencesPo Parigi
Innanzitutto è urgente
chiarire che la manovra in atto è tra le più austere degli ultimi anni
in termini di rapporto deficit/pil, superiore soltanto al dato del governo Gentiloni (2,3%) ma più basso perfino di Monti.
Ma soprattutto, non c’è assolutamente niente di rivoluzionario nel
prevedere un rapporto deficit/pil del 2,4% se quel deficit serve solo ed
esclusivamente a destinare risorse a chi ne è già ampiamente ricco e
che magari le ha anche nascoste al fisco.
Di questo dobbiamo parlare, su questo dobbiamo valutare la nuova legge di stabilità.
È possibile fare opposizione guardando alle ricadute sulla maggioranza
delle persone, non a quella minoranza che si vuole proteggere facendo
leva sulla minaccia dei mercati, sul rischio di soccombere all’ennesima
speculazione. Aumentare il deficit è sacrosanto perché significa
potenzialmente usare risorse per aumentare gli scarni quando non
inesistenti salari italiani, per mettere al sicuro (la
sicurezza di cui abbiamo bisogno) le strade dove quotidianamente si
susseguono morti senza l’eco che produce una tragedia (come quella di
Genova).
La politica non è un’equazione contabile
e non si misura su quell’equazione, che si tratti del deficit che si
tratti del valore assoluto della misura. La politica sceglie in che modo
destinare più o meno risorse, le rivendicazioni di merito che fa.
È su
questo che bisogna schierarsi e analizzare ciò che abbiamo di fronte.
Tra le misure che sembrano
essere state adottate, è su quella denominata (impropriamente) reddito
di cittadinanza che bisogna soffermarsi per inquadrare non soltanto
l’enorme beffa in sé ma anche in che modo una tale misura appare come il
compimento del processo di liberalizzazione (e svilimento) del mercato
del lavoro, tanto caro a quell’Europa che si fa finta di sfidare.
Il reddito, così come emerge dalle dichiarazioni fatte da Luigi Di Maio e le indiscrezioni finora accessibili, sarebbe una misura di assistenza per: chi si trova in stato di disoccupazione,
è italiano ed è disposto a lavorare gratuitamente quando e come lo
chiederanno. È una misura coercitiva che non intacca ma anzi peggiora le
condizioni dell’intero insieme dei lavoratori (disoccupati e non) e che
discrimina sulla base della cittadinanza. Partendo dalla fine, bisogna
rifiutare ogni tentativo di discriminazione contro soggetti a cui il diritto italiano, quindi le scelte politiche, non garantiscono la cittadinanza.
Questi sono i nostri vicini
di casa, i nostri colleghi, i genitori dei compagni di scuola dei
nostri figli che partecipano quotidianamente alla nostra vita collettiva
ma che si è scelto di discriminare, così da renderli ancora più
vulnerabili alla povertà, più ricattabili. Ma ricattabili saranno tutti i disoccupati italiani
che a fronte di una misura caritatevole si troveranno obbligati a
prestare il proprio lavoro. Ma se quel lavoro è richiesto perché ce n’è
bisogno allora tanto vale, e sarebbe più giusto, assumere quel
lavoratore e garantirgli salario e contribuiti adeguati. Così da
spezzare quel legame diretto tra la precarietà di oggi e la povertà di
domani (le pensioni). E se davvero si volesse combattere la povertà
potremmo iniziare dall’abolire tutti quei contratti di lavoro che pagano
salari da fame, che tengono i lavoratori sotto al soglia di povertà
relativa, stimata in circa mille euro netti al mese. Nessuna rivoluzione, solo moderato buon senso.
Perché la povertà non si combatte reintroducendo la schiavitù, cioè quel che il governo sta facendo imponendo l’obbligo al lavoro gratuito.
Ma soprattutto, serve a ben poco mirare alla riduzione della povertà se
non si aggrediscono le diseguaglianze e i meccanismi che le producono.
Di tutto questo non c’è traccia, anzi la traccia solca una direzione
opposta.
Così il reddito di
cittadinanza da sbandierato meccanismo di emancipazione dallo stato di
disoccupazione e/o povertà si rivela come uno strumento di controllo
sociale, così come fa l’Hartz IV in Germania.
Inoltre, il costo del lavoro continuerà a diminuire
a favore delle imprese e dei loro profitti e a scapito di tutti i
lavoratori: esploderanno ancora di più tutte le forme di lavoro
scarsamente retribuite, diminuiranno gli aumenti salariali per gli
altri. Infatti i lavoratori saranno costretti ad accettare le offerte di
lavoro altrimenti non si ha diritto al reddito. Le imprese lo sanno e sfrutteranno a loro vantaggio questo ricatto servito su un vassoio d’argento. Quei risparmi sul costo del lavoro saranno ancora profitti che diventeranno rendite
perché non saranno reinvestite in processi produttivi innovativi, in
prodotti di migliore qualità. Le imprese italiane continueranno a
galleggiare nella competizione globale grazie allo sfruttamento dei
lavoratori, permesso dalle scelte politiche.
Un approccio coerente e
forse necessario per contenere il potenziale esplosivo delle crescenti
diseguaglianze che saranno inasprite attraverso l’altra grande riforma
rivendicata da questa alleanza di governo: la flat tax o quella forma ambigua di riduzione dell’aliquota per una determinata fascia di professionisti, così come emerge dalle notizie pubblicate finora. Non le false partite Iva
costrette al lavoro autonomo, ma i professionisti della classe
medio-alta. Non stanno ancora introducendo la flat tax, ma un meccanismo
di avvicinamento verso quel regime, accontentando in un primo momento
una fascia bene precisa del proprio elettorato.
In totale continuità con gli ultimi 30 anni di governo, l’alleanza M5S-Lega propone di ridurre le tasse ai redditi elevati,
a quel milione di grandi professionisti a cui sarà garantita maggiore
liquidità da spendere in immobili, i cui prezzi aumentando ci renderanno
più poveri mentre cerchiamo un affitto, oppure speculando in borsa. O
perché no, portandoli all’estero e sottraendoli per sempre alla
fiscalità generale. Beffardamente, riducendo le tasse ai ricchi oggi, ci
sarà probabilmente meno bisogno di un ennesimo condono
domani. Ci era stato detto che ridurre le tasse ai più ricchi e alle
imprese avrebbe prodotto più investimenti e maggiore benessere per
tutti. Una concezione ideologica che si infrange di fronte alla realtà e
alla storia, in cui non soltanto tutto ciò non si è verificato, ma al
contrario non ha fatto che contribuire all’ampliamento della forbice
sociale.
Il regime forfaittario per
chi guadagna fino a centomila euro non è una flat tax, ma è un primo
meccanismo per rendere sempre meno progressiva la fiscalità generale.
La flat tax e qualsiasi riduzione delle tasse a chi sta in alto, è bene
ripeterlo, consiste in una misura iniqua perché fa sì che un
professionista che guadagna dieci/ventimila euro al mese pagherà in
tasse molto meno di un precario iscritto alla gestione separata che con
enorme probabilità non guadagna più di 15mila euro in un anno. Ci
saranno meno entrate fiscali, così si deciderà di tagliare altri servizi
pubblici, la scuola la sanità il trasporto pubblico locale, che i
ricchi sempre più ricchi potranno pagare a caro prezzo, noi no.
E allora il reddito “di sudditanza” sarà finanziato non dai ricchi operando una redistribuzione dei redditi e delle ricchezze, ma dagli altri lavoratori sempre più poveri, sempre più ricattabili.
Viene sinceramente da chiedersi come ci si sente nel realizzare che il loro cambiamento non è che una restaurazione.
Nessun commento:
Posta un commento