L'aspetto
che più stupisce della lunga, lunghissima vicenda
padronale e giudiziaria di Mario Ciancio è la soggezione
che quest’uomo
produce sul mondo, diciamo, di sopra (amministratori, sindaci,
imprenditori, editori, opinionisti, giornalisti, ministri...).
da ilfattoquotidiano claudio fava
Perfino
adesso che ha ormai 86 anni, è imputato di concorso esterno in
associazione mafiosa e s’è
visto sequestrare l’intero
patrimonio, ovvero 31 società, partecipazioni, giornali,
televisioni, ville, casali, forzieri e 25 milioni di euro in conti
correnti. Notizia d’un
certo significato. Se non altro perché per la prima volta,
applicando la legge La Torre, viene disposto il sequestro di un
quotidiano per ragioni di mafia. Eppure in questi giorni non un
fiato, non un commento. Tacciono tutti: letteralmente. Tacciono i
sindaci che da Ciancio ebbero accompagnate campagne elettorali e
stagioni di governo (da antologia lo
scambio d’effusioni
intercettato tra Ciancio ed Enzo Bianco), i politici d'arrembaggio
e di nuova moralità, le sinistre guevariste e le destre d’ordine,
tacciono i colleghi editori, i colleghi direttori, i colleghi
giornalisti (perché Ciancio è stato editore, direttore,
giornalista...), tacciono gli imprenditori in affari con lui, i
vecchi magistrati della Procura di Catania che frequentavano il
suodesco, gli esimi, le eccellenze, gli emeriti, le eminenze.
Spariti. Se qualcosa avevano da dire, l’hanno
ingoiata in silenzio.
Non
hanno sequestrato il chiosco dei frappé a un sottopanza dei
Carcagnusi. Hanno portato via al più riverito e potente editore del
Mezzogiorno 150 milioni in azioni, assicurazioni, redazioni,
amministrazioni e antenne. Perfino la stampa nazionale con poche,
pochissime eccezioni: tra cui questo giornale ha fatto finta di non
sapere. Buffo, no? Se avessero confiscato per mafia, che so?, un
giornale a Caltagirone, un albergo a Ligresti, una villa in Sardegna
al Cavaliere, il titolo sarebbe finito in prima, con ricche foto e
implacabile editoriale. Per Ciancio, no. Si sussurra, si accenna, si
parla d’altro.
Ecco:
la più limpida misura del suo potere è esattamente questa. Il fatto
è che si sapeva tutto o quasi. Il “quasi”
è legato
ai conti correnti accesi a Chiasso e a Lugano, alle cassette di
sicurezza nel Liechtenstein, ai 51 milioni che hanno preso la via dei
paradisi fiscali e ai bilanci delle sue società gonfiati con
piccioli di ignota provenienza. Tutto il resto però si sapeva. Si
sapeva del patto non scritto fra Ciancio e Cosa Nostra, la neutralità
delle Famiglie catanesi in cambio d’una
moral suasion del suo giornale, impegnato a convincere i catanesi che
mafia, in quella città, proprio non ce n’era.
E dunque Nitto Santapaola era un “noto
imprenditore” (così
definito fino al giorno del suo primo mandato di cattura); la
famiglia Ercolano meritava solo rispetto e benevolenza; i Cavalieri
di Catania (segnatamente Gaetano Graci e Carmelo Costanzo) erano
straordinari e generosi capitani d’industria;
i sindaci corrotti, i politici collusi, gli amministratori venduti
andavano semplicemente protetti perché tutto quello che offuscava
questo presepe di buone notizie (per esempio i servizi televisivi di
Giuseppe Marrazzo, le interviste della buon’anima
di Carlo Alberto dalla Chiesa, le inchieste de
I
Siciliani) erano solo “ma
scariamenti”,
giacobinismi, invidie sociali...
Si
sapeva. E si taceva. Fingendo che ogni episodio (i necrologi
rifiutati, i nomi censurati, le foto sforbiciate) fosse solo folklore
locale, brevi e inoffensive mitologie di provincia. Sapevano i
colonnelli di Ciancio in redazione,e tacevano. Sapevano l’Ordine
e il sindacato dei giornalisti, e tacevano. Sapevano i signori
Procuratori della Repubblica e tacevano. Sapevano i ministri e i
presidenti in visita di cortesia nei suoi uffici e tacevano. Tra
parentesi, la consuetudine di quelle visite, ridicole per piaggeria e
disarmanti per tra
sversalità,
è continuata fino a pochi mesi fa, con Mario Ciancio indagato già
da otto
anni
per mafia e la solita coda in anticamera dei candidati di turno (dal
presidente Nello Musumeci all’onorevole
Guglielmo Epifani) in attesa di intervista, stretta di mano e foto
con l’editore.
Anche il racconto della visita del capomafia Giuseppe Ercolano al
signor
editore
era noto da anni. Siamo all’imbocco
degli anni Novanta e Pippo Ercolano, cognato di Nitto Santapaola, è
molto incazzato. Quel giorno La Sicilia ha dato notizia di
un’inchiesta
che coinvolge il suo casato mafioso. Falso? No, vero, verissimo,
perché Ercolano è un mafioso: ma certe cose non si scrivono. Mai.
Per questo u zu’ Pippo
è incazzato. E adesso sta andando in redazione per capire a chi
minchia è venuto in testa di scrivere degli Ercolano senza prima
sciacquarsi la bocca. Ora, che succede se un capomafia si presenta al
vostro cospetto pretendendo scuse per aver scritto una cosa vera?
Chiamate il 113 e la cosa finisce lì. Ciancio, che è uomo di mondo,
alza il telefono: ma non per chiamare la polizia. Chiama il giovane
cronista che aveva scritto ’articolo,
lo convoca nel proprio ufficio e, quando se lo ritrova davanti, lo
cazzìa. In presenza del boss, ovviamente. Che finalmente
sorride compiaciuto: l’incazzatura
gli è passata.
In
realtà Mario Ciancio è stato molto più di tutto questo. Il
siciliano più potente nel senso aristocratico del termine. Non si
tratta solo del censimento delle sue ricchezze. Il potere di un uomo
come Ciancio risiede anzitutto nella capacità di infischiarsene di
ogni umano giudizio, proprio come i reali di Francia a Versailles,
convinti di mettere la catena al collo della storia distribuendo
brioches alla plebe incazzata. Mario Ciancio, come la regina
Antonietta, ha lasciato per anni che sulle sue vicende si depositasse
il conforto del propriosilenzio. Mai un verbo, un’intervista,
un articolo a firma sua. Non è timidezza: è
davvero la cifra più alta del potere, la sua capacità di isolarsi
in una dimensione
in cui non c’è
sospetto, parola o dubbio che possa scalfirti. E così sarebbe stato
nei secoli se non si fossero messi di traverso alcuni giudici della
Procura di
Catania, svelando un sistema che aveva fatto del giornale di Ciancio
un notaio
del non dire, del non chiedere, del non mostrare mai.
Ciò
che ancora stupisce è il senso di obbedienza che Ciancio è riuscito
a far
crescere
attorno a sé. Perché un giornale non lo fa un editore: lo scrivono
i suoi
giornalisti.
E a lui, Ciancio, non occorreva nemmeno un ordine formale: per
anestetizzare
ogni notizia, perfino gli annunci mortuari, bastava la solerzia di un
dipendente, lo zelo di un capocronista, lo scrupolo d’un
segretario di redazione. Proprio come accadeva in Italia dopo le
leggi razziali del 1938, quando si trovarono subito decine di
imbecilli felici di far sapere che i loro erano negozi ariani,
Ciancio ha sempre trovato molti giovani e meno giovani cronistifelici
d’appendersi
anche loro al collo un invisibile cartello su cui stava
scritto:“Questo
è un giornalista autocensurato”.
La sensazione è che quello zelo, quell’obbedienza
non siano stati scalfiti. Ieri, primo giorno de La Sicilia
sequestrata,
i giornalisti hanno diramato un accorato comunicato riconoscendo a
Ciancio doti di umanità e generosità.Generosità verso se stesso,
forse. Mentre lasciava le sue
testate
e le sue redazioni affogare lentamente nei debiti (ne licenziò
sette, di giornalisti, a Telecolor), Ciancio ammassava i suoi
profitti nei forzieri della Svizzera e del Liechtenstein. Siamo seri,
ragazzi: generoso costui? Ai posteri (e ai tribunali) la sentenza.
Nessun commento:
Posta un commento