Mario Agostinelli Ecologista, politico e sindacalista
Normalmente associamo l’immigrato ad una donna o uomo di colore proveniente dall’Africa.
Ma il cambiamento di temperatura avvolge l’intero pianeta e riduce gli spazi vitali complessivi.
Chomsky in una recente intervista a “Il manifesto Alias” dell’8 Settembre, fa risalire al negazionismo climatico, sbandierato dalle élite mondiali, il clima di esclusione, respingimento, paura e involuzione democratica che prende corpo negli elettorati.
Non sostengo che la questione migranti o l’attacco al lavoro e al welfare dipendono solamente dall’espulsione di un intervento di mitigazione del clima dall’elenco delle emergenze nell’agenda dei governanti.
Tuttavia vorrei sostenere il collegamento sempre più vasto eppure sottaciuto tra crisi ambientale, immigrazione e esclusione.
In effetti, non avere come sfondo la rigenerazione della Terra intera, serve ad accreditare un sovranismo chiuso a difesa di casa propria, ad espellere disumanamente migranti e rifugiati ambientali e a cercare illusorie soluzioni protezioniste anche quando la vendetta della natura sui nostri comportamenti comincia a colpire anche le nostre terre ricche.
Cominciamo da due notizie rilevanti.
Il gigante delle riassicurazioni Swiss Re (compagnia che vende polizze di assicurazione ad altre compagnie assumendosi una parte dei loro rischi) ha reso noto a Settembre 2017 un nuovo rapporto che fa la graduatoria globale delle città minacciate da disastri naturali e climatici e che quindi registrerà massicci spostamenti di abitanti.
La classifica globale, che tiene conto della popolazione potenzialmente colpita espressa in milioni di persone è la seguente:
Tokyo-Yokohama (Giappone) 57,1,
Manila (Filippine) 34,6,
Delta del Fiume delle Perle (Cina) 34,5,
Osaka-Kobe (Giappone) 32,1,
Giakarta (Indonesia) 27,7,
Nagoya (Giappone) 22,9,
Calcutta (India) 17,9
Shanghai (Cina) 16,7,
Teheran (Iran) 15,6.
La collocazione prevalente è verso il mare (non nei deserti e nelle steppe già in parte abbandonati) proprio a causa dell’innalzamento delle acque e la violenza degli scambi termici (tifoni e piogge).
Da più di quindici giorni una testata prestigiosa come il Guardian raccoglie e pubblica dati esemplari sull’allontanamento dalle proprie terre e sull’impoverimento dovuto alle crescenti catastrofi climatiche nelle zone ricche del mondo.
Partendo dall’America e con un titolo shock, “Americani: i prossimi migranti climatici”, descrive e quantifica sotto il profilo dell’abitare e sopravvivere gli effetti dell’uragano Sandy nel 2012 su differenti quartieri di New York e la distruzione recentissima da parte di “Florence” sulla North Carolina, che tratterò la prossima volta.
Gran parte delle abitazioni pubbliche di New York è circondata dall’acqua, a Red Hook, a Coney Island, a Lower East Side, ai Rockaways. Il quartiere di Brooklyn, una penisola circondata dall’acqua, si è rivelata una pianura alluvionale dopo l’uragano Sandy nel 2012.
I valori di mercato delle case sono scesi, ma i più ricchi si sono spostati nella zona centrale dei grattacieli.
Red Hook ha uno dei più antichi e più grandi progetti di edilizia pubblica d’America. Più della metà dei dodicimila residenti di Red Hook sono inquilini della New York City Housing Authority.
Nelle strade del quartiere le inondazioni sono state pesanti e secondo le proiezioni degli scienziati, i moli della città svaniranno sotto l’alta marea nel 2020.
Entro il 2080, l’alta marea normale invaderà alcune strade. Una parte di Van Brunt Street, l’arteria principale di Red Hook, dovrebbe essere allagata ogni giorno. Qui, dove la gente è più povera, il mercato delle case danneggiato ha attirato compratori di ceto medio e speculatori per affari a breve termine.
Red Hook ha una storia di comunità solida e molti dei suoi abitanti non hanno intenzione di vendere la casa in cui sono cresciuti.
Una migrazione verso zone rurali a basso costo potrebbe salvare i residenti sul lungomare di lunga data dall’innalzamento delle acque, ma non li salva dalla perdita delle loro case e dei rapporti cui sono affezionati.
Senza investimenti governativi nella protezione dalle inondazioni, sono in imminente pericolo.
Le megalopoli di Londra, Tokyo, Rotterdam e Shanghai hanno installato parapetti, barriere anti-tempesta, super-argini e anelli per tenere l’acqua fuori dalle strade.
New York no e se lo facesse, li preserverebbe per un po’. Gli speculatori con cinismo assicurano che “si faranno parapetti prima di 30 o 40 anni e solo dopo la terra si allagherà.”
In sostanza, l’effetto dei più frequenti uragani in America si concretizza nel fatto che i ricchi possono permettersi di muoversi, mentre i poveri non ne hanno possibilità.
L’effetto vale anche per la siccità e le temperature crescenti.
Mentre le persone fuggono il calore intenso in Arizona per climi più miti, i valori di noleggio e proprietà salgono continuamente e le banche non allungano crediti a chi ha patrimoni irrilevanti o case minacciate. Alcuni residenti di una città progressista, Juad Suarez, a 300 miglia a nord del confine messicano hanno adottato lo slogan “costruisci il muro” di fronte a un’ondata di nuovi arrivati.
Ma questi interlocutori percepiti sono nettamente diversi dall’immaginazione di Donald Trump. Sono americani, principalmente bianchi e stanno fuggendo dal caldo invivibile.
Lo chiamano un modello di gentrificazione (trasformazione di un quartiere popolare in zona abitativa di pregio, con conseguente cambiamento della composizione sociale e dei prezzi delle abitazioni) dettata dal clima.
Fenomeno che si sta diffondendo negli Stati Uniti, poiché coloro che sono in grado di ritirarsi da inondazioni, tempeste, ondate di calore e incendi boschivi si spostano verso aree più sicure, portando con sé proprietà in ascesa e valori locativi.
Ma dove andranno a vivere le persone a basso reddito? Basterà odiare, perseguitare e privare di diritti persone di colore diverso?
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