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La guerra
sui numeri che impazza in questi giorni su Tv e giornali ha un nome ed
un cognome: Fiscal Compact. Di cosa si tratta? Di un trattato
intergovernativo, firmato il 2 marzo 2012 per il nostro paese da Mario
Monti, con il quale ci impegnavano al pareggio di bilancio e a ridurre
il rapporto debito pubblico/Pil di un ventesimo all’anno. L’Italia
subiva le conseguenze del colpo di Stato con il quale era stato fatto
cadere l’ultimo governo Berlusconi e, in deroga ai trattati istitutivi
dell’Unione (Maastricht e Lisbona), si impegnava a fare pareggio di
bilancio, cioè zero spesa a deficit. Il governo Monti – tra il plauso
dei media
– sottoscrisse quel trattato intergovernativo imponendo la cosiddetta
austerità. Anche se nessuno oggi lo ricorda, è per questo che ormai da
diversi anni i governi italiani fanno a braccio di ferro con Bruxelles
per elemosinare lo “zero virgola” in più. Il Fiscal Compact –
ribadiamolo – è un trattato intergovernativo, quindi non rientra
formalmente nei trattati dell’Unione Europea.
Tuttavia, il secondo comma dell’articolo 2 del trattato – sul punto – è
chiarissimo: «Il presente trattato si applica nella misura in cui è
compatibile con i trattati su cui si fonda l’Unione Europea e con il diritto dell’Unione Europea. Esso non pregiudica la competenza dell’Unione in materia di unione economica».
Bene. Se il Fiscal Compact, per sua stessa previsione, è applicabile solo se compatibile con i trattati su cui si fonda l’Unione Europea, va da sé che sia palesemente nullo. Vediamo perché. I trattati istitutivi della Ue, su tutti quello di Maastricht e successivamente
quello di Lisbona, prevedono che ciascuno Stato possa spendere a
deficit nella misura del 3% del rapporto deficit pubblico/Pil. Poco, a
dire il vero, ma in linea di principio non è austerità. Vi è di più.
Maastricht e Lisbona prevedono anche che gli Stati possano andare oltre
il tetto del 3% quando la spesa a deficit riguarda investimenti
produttivi ad alto impatto sul prodotto interno lordo. Una eccezione
limitata e temporanea, alla quale hanno fatto ricorso più volte nel
corso degli anni Germania,
Francia, Spagna e Regno Unito, senza che nessuno battesse ciglio.
L’Italia, invece, dal 2007 in avanti si è (con poche eccezioni) tenuta
sotto la soglia del 3%. Il Fiscal Compact, però, in quanto non conforme
ai trattati istitutivi della Ue, è nullo – come scriveva qualche anno fa
Giuseppe Guarino, e oggi tutti se lo sono dimenticati. Un trattato
intergovernativo, che per suo stesso espresso richiamo va applicato
finché sia compatibile coi trattati istitutivi dell’Unione, deve essere
ritenuto nullo dal governo italiano in quanto non conforme alle fonti
del diritto gerarchicamente superiori, cioè i trattati istitutivi.
Stando così le cose, la guerra
sui numeri non ha alcun senso. Il Def predisposto dal governo
Gentiloni-Padoan aveva previsto, per il 2019, un rapporto deficit-Pil
dello 0,8% (corretto allo 0,9%). Il ministro dell’economia
dell’attuale governo, Giovanni Tria, vorrebbe fare invece l’1,6%, una
soglia più alta ma non sufficiente per portare a compimento le misure
più incisive del “contratto di governo”. Che fare, quindi? La decisione è
politica
e spetta ai due vicepresidenti del Consiglio. Si dovrebbe a nostro
avviso procedere con la denuncia unilaterale del Fiscal Compact e
tornare – per ora realisticamente – almeno ai parametri di Maastricht.
Dall’anno prossimo la musica potrà cambiare. Con un Europarlamento e una
Commissione Europea meno invasive si potrà mettere mano anche alla
soglia del 3%. Tria o non Tria, qui bisogna iniziare a capire che il
ministro dell’economia
non può limitarsi a far quadrare conti, altrimenti ci saremmo tenuti
Monti e Padoan. Nell’anno del referendum costituzionale, Renzi portò il
rapporto deficit-Pil al 2,5% dando agli insegnanti e ai diciottenni la
mancetta elettorale dei 500 euro per i concerti. Una misura fatta solo
per strappare qualche consenso. Salvini e Di Maio vorrebbero invece
arrivare poco sotto il 3% per ridurre le tasse alle partite Iva,
abbassare un po’ l’età pensionabile e ridare dignità a chi resta senza
lavoro o lo sta cercando. Se rinunciano a questo inizieranno a perdere
consensi. Rinunciare al proprio bilancio di Stato significa rinunciare
ad essere uno Stato. Bisogna avere coraggio e cominciare a fare
l’interesse nazionale. Questo si aspettano gli italiani da un governo
sovranista.
(Paolo Becchi e Giuseppe Palma, “Liberiamoci dal Fiscal Compact e
torneremo a crescere, il ministro Tria abbia maggiore coraggio”, da “Scenari Economici” del 26 settembre 2018).
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venerdì 28 settembre 2018
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