giovedì 27 settembre 2018

Il Jobs Act faceva schifo, ma era anche (un po’) incostituzionale

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Sono soddisfazioni postume, diciamolo, ma fanno sempre piacere…
La norma sul “contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti” – il cosiddetto “capolavoro teorico” di Pietro Ichino, tradotto in legge da Matteo Renzi e dal Pd – è costituzionalmente illegittima nella parte in cui determina in modo rigido l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato. Lo ha stabilito la Corte costituzionale.

La Corte ha dichiarato illegittime le disposizioni in materia contenute nell’articolo 3, comma 1, del Decreto legislativo n.23/2015, che non sono state modificate neanche dal successivo Decreto legge n.87/2018, cosiddetto “Decreto dignità” (un altro “capolavoro teorico” del ministro Luigi Di Maio, che non ha né aggiunto né tolto nulla di sostenziale al Jobs Act).
In particolare, la previsione di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore è, secondo la Corte, contraria ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione.
Il Jobs act di Renzi prevedeva un indennità di licenziamento compresa tra 4 e 24 mensilità, stabilendo che dovessero essere erogate al momento del licenziamento due mensilità per ogni anno di servizio prestato. Il “decreto dignità” ha modificato semplicemente il numero –da un minimo di sei a un massimo di 36 mensilità – ma senza modificare il meccanismo.
Tutte il resto di quella normativa “democratica” e ora grillin-leghista è invece costituzionalmente ammissibile, pur essendo una oscenità politica.
Non c’è comunque da gioire più di tanto, in attesa della pubblicazione delle motivazioni della sentenza della Consulta, perché – per assurdo – non è detto che un criterio “coerente con i principi di ragionevolezza ed uguaglianza” non possa essere anche peggiore.

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