domenica 16 settembre 2018

Europa, rinoceronti e populismo.

La discussione sull’Europa in vista delle elezioni di primavera, aperta su MicroMega dal Contromanifesto di Pierfranco Pellizzetti, rischia di risultare oziosa se non ci si pone prima il problema del populismo. Che non è la demagogia, o l’antipolitica, e neppure una conseguenza della crisi dell’euro. È – nientedimeno – l’insieme delle condizioni della politica nel XXI secolo. Qui di seguito si svolge un’analisi in cinque punti del populismo, e poi se ne traggono alcune indicazioni operative in vista dei prossimi appuntamenti europei.



micromega Mauro Barberis
1. Ammettiamolo: in tempi di populismo, anche quelli di noi che credevano di averle viste tutte, si sentono un po’ come il protagonista del Rinoceronte (1959) di Eugene Ionesco. Ricordate? Per le strade appare un rinoceronte, e la prima reazione è: sarà scappato dallo zoo. Poi ne arriva un altro: sarà lo stesso di prima, si dice. Poi ancora, uno dei due schiaccia un gatto, la cui padrona crede di riconoscere nel rinoceronte il marito. Infine, il protagonista si accorge che i rinoceronti sono cento, mille, diecimila: che tutti si stanno trasformando in rinoceronti.

Qui, per il protagonista, si pone un dilemma, anzi un trilemma: un dilemma a tre corni, trattandosi di rinoceronti. Una soluzione è chiudersi in casa, tapparsi occhi e orecchie, darsi alla meditazione trascendentale, insomma sopravvivere. L’altra è grattarsi disperatamente la fronte per cercare di farsi crescere un corno: ma è una parola, i corni mica crescono così. Terza soluzione, il protagonista inizia una resistenza solitaria; ma se solo Ionesco fosse stato meno anarchico, magari si sarebbe messo in cerca di altri umani.

La mia personale reazione all’arrivo dei rinoceronti, per quel che vale, è stata quasi altrettanto disperata. Per anni, diciamo pure gli anni del renzismo, ho rifiutato persino di usare il termine “populismo”: non capivo cosa significasse, ma soprattutto mi accorgevo che veniva usato solo per denigrare chi la pensa diversamente da noi. Poi mi sono accorto con raccapriccio, sia pure con il senno di poi, che persino il Renzi della rottamazione e degli ottanta euro, quello vincente, poteva considerarsi un populista mancato.


Alla fine ho cominciato a studiarli seriamente, i populismi, e mi sono convinto che sotto questa dubbia etichetta si nasconde poco meno che la politica nel XXI secolo, interna e internazionale. Qui di seguito anticipo, applicandola all’Europa, analisi del populismo che appariranno altrove[1]. Nel farlo, rispondo anche agli interventi di Pierfranco Pellizzetti ed Enrico Grazzini[2]; in particolare, cerco di rispondere alle questioni poste dal primo, su consenso, comunicazione e organizzazione di una sinistra europeista.

2. Il termine “populismo” non indica un’ideologia, né forte, formulata dottrinalmente, né debole, bisognosa di coniugarsi con una forte, e neppure un semplice stile comunicativo[3]
Indica, invece, una modalità di funzionamento della democrazia: non transitoria, però, come qualcuno ancora s’illude, anzi probabilmente destinata a consolidarsi con l’avanzare dei processi di digitalizzazione.
Le democrazie occidentali sono ormai altrettanti dispositivi messi in modalità populismo, e questa sta diventando l’opzione di default.

Da cosa, si riconosce il populismo? Qui di seguito elenco cinque indici del fenomeno, che singolarmente possono non darsi, ma più se ne danno, e più il populismo diventa indiscutibile. L’elenco, pensato per il fenomeno Trump, è applicabile agli altri populismi occidentali, europei e italiani. Più ci si allontana dagli Usa e dall’Europa occidentale, però, già nell’Europa dell’Est, in Russia, Turchia e America Latina[4] – e più i populismi assumono tratti diversi, in particolare meno mediatici.

Primo indice di populismo è l’appello al popolo. Più precisamente – qui sta (tutto) il contributo di Ernesto Laclau e Chantal Mouffe[5] – la costruzione di un popolo di riferimento, diverso dalla popolazione residente. Questa costruzione oggi avviene soprattutto tramite i media, specie social: il che non aiuta, però, a costruirsi un “popolo” europeo. Il demos europeo già non c’era prima, il patriottismo costituzionale à la Habermas non lo ha certo sostituito, ma soprattutto l’Europa è lontana, l’ottanta per cento degli europei vive nel raggio di cinquanta chilometri da dove è nato[6].

Secondo indice di populismo è l’espulsione dal “popolo” di un nemico – l’establishment, le élites, la Casta – su cui dislocare il risentimento [7]. Bene, cioè male, perché così si perdono le garanzie giuridiche minime e si va verso la democrazia illiberale à la Orban: sanzionato per questo, non per i migranti, e bisognerebbe dirlo. Ma insomma, una sinistra europeista chi potrebbe costruirsi come nemico? I burocrati di Bruxelles, la finanza, le banche, come al solito? Demonizziamo i populisti, piuttosto, ma in un modo un po’ più intelligente di come s’è fatto sinora (cfr. qui, § 3).

Terzo indice di populismo è la personalizzazione: ci vuole un leader, non necessariamente carismatico, vedi alla voce Trump. Anzi, più è mediocre, incolto, volgare, e magari anche un po’ disonesto, e meglio è.
Ora, alla sinistra europea non mancano certo figure del genere: anche se noi radicalchic siamo meno di bocca buona dei populisti. Ma insomma, uno o una leader giovane, vivace, non lussemburghese, che parli inglese e non corra il rischio di sbagliare i congiuntivi, secondo me la si trova: Judith Sargentini sarebbe perfetta[8].

Quarto e decisivo indice di populismo è la mediatizzazione. Il modello di populismo digitale[9] non sono più i Cinquestelle, zavorrati dal giacobinismo, bensì Salvini. La ricetta è semplice: si raccoglie una dozzina di ragazzi svegli e gli si fa lanciare messaggi a cascata al proprio popolo di riferimento. Non su Twitter, però, ma su Facebook, o su qualche social più trendy. Alla campagna mediatica, beninteso, si aggiunge la contro-campagna: chi critica il capo va sepolto sotto una valanga d’insulti. Poi si supera il milione di follower, ed è fatta.

Ma, direte voi, il messaggio? Qui subentra il quinto indice di populismo, la semplificazione.
Messaggi complessi, articolati, nei quali non si considerano minus quam merdam le opinioni altrui, sono definitivamente out. Andavano bene per il mondo della carta stampata, dove uno scorreva un testo dall’inizio, magari incontrando persino opinioni diverse dalla propria, e poi faceva la Rivoluzione francese[10]. Roba vecchia, ovvio: l’ideale è lanciare slogan, crearsi una bolla mediatica, badando, se si è di sinistra, a che non diventi una nicchia, o una tomba.

Chi mi legge – se qualcuno legge ancora – dirà che questa è una parodia della politica odierna, e del populismo in particolare. E che se una sinistra europeista dovesse mai mimare i populismi non solo perderebbe l’anima, e vabbé, ma sarebbe travolta proprio sul piano mediatico, sul quale parte in drammatico ritardo. Torno poi sul messaggio. Ma concedo sin d’ora che non è così vero – come a volte sembrano credere le menti dei Cinquestelle[11] – che il medium sia il messaggio, sicché quest’ultimo diventa un optional.

In effetti, ciò che la sinistra non vuole capire, nella bolla mediatica in cui è rinchiusa pure lei, è che il populismo non è un brutto sogno, come i rinoceronti, né l’ennesimo trucco per imbonire le masse. Il populismo non funziona solo dall’alto, ma anche dal basso.
L’insofferenza o la paura per i migranti, ad esempio, non si crea dal nulla: semmai, amplifica qualcosa che c’è già.
Insomma, occorrono capacità di ascolto che la sinistra ha perso da mo’, imborghesendosi. È lì che c’è da imparare, dai populismi.

3. Un’analisi realistica del populismo, naturalmente, è solo l’abc. Analisi di cui fa parte l’idea, comunque, che vince chi detta l’agenda mobilitando su quella il proprio popolo di riferimento. Il “popolo” di sinistra non è morto, è solo in letargo: oggi pare scomparso solo perché, dopo decenni di inganni e di sconfitte, non si riesce più a mobilitarlo. E alle Europee vincerà proprio chi riuscirà a mobilitare il proprio popolo: non necessariamente sull’Europa, bensì su questioni d’interesse nazionale o addirittura locale, come sempre[12].

Detto questo, tutto il resto è ancora da inventare – “costruire”, direbbero Laclau & Mouffe. Essendo della vecchia guardia, quella che credeva nella scienza e negli esperti, non mi lancio su temi fuori dalle mie competenze. Ad esempio, sulla questione dell’euro – il cuore dell’intervento di Grazzini – anche ammettendo che sinora si sia sbagliato tutto, non sarebbe male, almeno in campagna elettorale, fare proposte non appiattite sulle ricette della BCE, come i Titoli di sconto Fiscale. Tanto, non si vince né si perde su quello.

Così, rispondo solo ai tre punti di Pellizzetti – consenso, comunicazione, organizzazione – anche per non dare la solita impressione, che siamo tutti bravissimi a fare le analisi e poi non sappiamo che pesci pigliare. Nel caso della sua analisi, in particolare, condivido la lista degli impresentabili e degli errori compiuti, ma a prenderle sul serio c’è il rischio che restiamo presentabili e infallibili solo lui e io, e qui anch’io mi tiro indietro, perché quanto ad errori non mi batte nessuno.

Sul consenso attorno a una campagna europeista, non ci si può rivolgere solo agli attuali elettori di sinistra, da Tsipras a Macron, come vorrebbe Renzi. In Italia, tanto “popolo” di sinistra ormai vota grillino, salvo diffidare delle giravolte a cinque stelle in Europa, prima con Farage poi con i liberali, tanto è uguale. Non raccontiamoci, però, che Salvini ha già scelto i poteri forti. Per ora, i poteri forti scelgono loro, e pur mirando ad allearsi con sinistra e liberali, si guardano le spalle candidando a Presidente della Commissione il bavarese Weber, al quale persino Orban pare più affidabile di Salvini.

Sulla comunicazione, i toni allarmisti sarebbero giustificati. I barbari sono davvero alle porte, e se entrano l’Unione è perduta. Se poi la sinistra non ottenesse un risultato sufficiente a condizionare le scelte europee, allora si condannerebbe all’irrilevanza anche nazionale. Ma né i “valori europei” né la retorica repubblicana funzionano più, neppure in Francia. La sinistra deve tornare a difendere interessi concreti: e qui il nemico da costruire sono i populisti, che delle donne, dei lavoratori e dei consumatori se ne fregano.

Demonizziamo i populisti, dunque, magari glissando sull’immigrazione, lì loro sono imbattibili, semmai parlando dell’emigrazione, quella dei nostri figli. Ricordiamo che populismo e sovranismo sono ricette di cucina nazionale, fuori dai confini producono solo maionesi impazzite. Un’internazionale sovranista, come il Movement assemblato da Steve Bannon, è assurda: i sovranisti sono nati per la guerra, commerciale e bellica, tipo Russia e Ucraina. Un’Unione sovranista sarebbe la fine dell’Europa: ma non delle burocrazie di Bruxelles, delle quali non importa a nessuno, bensì della nostra forma di vita europea, tollerante e solidale.


Quanto all’organizzazione, come al solito, sono molto meno esigente di Pellizzetti: per me, salvo Macron e Renzi, va tutto bene. Più che ai partiti, ripeto, pensiamo agli elettori: il M5S è isolato e irrilevante in Europa, dunque voti di sinistra per loro sarebbero buttati. Rivolgiamoci al suo elettorato di sinistra, dunque, con un soggetto transnazionale, civico e radicale, che difenda gli interessi dei giovani, delle donne, di tutti i soggetti penalizzati dalla globalizzazione. Adottiamo il mantra di Luigi Ferrajoli: la sinistra vuole proprio questo, la legge del più debole.

NOTE

[1] In lavori che stanno per uscire, su carta, in Ragion pratica (L’uomo della folla. La filosofia del diritto di Donald Trump) e online in Jura gentium (Dopo Romano: istituzioni, razionalità, populismo).

[2] Cfr. P. Pellizzetti, Otto tesi sull’Europa per cui varrebbe la pena battersi: un contromanifesto, ed E. Grazzini, Gallino, l’euro, lo spread, Salvini, Visegrad e l’impotenza della sinistra europeista

[3] Così già C. Mudde, The Populist Zeitgeist, in «Government and Opposition», 39/4, 2004, e poi B. Moffitt, The Global Rise of Populism: Performance, Political Style and Representation, Stanford U. P., 2016.

[4] Cfr. P. Corbetta, Tra ideologia debole e paradosso della leadership, in «Il Mulino», 5/2017 (per i cinque indici) e J.-W. Müller, Cos’è il populismo?, trad. it., Milano, Ube, 2018, p. 49 (per l’intuizione di «gradi di populismo»).

[5] Cfr. C. Mouffe, L. Mélenchon, Non c’è democrazia senza populismo, in «Micromega», 5/2015.

[6] Cfr. G. Da Empoli, La rabbia e l’algoritmo. Il grillismo preso sul serio, Venezia, Marsilio 2016, cit., p. 70.

[7] Sulla peculiare rappresentanza (o rappresentazione?) diretta populista, cfr. Urbinati 2014; Urbinati (2018).

[8] Per chi se la sia già dimenticata, è la deputata verde olandese che è riuscita a far condannare l’Ungheria di Orban.

[9] Cfr. ancora G. Da Empoli, La rabbia e l’algoritmo e soprattutto A. Dal Lago, Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra, Milano, Cortina, 2017.

[10] A questa vecchia intuizione di McLuhan apportano dati importanti gli psicologici comportamentali: cfr. D. Kahnemann, Pensiero lento e veloce, trad. it., Milano, Mondadori, 2012.

[11] Si compulsano i sondaggi e ci si butta sui temi che “tirano”, come il reddito di cittadinanza, evitando quelli divisivi, come l’immigrazione: cfr. G. Da Empoli, La rabbia e l’algoritmo, cit., p. 26.


[12] Basti pensare ai referendum francese e olandese sulla Costituzione europea, falliti su questioni di politica interna.

(14 settembre 2018)

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