sabato 8 settembre 2018

Elezioni europee. Rompiamo il falso schema “europeisti versus nazionalisti”.

L’orizzonte delle europee e la crisi della governance Ue.



Non siamo degli appassionati del rito elettorale, ma per la prima volta la scadenza di solito più inutile – le elezioni europee – assume un valore strategico.
E’ quasi sorprendente, visto che tutta la costruzione dell’Unione Europea è stata pensata per congelare dentro trattati di fatto non modificabili (se non all’unanimità, ossia mai) rapporti di forza temporanei e indirizzi di governance in grado di vanificare eventuali risultati elettorali divergenti in qualche singolo paese.
Come spiegava il cerbero Wolfgang Schaeuble in una riunione dell’Eurogruppo, “non si può assolutamente permettere ad un’elezione di cambiare nulla. Perché abbiamo elezioni ogni giorno, siamo in 19 e, se ogni volta che c’è una elezione, cambia qualcosa i contratti tra noi non significherebbero nulla”.

Tutta la costruzione, però, poggiava su una maggioranza politica che sembrava eterna: la grosse koalition su scala continentale tra “popolari” e “socialisti”. Ancora nel 2009 questa coalizione sfiorava i due terzi dei seggi a Strasburgo e quindi garantiva che qualsiasi scelta fatta nella formazione della Commissione (il “governo” europeo, quello che fa le leggi e le “raccomandazioni”, che controlla/contratta la stesura delle “leggi di stabilità” nazionali, ecc), o nel Consiglio Europeo, venisse approvata senza problemi.
I primi scricchiolii sono stati avvertiti già nel 2015, quando la maggioranza è scesa al 54%, mentre cresceva l’opposizione di destra che andava al governo in alcuni paesi, ed ora è diventata un protagonista problematico in quasi tutti. Esisteva anche un’opposizione di sinistra, molto variegata quanto ad orientamenti, ma politicamente ininfluente o subordinata ai “socialisti”.
Il crollo di questa coalizione in Italia (dove le filiali locali Forza Italia e Pd, come si vede meglio ora, hanno praticato per 25 anni la stessa identica politica: privatizzazioni, distruzione dei diritti del lavoro, tagli alle pensioni, precarizzazione, ecc, come “raccomandato” dalla Ue), e l’uscita della Gran Bretagna dal prossimo Parlamento, rendono ora “contendibile” la maggioranza.
L’allarme è stato fatto squillare nelle redazioni mainstream e nelle direzioni dei partiti politici “europeisti”, con la scontata chiamata a raccolta di tutte le forze “liberali ed europeiste” contro quelle “reazionarie e sovraniste”.
Le trappole di questo linguaggio sono innumerevoli – e ce ne occuperemo quanto prima – ma il ragionamento politico è semplicissimo: bisogna a tutti i costi mantenere a Strasburgo una maggioranza favorevole allo statu quo. Anche a costo di tirar fuori dall’armadio un frasario “antifascista” che era stato dimenticato da almeno un ventennio (per non disturbare membri del “partito popolare europeo” come l’ungherese Orbàn o gli alleati nazisti al governo in Ucraina, oltre ai segnali di “dialogo” con i fascisti all’interno di ogni paese; qui da noi i noti Veltroni, Violante, ecc), almeno quanto basta per facilitare l’accodamento di una parte della “sinistra”.
Lo schema descritto dalla narrazione è dunque classicamente bipolare – europeisti versus sovranisti – senza ammettere altri protagonisti. Lo si può vedere dalla cartina allestita dal Corriere della Sera, che in Francia neanche menziona France Insoumise di Jean-Luc Mélénchon (19,6% alle recenti presidenziali, e in crescita nei sondaggi), mentre continua a considerare rilevante il Partito Socialista (dato nei sondaggi ancora all’8%, ma in rapidissimo calo); oppure, in Germania, cancella Die Linke (che pure vanta un dignitoso 9,2% alle elezioni politiche di un anno fa), mentre enfatizza al massimo i razzisti dell’Afd (che avevano preso il 7%, ma crescono cavalcando la paura anti-immigrati).

Dal punto di vista delle classi sociali, questi due schieramenti corrispondono al grande capitale finanziario e multinazionale (“europeista” e “cosmopolita” per definizione) e alla piccola-media borghesia, nazionalista per insufficiente dimensione del capitale, dunque incapace di “competere” sul piano globale.
Per il nostro “blocco sociale” – lavoratori con qualsiasi tipo di contratto, pensionati, disoccupati, precari, studenti, migranti, poveri di tutte le etnie, ecc – non è prevista alcuna rappresentanza né diritto di parola. Al massimo, nella prospettiva dell’establishment neoliberista, viene auspicata una sua partecipazione, silenziosa e subordinatissima, al blocco “europeista”, usando lo spauracchio del fascismo alle porte e ramazzando frazioni della scompaginata “sinistra”.
Sul fronte interno il più chiaro nell’esplicitare questa partizione è stato Massimo Cacciari: Per le elezioni del 2019 ci vuole un progetto transnazionale che vada da Macron a Tsipras e possa sfidare i sovranisti. E lo faranno, non c’è alcun dubbio, perché ne va della loro sopravvivenza politica.
Che il fronte cosiddetto “sovranista” – in realtà banalmente nazionalista e retrogrado – sia una destra pericolosa e violenta, è assolutamente vero. E’ una destra che cavalca l’impoverimento generale (dai “ceti medi” a quelli popolari) causato dalla crisi economica fin dal 2008, aggravato da “politiche di austerità” pro-cicliche, a malapena rabberciate con il quantitative easing della Bce, ora agli sgoccioli.
Ma non è una destra realmente “anti-europeista”, ossia determinata a scassare la governance inscritta nei trattati. Sul piano economico, infatti, è altrettanto liberista del fronte “repubblicano”, con forse qualche condiscendenza in meno verso gli “investitori internazionali” che pretendono condizioni di favore (ma neanche questo è certo, viste le politiche fiscali adottate dai vari membri del “gruppo di Visegrad”).
Le politiche sociali sono grosso modo identiche, la “guerra ai poveri” accomuna senza problemi gli esponenti nazionali dei due fronti, tanto da renderli indistinguibili (a parte gli insulti reciproci). Dalla casa alle pensioni, dal reddito alle tutele del lavoro, non c’è tema in cui sia possibile riconoscere una differenza “forte”.
L’unico terreno che sembrerebbe distinguere i due schieramenti è quello dell’accoglienza verso i migranti, ma anche in questo caso le differenze reali sono molto minori di quelle sbandierate.
La Germania “europeista” di Angela Merkel (spesso contraddetta dal suo ministro dell’interno Seehofer) ha rapidamente ridotto la propria disponibilità ad accogliere ai soli “dotati di specializzazioni professionali utili” all’economia nazionale.
La Francia “repubblicana” di Macron – il più nazionalista dei sedicenti “europeisti” – si nota più per la durezza usata nei loro confronti (da Calais a Bardonecchia, con annesso sconfinamento in territorio italiano) che per la disponibilità a farli entrare.
In Italia Salvini ha sposato il “modello Minniti”, predecessore ai vertici del Pd, ma sbraita in modo decisamente più sguaiato, senza reali mutamenti sostanziali, coprendosi spesso di ridicolo (“Tripoli è un porto sicuro” le batte tutte…).
La chiusura dei confini è insomma generalizzata e risparmia, per ora, solo i migranti interni, quelli con passaporto Ue che, ricordiamolo, sono sempre e soltanto “migranti economici”, restituibili in qualsiasi momento al paese di provenienza, secondo le dottrine maggiormente in auge.
Dunque quello nazionalista e reazionario è un fronte che immagina “un’altra Europa”, altrettanto feroce sul piano economico e sociale interno, e blindata come una fortezza verso l’esterno. Ma niente affatto “alternativa”; molto poco diversa da quella attuale, insomma, solo con molte “facce nuove” decisamente poco presentabili.
Solo nello scenario italiano esiste un “terzo polo” non chiaramente collocabile in uno dei campi: i Cinque Stelle. La loro idea “strategica” – autodefinirsi “né di destra, né di sinistra” – era poco più di un furbata per cercare di sottrarsi alla classificazioni novecentesche. Ma in questa Unione Europea, attraversata da questo scontro, questa ideuzza non ha nemmeno il terreno dove essere coltivata. Impossibile qualificare Macron o Merkel come “sinistra”, mentre certamente sono “destra” i nazionalisti d’ogni lingua e risma… Fuori dalle chiacchiere sulla “legalità”, insomma, e dentro uno scontro intorno alle caratteristiche future della Ue, appaiono come il più classico dei vasi di coccio in mezzo alle palle da cannone.
A prima vista, dunque, c’è necessità soprattutto di uno schieramento continentale popolare assolutamente indipendente da questi due fronti. Ed è per fortuna in via di formazione, a partire dalla firma della Dichiarazione di Lisbona, che ha visto convergere France Insoumise, Podemos e il portoghese Bloco de Esquerra, nonché l’adesione di Potere al Popolo per l’Italia. In questa direzione sembra andare anche Aufstehen, il movimento tedesco che punta esplicitamente a superare il tradizionale bacino di Die Linke (ma che risente pesantemente del clima anti-immigrati tedesco), oltre a interessanti e niente affatto “minori” gruppi danesi, olandesi, sloveni, ecc.
Tutto bene, dunque? Non proprio… “A sinistra”, in Italia come altrove, sopravvivono – pur deperendo a vista d’occhio – nostalgie di “alleanze di centrosinistra”, mal celate spesso sotto confusissimi appelli ad “allargare” il campo antiliberista fino a comprendere frammenti di ceto politico dispersi e molto ondivaghi, senza radicamento sociale, privo quasi sempre di rappresentatività reale, storicamente disposto a quasi tutto. Una “irresistibile” voglia di pastrocchi che – per oggettiva debolezza numerica e di idee – fin d’ora pare destinata a subire, almeno in parte, la forza gravitazionale della nebulosa invocata da Cacciari (“da Macron a Tsipras).
Come sempre, critichiamo una logica politica, non qualche organizzazione particolare. Sappiamo bene che una “cultura” malamente sopravvissuta per 25 anni è diffusa in molti ambiti e in molte menti, e non può essere superata con un semplice atto di volontà o una “presa di coscienza” fulminea… Ma va superata, pena la scomparsa o la subordinazione definitiva di una soggettività autonoma di classe che abbia l’ambizione di esser riconosciuta “dalle masse”.
Su questo vogliamo perciò essere chiarissimi: noi vogliamo allargare la coalizione sociale antagonista (Potere al Popolo, il sindacalismo conflittuale, i movimenti sociali e territoriali, ecc) radicandola con forza dentro il nostro blocco sociale. Vogliamo crescere come quantità di attivisti e qualità politica organizzando la nostra gente per raggiungere obiettivi concreti, vitali, per migliorare le condizioni di vita e risvegliare il protagonismo sociale.
Per riuscirci abbiamo bisogno di percorrere le strade e tutti i luoghi dove si scontrano interessi di classe opposti; abbiamo bisogno di confrontare proposte e idee davanti a tutti, non di rinchiuderci in qualche sala a contrattare – “manuale Cencelli” alla mano – candidature marginali in cambio di silenzio complice sulle politiche sociali passate, presenti e future.
L’Europa è il teatro dove si gioca la partita, lo andiamo ripetendo da anni. E l’Unione Europea è il potere quasi-statuale che determina le politiche poi applicate all’interno degli Stati nazionali in apparente “autonomia”.
Rompere questa gabbia è la condizione per costruire una diversa comunità di Stati con priorità sociali opposte e alternative a quelle della Ue.
Non c’è futuro, per la nostra gente, né con gli “europeisti” del grande capitale, né con i nazionalisti delle “piccole patrie”. E’ ora di sgombrare il campo dalle cortine fumogene, dagli equivoci interessati e dal “pensiero bipolare” che ha ucciso quella che si autodefiniva “sinistra”.

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