Napolitano non può sciogliere di nuovo le Camere. Quindi se i partiti non riescono a formare un governo, c'è il rischio che quello vecchio debba restare in carica ancora a lungo. Poi il nuovo Capo dello Stato potrebbe indire altre elezioni.
l'espresso di Fabio Chiusi
Il sentiero che porta alla formazione di un nuovo governo è
intricato, intricatissimo. E, se tutto dovesse fallire, potrebbe
addirittura portare alla prosecuzione del governo Monti fino a
maggio, quando sarà eletto il nuovo presidente della Repubblica.
Ma per dipanare la matassa, e giungere a spiegare perché, bisogna andare con ordine. A partire dal risultato delle elezioni del 24 e 25 febbraio, che hanno assegnato al centrosinistra una maggioranza alla Camera ma non al Senato. A causa del flop nelle urne, nemmeno i voti dei montiani, come si pensava prima del voto, sono sufficienti a raggiungere quota 158 senatori. Cioè il minimo per potersi presentare da Giorgio Napolitano con solidi argomenti per chiedere l'affidamento dell'incarico per la formazione del nuovo governo.
Che fare dunque? Si devono cercare i voti mancanti in uno degli altri due poli. Nel Partito Democratico la discussione è accesa, ma la valanga di reazioni negative all'ipotesi di un «governissimo» con il Pdl, e soprattutto le parole pronunciate dal segretario Bersani dopo l'ennesima 'non vittoria', accreditano maggiormente l'idea che il centrosinistra li debba cercare proponendo un «governo di scopo» (cioè su pochi punti precisi) al MoVimento 5 Stelle. Il problema è che il suo «capo politico», Beppe Grillo, si è prima detto indisponibile a votare la fiducia a un eventuale governo Bersani, aprendo solo a valutazioni legge per legge. E poi ha ripreso un post del blogger Claudio Messora, virgolettandone su Twitter un passaggio chiave: «Se proprio Pd e Pdl ci tengono alla governabilità possono sempre votare la fiducia al primo governo M5S». Che poi è l'ipotesi di cui hanno parlato nelle scorse ore i sindaci Michele Emiliano e Luigi De Magistris.
Nell'attesa di capire se si tratti di una provocazione (magari un modo per sondare il terreno, e dissociarsi in caso di reazioni negative) o di una presa di posizione concreta, il cerino resta nelle mani di Bersani.
All'interno di un contesto che, se per il costituzionalista Michele Ainis è di «blocco istituzionale», secondo il collega e già candidato alle primarie del centrosinistra a Milano Valerio Onida, è al contrario di «blocco politico»: «Dal punto di vista costituzionale», spiega all'Espresso, «un governo si forma tutte le volte che ci sia un incaricato del presidente della Repubblica, si presenti alle Camere e ottenga la fiducia».
Certo, l'unicità della situazione in atto è che alla attuale mancanza di alchimie politiche che portino a una maggioranza si aggiunge la concomitanza con il «semestre bianco» di Napolitano: gli ultimi sei mesi del suo mandato in cui, secondo l'articolo 88 della Costituzione, non può sciogliere Camere appena formatesi. «Ma perché parlare già di scioglimento, sono appena state elette. E le parti hanno appena cominciato a trattare», dice Onida. Che aggiunge una possibile scappatoia per Bersani: il «governo della non sfiducia».
«Se i Cinque Stelle», spiega l'ex giudice costituzionale, «non dovessero votare esplicitamente la fiducia a un 'governo di scopo', l'altro sistema sarebbe non votarla ma astenersi, e quindi consentire comunque attraverso l'astensione che questo nuovo 'governo di scopo' vada avanti e poi intervenire nel processo legislativo e nelle decisioni parlamentari attuative». Il che significherebbe alla Camera, semplicemente, astenersi, e al Senato invece uscire dall'Aula, dato che gli astenuti si sommano ai contrari.
Una fattispecie già verificatasi nel 1976, quando furono i comunisti a renderne possibile l'esistenza, garantendo la sopravvivenza del governo allora presieduto da Giulio Andreotti senza farne parte, ma astenendosi dal votargli contro. Con il rischio, tornando a oggi, di lasciare al centrodestra la possibilità di far mancare il numero legale, e dunque provare a condizionare l'operato dell'esecutivo.
Insomma, anche un governo di minoranza sembra «improbabile», dice Alessandro Mangia, ordinario di Diritto costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza-Cattolica.
Ma per dipanare la matassa, e giungere a spiegare perché, bisogna andare con ordine. A partire dal risultato delle elezioni del 24 e 25 febbraio, che hanno assegnato al centrosinistra una maggioranza alla Camera ma non al Senato. A causa del flop nelle urne, nemmeno i voti dei montiani, come si pensava prima del voto, sono sufficienti a raggiungere quota 158 senatori. Cioè il minimo per potersi presentare da Giorgio Napolitano con solidi argomenti per chiedere l'affidamento dell'incarico per la formazione del nuovo governo.
Che fare dunque? Si devono cercare i voti mancanti in uno degli altri due poli. Nel Partito Democratico la discussione è accesa, ma la valanga di reazioni negative all'ipotesi di un «governissimo» con il Pdl, e soprattutto le parole pronunciate dal segretario Bersani dopo l'ennesima 'non vittoria', accreditano maggiormente l'idea che il centrosinistra li debba cercare proponendo un «governo di scopo» (cioè su pochi punti precisi) al MoVimento 5 Stelle. Il problema è che il suo «capo politico», Beppe Grillo, si è prima detto indisponibile a votare la fiducia a un eventuale governo Bersani, aprendo solo a valutazioni legge per legge. E poi ha ripreso un post del blogger Claudio Messora, virgolettandone su Twitter un passaggio chiave: «Se proprio Pd e Pdl ci tengono alla governabilità possono sempre votare la fiducia al primo governo M5S». Che poi è l'ipotesi di cui hanno parlato nelle scorse ore i sindaci Michele Emiliano e Luigi De Magistris.
Nell'attesa di capire se si tratti di una provocazione (magari un modo per sondare il terreno, e dissociarsi in caso di reazioni negative) o di una presa di posizione concreta, il cerino resta nelle mani di Bersani.
All'interno di un contesto che, se per il costituzionalista Michele Ainis è di «blocco istituzionale», secondo il collega e già candidato alle primarie del centrosinistra a Milano Valerio Onida, è al contrario di «blocco politico»: «Dal punto di vista costituzionale», spiega all'Espresso, «un governo si forma tutte le volte che ci sia un incaricato del presidente della Repubblica, si presenti alle Camere e ottenga la fiducia».
Certo, l'unicità della situazione in atto è che alla attuale mancanza di alchimie politiche che portino a una maggioranza si aggiunge la concomitanza con il «semestre bianco» di Napolitano: gli ultimi sei mesi del suo mandato in cui, secondo l'articolo 88 della Costituzione, non può sciogliere Camere appena formatesi. «Ma perché parlare già di scioglimento, sono appena state elette. E le parti hanno appena cominciato a trattare», dice Onida. Che aggiunge una possibile scappatoia per Bersani: il «governo della non sfiducia».
«Se i Cinque Stelle», spiega l'ex giudice costituzionale, «non dovessero votare esplicitamente la fiducia a un 'governo di scopo', l'altro sistema sarebbe non votarla ma astenersi, e quindi consentire comunque attraverso l'astensione che questo nuovo 'governo di scopo' vada avanti e poi intervenire nel processo legislativo e nelle decisioni parlamentari attuative». Il che significherebbe alla Camera, semplicemente, astenersi, e al Senato invece uscire dall'Aula, dato che gli astenuti si sommano ai contrari.
Una fattispecie già verificatasi nel 1976, quando furono i comunisti a renderne possibile l'esistenza, garantendo la sopravvivenza del governo allora presieduto da Giulio Andreotti senza farne parte, ma astenendosi dal votargli contro. Con il rischio, tornando a oggi, di lasciare al centrodestra la possibilità di far mancare il numero legale, e dunque provare a condizionare l'operato dell'esecutivo.
Insomma, anche un governo di minoranza sembra «improbabile», dice Alessandro Mangia, ordinario di Diritto costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza-Cattolica.
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