sabato 30 marzo 2013

Morto Enzo Jannacci, una vita in “scarp del tennis” tra teatro e canzone

Il cantautore milanese è morto a 77 anni dopo una lunga malattia. Ha scritto canzoni di grande successo come "Vengo anch'io/no tu no" e testi sociali come "La fotografia" e "Se me lo dicevi prima", ma è stato soprattutto un artista poliedrico, mai banale, capace di destreggiarsi tra scrittura impegnata e cabaret.

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Morto Enzo Jannacci, una vita in “scarp del tennis” tra teatro e canzone

Era rimasto sospeso tra la medicina e la musica. Lui diceva, un po’ per scherzo e un po’ per davvero, che si dilettava soprattutto nella poetastrica. Sicuramente Enzo Jannacci, pugliese trapiantato a Milano, è stato un grande intellettuale, come diceva Dario Fo.
E’ stato molto, probabilmente senza mai saperlo. Ci sono dei capolavori che ci hanno accompagnati per una vita, e non una o due, ma molte più generazioni. Perché Enzo era lì, inconsapevole e senza colpa, il giorno del primo bacio, c’era nelle vacanze e nei ritorni. Ci ha fatto compagnia nei momenti felici e di dolore, come questo, come tutti quelli che lo hanno amato smisuratamente e sapevano di quel male che se lo stava consumando. Dario Fo, pochi giorni fa al telefono, mi aveva detto: “Il male se lo sta consumando. Povero ragazzo”. E solo Fo poteva permettersi di chiamarlo ragazzo, perché Jannacci è stato maestro per molti (Cochi e Renato, Lino Toffolo, Diego Abatantuono, e in parte ci azzardiamo a dire che fu fratello minore, ma anche maggiore di Adriano Celentano e Giorgio Gaber) ma lui di maestro ne ha avuto uno solo, Dario Fo.
Se ne va una certa Milano, con Enzo, la Milano che non esiste più, chiusa tra il bar Jamaica, il Giambellino, Porta Lodovica e viale Monte Rosa, la Milano raccontata da Vittorio De Sica, ma anche da Mario Monicelli (Romanzo Popolare, con Ornella Muti e Ugo Tognazzi), quella Milano della Vita Agra di Luciano Bianciardi, che di Enzo fu amico e primo estimatore.
A raccontarlo, Jannacci, non basterebbe un libro. Perché relegarlo come ha fatto certa critica alla sua milanesità sarebbe ingiusto. E’ arrivato sempre primo, senza andare fuori tempo. Ha cantato in dialetto milanese, quando nessuno si sarebbe azzardato a farlo. Ha fatto lo stralunato in una tv che non permetteva sgarro a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Giocava con le parole, ma mica tanto. Perché raccontava quelle persone che nessuno aveva mai osato. Barboni, prostitute, gente di malavita. Raccontava Milano, anche, ma con un occhio su tutto il resto del Paese. Riascoltatevi “Sun chi”, firma sua e del maestro Dario. Racconta di quelli del Sud che arrivavano con la “piena”, e alla fine tutti abbiamo un nonno un parente che da quella piena del boom economico risorse per poi venirne soffocato. Era l’Italia, non era Milano.
Lo fece con la musica migliore e con grande leggerezza. “Solo Jannacci”, scrive Gianni Mura, “avrebbe potuto raccontare la storia di un soldato terrone e chiamarlo Nencini, un cognome toscano”. Ma a Jannacci veniva bene tutto. Alternava momenti di schizofrenia recitata a grande poesia. Basta pensare a Vincenzina e la fabbrica, scritta da lui e Beppe Viola, altro fratello maggiore e minore. Monicelli ne fece Romanzo Popolare, uno delle opere maggiori. E volle Jannacci e Viola a riscrivere i dialoghi in milanese.
Ci furono gli anni della Rai, ma soprattutto quelli del Derby dove crebbe una generazione di artisti e genialoidi. Giovane, ma Jannacci era già considerato il maestro. Faceva il direttore artistico di quel locale in viale Monte Rosa, dove si iniziava a vedere la Milano da bere, fatta da Craxi, Pillitteri, un ancora costruttore Silvio Berlusconi. Due o tre tavoli a fianco sedeva anche Francis Turatello, ammazzato qualche anno dopo nel carcere di Badu ‘e Carros, a Nuoro.
 Jannacci una sera si alzò e andò a lavorare con Barnard, il cardiochirurgo. Ma tornò indietro, perché un’ernia al disco gli impediva di stare troppe ore in piedi e operare. Era avviato a una carriera medica di grande livello (lavorò in Sudafrica e Negli Stati Uniti), ma tornò a casa. Prima in ospedale a consumare guardie, poi in ambulatorio a curare le stesse persone di cui la notte raccontava.
Lascia tanti orfani, lascia due maestri, Fo, appunto, e per certi versi Mina che, giovanissima, capì chi era Enzo e incise un indimenticabile “Mina canta Jannacci”. Non basta, non basta assolutamente, perché raccontare Jannacci rischia di farci esagerare per chi lo ha considerato più di un poetastro.
Le parole più delicate, forse quelle per Franca Rame, la moglie di un amico, ma anche l’attrice capace di fare un teatro diverso dagli altri. A volte Jannacci prendeva la Vespa e andava fino a casa di Dario Fo. “Diceva che non mi capiva mai la Franca, che mi mangiavo le parole, allora mi preparavo i discorsi e lei rideva”. Si prendevano in giro, di quelle risate che solo un divano e i pomeriggi tra chi si conosce possono raccontare.
“Una donna bellissima la Franca, meravigliosa. Ma per carità, era la moglie di Dario, io sono di tradizioni antiche”, diceva ridendo e poi: “Fa una cosa difficile, lei fa del teatro vero. E questo perché sa spartire il pezzo di pane. Non è una persona che vuole aiutare solo se stessa. Non è una che spintona per farsi vedere”. Essere visti senza spingere perché altrimenti non si può fare, la vita intera di Jannacci.

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