I
fatti hanno la testa dura, recita un famoso proverbio inglese. E prima o
poi costringono anche le teste meno brillanti a rivedere la propria
“visione” delle cose, perché le cose stanno disposte in modo diverso – e
spesso opposto – a quello che si era creduto fin lì.
“A sinistra” il fatto di cui non si vuole spesso neanche parlare è la natura dell’Unione Europea. Accettata la narrazione tossica fatta dai ceti dominanti che ne dirigono la struttura decisionale, traendone il massimo beneficio, questo “sistema di trattati commerciali” è stato descritto come creatore di pace, occasione di sviluppo per tutti, argine ai populismi e alle destre nazionalistiche, luogo dei diritti civili, tempio della laicità e via favoleggiando.
Neppure l’accettazione dei nazionalisti di destra come “compari di strada” accettabili e accettati – si veda il caso del neo-cancelliere austriaco Sebastian Kurz – ha fatto fin qui cambiare idea a chi non ne ha una di riserva.
Pubblichiamo qui questo intervento di Carlo Galli, apparso sul suo blog Ragioni politiche, in cui il percorso mentale e politico della “vasta sinistra” degli ultimi 30 anni viene smontato come un castello di foglie morte, indicandone anche i massimi responsabili.
Carlo Galli non è – notoriamente – un pericoloso estremista con strane simpatie populistiche, ma un rispettato professore di Storia del pensiero politico, con una lunga carriera sia accademica che dentro la “sinistra” italiana, fino a diventare deputato del Pd, poi in Sel e infine con Bersani in Articolo 1.
Diciamo che è un intellettuale che ha conservato la capacità di vedere come le cose funzionano, al di là delle “etichette” che ci appiccichiamo addosso per riconoscerle senza faticare troppo col cervello.
*****
Nonostante
la sua critica dello Stato come organo politico dei ceti dominanti,
nonostante il suo internazionalismo, la sinistra in Occidente ha
sviluppato la sua azione all’interno dello Stato: ha cercato di prendere
il potere e di esercitarlo al livello dello Stato, ha investito nella
legislazione statale innovativa, e nella difesa e promozione della
cittadinanza statale per i ceti che ne erano tradizionalmente esclusi.
Nella sinistra agiva l’impulso a considerare lo Stato come una struttura
politica democratizzabile, sia pure a fatica; mentre le strutture
sovranazionali erano per lei deficitarie di legittimazione popolare. La
sinistra italiana, per esempio, fu ostile alla Nato (comprensibilmente)
ma anche alla Comunità Europea. E in generale le sinistre difesero
gelosamente le sovranità nazionali e si opposero a quelle che definivano
le ingerenze dei Paesi occidentali nelle faccende interne degli Stati
sovrani dell’Est, quando qualcuno protestava perché vi venivano
calpestati i diritti umani. L’internazionalismo della sinistra rimase al
livello di generica approvazione dell’esistenza dell’Onu, di più o meno
platonica solidarietà per le lotte dei popoli oppressi, e di sempre più
cauta collaborazione con i partiti comunisti fratelli.
L’internazionalismo inteso come spostamento del potere fuori dai confini
dello Stato, avversato dalle sinistre, fu invece praticato
vittoriosamente dai capitalisti e dai finanzieri.
Caduta
l’Urss, la sinistra aderì entusiasticamente al nuovo credo globale
neoliberista e individualistico, e alla critica dello Stato (soprattutto
dello Stato sociale) e della sovranità – oltre che dei sindacati e dei
corpi intermedi – che esso comportava. L’idea dominante era che la
sinistra di classe non era più ipotizzabile perché le classi non
esistevano più, e perché vi era ormai una stretta comunanza d’interessi
fra imprenditori e lavoratori. La giustizia sociale era un obiettivo
raggiungibile solo se si lasciava che il mercato svolgesse la propria
funzione di generare la crescita complessiva della società: la politica
era solo un accompagnamento di processi di sviluppo in realtà autonomi.
Gli inconvenienti del mercato si dovevano correggere nel mercato. Sono
state le sinistre a introdurre il neoliberismo in Europa: Blair, Delors,
Mitterand, Schroeder, Andreatta, D’Alema, Bersani. La sinistra storica
divenne così un partito radicale di massa, schiacciato sulle logiche
dell’establishment
e sulla sua gestione, impegnato – senza esagerare – sui diritti umani e
civili visti come sostitutivi dei diritti sociali. Una sinistra dei
ceti abbienti e cosmopoliti, incapace di interrogare radicalmente i
modelli economici vigenti, le strutture produttive e le loro
contraddizioni.
La
critica alle storture, alle disuguaglianze, alla subalternità del
lavoro, che invece si manifestarono nelle società occidentali
soprattutto a partire dalla Grande crisi del 2008, e alla logica
deflattiva dell’euro ordoliberista – con cui l’Europa volle giocare la
propria partita nel mondo globale –, fu lasciata alle sinistre radicali
(Tsipras, Corbin, Mélenchon, e negli Usa Sanders), generose ma anche
confusionarie, e per ora minoritarie, e ai movimenti populisti e
sovranisti spesso di destra, che oggi intercettano il bisogno di
protezione e di sicurezza di gran parte dei cittadini. Che sono
preoccupati per la propria precarietà economica, per il declassamento
sociale e per i migranti, visti come problema di ordine pubblico ma
anche come competitori per le scarsissime risorse che lo Stato destina
all’assistenza e al welfare.
Le destre politiche approfittano, come sempre, dei disastri provocati
dalle destre economiche (e dalle sinistre che hanno dimenticato se
stesse).
Mentre
la sinistra deride e insulta gli avversari politici, grida al fascismo
fuori tempo e fuori luogo (banalizzando una tragedia storica), e di
fatto nega i problemi reali rispondendo alle ansie dei cittadini con
prediche moralistiche e con la proposta di dare a Balotelli la maglia di
capitano della nazionale, come segno anti-razzista, la destra politica e
i populisti quei problemi li riconoscono e ne approfittano.
Naturalmente, la interpretazione che ne danno è più che discutibile: i
migranti e la casta (bersagli dei populisti e delle destre) non sono i
principali responsabili della crisi e della disgregazione che ha colpito
il Paese. Ma almeno queste forze anti-establishment porgono ascolto ai cittadini, che infatti li votano, mentre non votano le sinistre, che fanno sterile e superficiale pedagogia mainstream,
e che ora scoprono con stupore di essere confinate nei quartieri alti,
mentre nelle periferie degradate il proletariato e i ceti medi
impoveriti – che ancora esistono, nonostante le analisi di sociologi non
troppo perspicaci – votano destre e populisti.
In
questo contesto, i sovranisti di sinistra (che non si possono definire
“rosso-bruni”, che vuol dire “nazi-comunisti” – ed è un po’ troppo –)
cercano di recuperare il tempo e lo spazio perduti dalle sinistre liberal
e globaliste. Cercano insomma di sottrarre la protesta sociale alle
destre, e tornano così allo Stato, nella consapevolezza che senza
rimettere le mani su questo e sulla sovranità – che è un concetto
democratico, presente nella nostra Costituzione, e che di per sé non
implica per nulla xenofobia e autoritarismo – non ci si può aspettare
alcuna soluzione dei nostri problemi, che non verrà certo da quelle
potenze sovranazionali che li hanno creati (naturalmente, esistono forti
responsabilità anche interne del nostro Paese, che andranno
affrontate). Ovviamente è una strategia rischiosa, non garantita, forse
anti-storica (ma lo Stato, in ogni caso, è ancora il protagonista della
politica mondiale); e, altrettanto ovviamente, facendo ciò le sinistre
sovraniste sposano, entro certi limiti, gli argomenti della destra, e ne
condividono i nemici (la sinistra moderata – mondialista e europeista
–, e il capitale globale). Ma se la sinistra sovranista sa fare il
proprio mestiere riesce a distaccarsi chiaramente dalla destra politica
perché è in grado di dimostrare che questa dà a problemi veri risposte
parziali, illusorie e superficiali: la destra va sfidata non sui
migranti, ma sulle politiche del lavoro; non sui vitalizi, ma sulla
critica della forma attuale del capitalismo; non sull’euro, ma sulla
capacità del Paese di non essere l’ultima ruota del traballante carro
europeo; non sul nazionalismo, ma su un’idea non gerarchica di Europa.
La sinistra sovranista – che è meglio definire radicale – ha il compito
di dimostrare che destre e populismi sono l’altra faccia del
neoliberismo e della globalizzazione che dicono di combattere; che sono
apparentemente alternativi ma che in realtà ne sono subalterni.
Siamo
alla fine del ciclo democratico e progressivo apertosi con la vittoria
sul fascismo: una fine sopraggiunta dapprima nelle strutture economiche,
e ora nel pensiero e nella pratica politica. In campo, duramente
contrapposte ma complementari, ci sono establishment e anti-establishment: due destre, una economica (a cui è di fatto alleata la ex-sinistra liberal)
e l’altra politica, l’una moderata e l’altra estrema. Lo spazio della
sinistra non è accostarsi ai moderati, né mimare gli estremisti di
destra, ma praticare la profondità, la radicalità dell’analisi; il suo
compito è dimostrare che il cleavage destra/sinistra esiste ancora, ma è nascosto, e complesso. E che per il bene di tutti lo si deve fare riaffiorare.
Foto di Patrizia Cortellessa
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