Quando utilizzo l’aggettivo “partigiano” non mi riferisco solo alla
Resistenza italiana, alla guerra contro il nazismo e il fascismo.
Utilizzo “partisan” nel suo senso letterale: “chi è di parte”.
fb Solange De Mesmaeker
E’ un
riferimento a qualcosa più estesa della lotta di Liberazione italiana.
Questo perché la memoria non è un esercizio di analisi imparziale ma un
terreno di guerra guerreggiata tra differenti visioni del mondo. Questo
libro è un atto d’amore verso una memoria partigiana per impedire che la
storia la scrivano soltanto i “vincitori”.
Tutta la storia degli
anni ’70 e della lotta armata in Italia è stata ridotta a un solo
evento, il rapimento di Moro da parte delle Brigate rosse il 16 marzo
1978 e questa storia è stata completamente trasfigurata. La narrazione
ufficiale ha cancellato venti anni di lotte, i referimenti di classe, le
conquiste e la prospettiva rivoluzionaria. Ha cancellato tutto quello
che succedeva nelle fabbriche dove noi siamo nati e il sostegno degli
operai che ci ha permesso persino di fare azioni militari dentro i
reparti.
Inoltre il tentativo del potere finalizzato a dimostrare che l’azione è stata inquinata dall’infiltrazione dei servizi segreti.
La deformazione del significato di quella azione è stata resa possibile
isolandola dal processo di sviluppo della strategia della lotta armata
(dall’attacco alle gerarchie di fabbrica a quello al cuore dello Stato),
processo che l’ha resa possibile e necessaria come elemento rilevante
in quella fase di scontro. E, oltre alla criminalizzazione delle BR,
quella operazione controrivoluzionaria è finalizzata a mettere
un’ipoteca per il presente e il futuro, per le lotte attuali. Ossia
serve a sequestrare ogni ipotesi di trasformazione dell’esistente
attraverso un paradigma semplicato: i processi rivoluzionari non sono
possibili, non sono interni ai movimenti di massa e quasi sempre
infiltrati da forze occulte. Tutto è stato fatto per impedire la
storicizzazione di venti anni di storia italiana. E’ come se, dopo
quaranta anni dagli avvenimenti, si trattasse di fatti di cronaca, di
attualità, come fossero accaduti ieri e quindi fosse impossibile farne
una ricostruzione storica. Questo impedisce soprattutto di comprendere
il contesto politico e sociale in cui sono avvenuti e che potrebbe
spiegare come siano stati possibili circa 15 anni di guerriglia
comunista in un paese come l’Italia, con la sua democrazia parlamentare e
la sua economia a capitalismo avanzato. Oggi questa semplice questione è
oscurata da mille falsi intrighi e misteri perché avrebbe la capacità
di fare luce sulle responsabilità politiche del Pci e della Dc in quegli
anni di scontro sociale e sulla ristrutturazione capitalistica che
presto si è rivelata per quello che era: disoccupazione,
precarizzazione, maggiore sfruttamento e rimessa in causa di tutte le
enormi conquiste che sono state ottenute grazie alle lotte degli anni
’70. E per questo continua a essere necessario lasciare nell’ombra non
solo quelle politiche reazionarie ma persino le responsabilità delle
forze politiche durante il sequestro di Aldo Moro.
In ogni caso
adesso tocca a voi, alle nuove generazioni, agire politicamente. Il
mondo in cui siete immersi non è sempre esistito così com’è. Per questo è
importante restituire una memoria partigiana e trasmetterla, a voi in
particolare. Il mondo attuale è il risultato di uno scontro e di una
sconfitta, che è stata internazionale. Quello che vediamo oggi, ovunque
poggiamo lo sguardo, è una involuzione delle condizioni di esistenza di
milioni di persone e dello stesso pianeta. Ma non è stato sempre così.
Dovete conoscere cosa è accaduto prima. Dovete comprendere dove tanti
processi rivoluzionari del ‘900 si sono arenati. E non per mancanza
delle loro ragioni, perché è certo che la ragione non è dei “vincitori” e
lo stato del mondo attuale lo dimostra. Un mondo in cui il profitto
capitalistico sta mettendo in pericolo la vita stessa eppure dove è
diventato tanto difficile lottare e, soprattutto, vincere. Dovete
imparare a essere partigiani, prendere parte. E la parte giusta è sempre
la stessa, non è cambiata! Ma non si può capire il presente a partire
dal 2017, bisogna tornare indietro con la memoria.
Da parte
nostra, l’origine della nostra cultura politica (prima ancora del
passaggio alla lotta armata) si colloca nello scontro di una classe
operaia diversa da quella tradizionale, quella che è insorta a piazza
Statuto a Torino nel 1962. In quelle giornate è nata una nuova
conflittualità perché quegli operai, che venivano in gran parte dal sud
d’Italia, che erano immigrati, che non erano inquadrati nella logica di
partiti e sindacati che li condannavano come provocatori, erano
l’espressione di una classe operaia nuova. Che voleva tutto. Che voleva
il sole, la fine dello sfruttamento, che voleva entrare nei bar di
Torino senza farsi cacciare, che non faceva coincidere i propri
interessi con quelli del padrone, che quindi non poteva accontentarsi
delle briciole ma doveva cambiare lo stato delle cose. Che aveva una
radicalità nei suoi modi di esprimersi e lottare perché poneva la
questione del potere. Se questa classe operaia non fosse esistita, tutto
il resto non sarebbe esistito per come l’abbiamo conosciuto. Non ci
sarebbero state neanche le Brigate Rosse.
Dans le livre…
Si, i
fatti del Cile sono stati fondamentali per le mie scelte future. Per la
definitiva frattura con la politica del Pci che, di fronte al colpo di
stato contro il governo di Allende, un governo legittimato dal voto
popolare, portò a compimento l’alleanza con la Dc, cioè con il partito
che per noi era il partito della reazione, dei padroni, dello stragismo e
del terrorismo di Stato. Per il movimento rivoluzionario quel massacro
significò la definitiva sfiducia nei confronti della democrazia borghese
e la messa all’ordine del giorno della necessità della lotta armata se
volevamo difendere la nostra vita e continuare a lottare. Ma in
“Compagna Luna” non ho voluto fare la storia di quegli anni, né un
saggio di politica. Penso siano gli storici e gli studiosi a doverlo
fare. Io ho voluto restituire l’interezza della mia esperienza di vita
che è simile a quella della maggior parte degli altri militanti delle
Br. Per restituire il percorso e il senso di una scelta politica. Questo
perché ci hanno descritti come delle sagome di cartone, delle
marionette. Nati e cresciuti dentro la parentesi della lotta armata,
senza una provenienza di classe, una famiglia d’origine, senza
esperienze di lotta, senza un percorso nel movimento rivoluzionario.
Come fossimo venuti da Marte, del tutto estranei alle dinamiche
politiche e sociali del contesto italiano e internazionale che, come
degli invasati, un giorno ci siamo messi a sparare, così senza ragione.
Degli alieni dall’origine misteriosa. Per questo ho scelto di raccontare
la mia vita a partire dall’infanzia, per togliere le parentesi,
restituire l’interezza di un percorso e la faccia di tanti militanti
delle Br, tanto simile alla mia. Come per dire: “Sono io, sono sempre
stata io nelle differenti stagioni della mia vita”. I miei compagni
sono cresciuti nelle lotte di fabbrica, nelle lotte dei quartieri
proletari, nei movimenti degli studenti. Non c’è stato un solo
intellettuale famoso tra noi, a fronte di una capacità incontestabile di
analisi delle trasformazioni dello Stato e della globalizzazione
dell’economia. E non c’è stato un solo piccolo-borghese stravagante in
cerca di avventure né qualche militante di origine e percorso
sconosciuti. Ecco perché è importante ricostruire chi siamo, da dove
veniamo, che esperienze abbiamo accumulato perché il ritratto che hanno
disegnato su di noi è inaccettabile e ha messo una coltre di
insensatezza e ambiguità sulla nostra storia, che è la storia di una
fortissima avanzata rivoluzionaria nel mio paese.
Tutte le
speranze e le lotte di un’epoca in cui si è pensato di migliorare la
propria condizione sociale col passaggio dall’agricoltura
all’industrializzazione, si sono rivelate un fallimento. In un certo
senso è lo stesso fallimento del socialismo a livello internazionale
perché, nella sostanza, non si è riusciti a costruire un sistema di
produzione differente da quello capitalistico. Fondare la possibilità
d’una transizione al comunismo sullo sviluppo illimitato delle forze
produttive, ha mostrato tutta la sua debolezza: Tchernobyl è là a
dimostrarlo. Questa è stata un’illusione che ha contagiato tutti i
movimenti rivoluzionari, cioè l’illusione che il capitalismo ci avrebbe
lasciato in eredità la tecnologia, gli strumenti tecnici che ci
avrebbero liberato dalla fatica, dalla necessità del lavoro come fosse
un passaggio automatico. Ma quello che funziona all’interno del sistema
capitalistico, finalizzato al massimo profitto, non può funzionare in un
sistema diverso che, al contrario, dovrebbe perseguire la buona vita di
tutti. Il ‘900 si dice sia stato il secolo delle guerre e delle
rivoluzioni. Nonostante i fallimenti c’è da imparare molto da quello che
ci ha insegnato visto che oggi rimangono solo le guerre.
Tout au long du livre…
Io non ho partecipato al movimento femminista perché quello che mi
interessava in quegli anni era la rivoluzione per il comunismo, lo
scontro di classe e non quello di genere. Perché, secondo l’influenza
del pensiero tradizionale, la politica a cui ho aderito era quella dei
“due tempi” secondo la quale era il rovesciamento politico ed economico
del potere della borghesia la condizione indispensabile per poter
rivoluzionare anche gli altri rapporti sociali, compresi quelli tra i
sessi. Pensavo questo nonostante sapessi, e l’ho anche scritto nel
libro, che le donne che hanno partecipato attivamente alle rivolte del
passato sono state in seguito relegate nei ruoli subordinati di sempre.
Questo è successo ovunque, nella tradizione comunista italiana nella
resistenza antifascista come nella lotta anticoloniale d’Algeria. Io ero
dunque ben cosciente della contraddizione di genere ma non mi
riconoscevo nella politica delle compagne che si allontanavano dal
movimento rivoluzionario per costruire gruppi femministi,
interclassisti, pacifisti, elitari. Il patriarcato è senza dubbio un
pilastro del sistema capitalistico, ma è appunto del sistema
capitalistico che stiamo parlando. Il movimento di emancipazione delle
donne, nella sua espressione maggioritaria, non era interessato alle
differenze di classe, non portava avanti una lotta contro il capitale e
questo è stato un fattore discriminante per me.
C’est una défaite …
E’ vero, dopo l’82, malgrado la catastrofe, i pentimenti e i
tradimenti, malgrado gli arresti, i morti ammazzati e la tortura,
c’erano ancora compagni pronti a entrare nelle Brigate Rosse. Abbiamo
continuato a combattere pensando che fosse necessario resistere fino a
superare una fase negativa. Non avevamo capito che si trattava della
fine di un’epoca, che il 20mo secolo stava finendo. Che il paradigma
rivoluzionario del 20mo secolo non era più in grado di battere i piani
di ristrutturazione capitalistica, a partire dalla fabbrica post
fordista, alle delocalizzazioni della produzione, al primato della
speculazione finanziaria, alla guerra permanente. Le idee sul partito,
sullo stato, sulla conquista del potere e la dittatura del proletariato,
a fronte di una transizione al comunismo che non si è realizzata da
nessuna parte, non avevano avuto gli esiti sperati. Ma tutto questo non
era facilmente comprensibile dentro una condizione che non lasciava
alcuna libertà di scelta oltre alla resa. Io, in ogni caso, non l’ho
compreso e il fatto che ci fossero ancora compagni disponibili malgrado
la durezza della lotta – che in quel periodo fu veramente terribile – ha
contribuito a farci pensare che bisognasse resistere per superare un
momento di così grande difficoltà. Non avevamo capito che fosse finita.
Perché quel movimento operaio e proletario che ci aveva fatti nascere e
sviluppare, che ci aveva sostenuto, era stato battuto, era finito e
anche noi eravamo finiti insieme a lui. Noi che siamo stati
l’espressione di avanguardia di quella figura sociale non potevamo che
morire. Ma non era facile chiudere un’esperienza politica come la
nostra. Non potevamo dire: “La nostra storia finisce qua” e tornarcene a
casa. Avevamo centinaia di compagni in galera con pene pesantissime da
scontare. Che potevamo fare? Arrenderci allo Stato? Il nostro era stato
uno scontro del tipo “tutto o niente”, senza mediazioni. O si vince o si
perde. E perdere significava perdere tutto, l’intera partita, senza
tempi supplementari. Per quelli rimasti – e io sono stata una di loro –
era estremamente difficile governare un passaggio come quello. E, in
effetti, non è stato governato. La nostra debolezza era più politica che
militare. Nell’81 abbiamo organizzato tre sequestri contemporaneamente,
l’anno dopo abbiamo dichiarato guerra agli USA col rapimento di un
generale americano, eroe della guerra del Vietnam! Ma la nostra proposta
politica non era più all’altezza dello scontro che conducevamo e questo
ha avuto una tragica conseguenza su molti militanti. Compagni con cui
si era combattuto fianco a fianco fino al giorno prima, che di colpo
tradivano. Non bastava definirli bastardi, prendere distanza, imponevano
una riflessione politica. Come era stato possibile? Certo, c’era stata
la tortura e gli elettrodi sui genitali che possono costringere a dare
informazioni. Tutti i rivoluzionari di ogni tempo si sono dovuti
misurare con la tortura e i suoi effetti e prendere le contromisure
perché i rivoluzionari non sono come i super eroi dei fumetti. Ma
tradire, passare nel campo nemico non è come farsi strappare qualche
informazione in una caserma. Il tradimento imponeva la soluzione di un
problema politico che andava oltre la debolezza dei singoli. Bisognava
porsi il problema, in una situazione fin troppo piena di problemi.
Quando ti trovi di fronte al fatto che un avvenire migliore che pensavi
fosse vicino, diventi molto lontano, prendere atto della sconfitta è
molto difficile. La figura dello sconfitto non è bella da vedersi. Non
va di moda. Ti senti dire: ”Sei tu che hai perso, non io”; “Tu hai perso
perché hai avuto il torto di fare quello che hai fatto, noi no; noi
continuiamo a fare politica come sempre”. Un livello veramente esaltante
della riflessione! Ma se non si ammette che la sconfitta è stata di
tutti, se non si guarda in faccia la sconfitta, non è possibile capirne
le cause, e si può o rinnegare tutto o continuare sulla stessa strada
fallimentare. Ripetere le esperienze già fatte in un mondo profondamente
cambiato non è certo una grande idea. Ci dobbiamo prendere le nostre
responsabilità e ammettere, in tutta sincerità, che abbiamo provato ma
abbiamo fallito. E lo possiamo fare senza titubanze perché non è il
fallimento di un’ideale ma di parte di una pratica e di una teoria che
hanno sostenuto i processi rivoluzionari del ‘900 e che non sono più
adeguate alle nuove condizioni. E’ dunque questo che bisogna sistemare e
tocca a voi farlo. E se non capite dove il cammino si è inceppato non
potrete farlo. Dovete fare un’analisi approfondita per poter portare una
critica ancora più radicale al sistema capitalistico. Un sistema basato
sull’individualismo, sul consumo indotto, sull’economia del debito,
sullo sfruttamento feroce di tutto ciò che esiste, sulla ricchezza in
pochissime mani e sulla guerra permanente. E allora bisogna smettere di
farlo funzionare e inventarsi forme antisistema basate su condizioni di
vita rese possibili più dal governo dei beni comuni che dal mercato.
Bisogna rompere la catena degli obblighi che scadenzano le nostre
scelte, il nostro tempo, le nostre propensioni, che hanno smesso da
molto tempo di migliorarci la vita e sono diventate tante gabbie, tante
trappole, tanti mutui da pagare. Bisogna recuperare un valore che a mio
avviso è istintivo nell’essere umano: l’autogoverno, ossia la
costruzione di una rete di solidarietà, di mutuo soccorso, di messa in
comune di beni non solo materiali per poter vivere, studiare, consumare,
produrre, lavorare per decisione collettiva e non per imposizione delle
leggi del mercato. E’ estremamente difficile ma non impossibile.
Qualcosa di simile sta succedendo in Val di Susa, per esempio, grazie
agli alti contenuti della lotta ventennale contro la Tav. Certo è che le
esperienze non possono essere replicate tali e quali perché riflettono
un territorio particolare, persone particolari, una storia particolare.
Ma l’idea di fondo ha un contenuto universale su cui vale la pena
riflettere ovunque.
Per tornare al libro, è certo che la memoria
sia un terreno di guerra. Io non mi considero una scrittrice ma una
persona che scrive racconti per ristabilire una comunicazione interrotta
e ostacolata. Per uscire dall’isolamento che la prigione procura e che
ho cercato di descrivere nell’ultimo capitolo di “Compagna Luna” . Per
tastare il terreno e capire se sono veramente sola o se è possibile
stabilire un contatto con chi c’era, con chi ha avuto esperienze
differenti dalle mie e con chi non c’era, ma è interessato a conoscere.
Per cercare punti in comune e combattere l’isolamento di tutti e di
ciascuno. Per me il riconoscimento più grande non è un premio letterario
ma una comunicazione ristabilita. Sentire qualcosa di comune malgrado
le differenze. Verificare che si può essere in tanti a non riconoscersi
nel povero pensiero dominante. Per me la difesa di una memoria nel libro
ha voluto dire questo. Questo messaggio: io sono questo e metto a
disposizione la mia esperienza. Fate quello che volete di quello che
sono. Io posso essere generosa e mi aspetto che anche voi lo siate.
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