di Marco Cattaneo
Un recente articolo di Giorgio La Malfa sintetizza il dilemma in cui si trovano attualmente molti sinceri europeisti. Nelle sue parole:
“La
moneta unica, così come è stata pensata, è stata uno sbaglio perché
essa richiede e richiederebbe una solidarietà sostanziale tra i paesi
che ne fanno parte che non vi potrà essere… Se si vuole creare una terza
posizione che si frapponga tra i due opposti estremismi di chi non
vuole andare avanti e di chi vuole andare indietro bisogna dire con
chiarezza che si prende atto che l’Unione Monetaria va ripensata dalle
fondamenta poiché i paesi membri dell’Unione Monetaria hanno visioni
radicalmente opposte di quello che significa un passo in avanti… Bisogna
fare in modo di tranquillizzare i tedeschi che non saranno chiamati a
pagare i debiti ma nello stesso tempo bisogna consentire che un paese
possa fare una politica di sostegno della crescita e dell’occupazione
senza passare per dei vincoli europei senza contropartite… Bisogna
studiare il modo, in contropartita di minori impegni di solidarietà, di
concedere una maggiore possibilità per i singoli paesi di fare politiche
economiche indipendenti”.
La Moneta Fiscale è stata concepita esattamente per risolvere questo dilemma.
Un
punto chiave di qualsiasi riflessione in merito è che non esiste il
consenso politico necessario affinché la Banca Centrale Europea
garantisca incondizionatamente i debiti pubblici degli stati
dell’Eurozona. La garanzia introdotta dall’OMT
è vincolata all’attuazione di politiche da definire caso per caso, ma
comunque basate su principi che portano a compressioni della domanda,
dell’attività economica e dell’occupazione. Non è su queste basi che
l’Eurosistema può raggiungere condizioni di efficienza e di
sostenibilità.
La logica della Moneta Fiscale – da
attuarsi ad esempio nella forma (operativamente di semplice e rapida
attuazione) dei Certificati di Credito Fiscale – si riassume come segue.
Il
debito pubblico che deve essere collocato e rifinanziato, e rispetto al
quale l’andamento dei mercati può forzare l’emittente al default (quello che è regolamentato con precisione dai trattati di governo dell’Eurosistema, e che per questo motivo viene denominato “Maastricht Debt”) smette definitivamente di incrementarsi.
L’Italia definisce un livello soglia corrispondente per esempio
all’attuale – circa 2.350 miliardi di euro – e non lo incrementa più,
neanche di un centesimo.
Tutte
le politiche macroeconomiche necessarie ad incrementare la domanda
interna, migliorare la competitività delle aziende (per esempio
riducendo gli oneri fiscali e contributivi a loro carico), nonché a
ripristinare il pieno impiego, vengono attuate emettendo CCF.
Il
CCF è un titolo accettato dallo Stato emittente, a partire da una data
futura prestabilita (la proposta è due anni dopo l’emissione) per
ridurre pagamenti altrimenti dovuti nei suoi confronti. Ma non sussiste
alcun obbligo di rimborsarlo in cash. E il CCF non rientra nel
Maastricht Debt.
Non potrà quindi mai accadere che lo Stato emittente sia forzato a dichiarare default su
un CCF. Potrà al massimo accadere che l’emittente ne emetta una
quantità eccessiva, rendendo in pratica problematico utilizzare tutti i
CCF in possesso del pubblico nel momento in cui giungono a maturazione.
Si allungherebbero quindi i tempi di utilizzo, il che svilirebbe il
valore del titolo.
Ma questo rischio è in pratica remoto, perché i CCF non supererebbero mai, anche in scenari pessimistici, una modesta frazione degli incassi pubblici lordi a fronte dei quali sono utilizzabili.
E
i titolari del debito pubblico italiano constaterebbero che il
Maastricht Debt del paese cessa completamente di incrementarsi e
diminuisce costantemente in proporzione al PIL, via via che la crescita
dell’economia e un minimo di inflazione innalzano il PIL reale e (ancora
di più) il PIL nominale.
Più che una terza via, questo percorso mi appare una strada obbligata per mettere l’Eurosistema in condizioni di funzionalità e sostenibilità.
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