Con il golpe bianco contro Luiz Inácio Lula da Silva – primo presidente
operaio del Brasile, in prigione per aver lottato contro fame e miseria –
una nuova dittatura si è impadronita del Paese. Che è sempre più
immerso in una gravissima crisi sociale, istituzionale e morale.
micromega Angelo d’Orsi
Il golpe era iniziato nel 2014, con una campagna contro la
corruzione – male endemico in Brasile, dal quale sono immuni ben pochi
soggetti, individuali o collettivi – guidata da un giudice, tale Sergio
Moro, il quale diceva di ispirarsi alla campagna di Mani Pulite in
Italia. Moro, uomo di destra, sostenitore delle politiche neoliberiste,
non faceva mistero delle proprie intenzioni, in accordo con l’ex
candidato alla presidenza, Aécio Neves, sconfitto da Dilma Roussef, la
“delfina” di Lula, che diventava così il primo bersaglio. Settori della
magistratura, e delle istituzioni militari, con l’evidente sostegno
dell’Amministrazione Usa, diretto o indiretto (specie attraverso i
governi della vicina Colombia), ma anche un diffuso consenso popolare
alimentato da una campagna di stampa fomentata da testate di grandi
gruppi finanziari, hanno prima scalzato Dilma dal suo legittimo potere, e
poi hanno mirato al bersaglio grosso: Luiz Inácio Lula da Silva, il
primo presidente operaio dell’immenso Brasile. Contro di lui si è
montato un autentico processo-farsa, nel quale non è stato chiarito né
il corpo del reato (si allude a fatti vaghi e indeterminati, con
particolare riferimento a un appartamento che sarebbe stato donato
all’ex presidente dalla Petrobras, il gigante petrolifero), né sono
state portate le prove.
Il diffuso rifiuto della corruzione, indirizzato in modo capzioso
contro Dilma e Lula, hanno finito per vincere, benché tanto Nunes quanto
soprattutto il presidente giunto al potere senza elezioni, Temer, siano
coinvolti pesantemente in scandali appunto di natura corruttiva.
Davvero un esempio ineffabile di come si siano rovesciati i princìpi
della giustizia. Un leader politico viene imprigionato, e un altro viene
fatto decadere, senza che abbiano commesso alcun crimine, e senza
neppure la preoccupazione da parte degli accusatori, di salvaguardare le
apparenze della giustizia, anche se formalmente vengono richiamati
princìpi di legalità. Un puzzle politico-giudiziario, in cui la parte
legata alla legge è tutta apparenza.
Vale la pena di richiamare le principali riforme di Lula
presidente, tra il 2003 e il 2011: istruzione scolastica e assistenza
sanitaria gratuite; sussidi a milioni di famiglie che versavano nella
povertà assoluta; aumenti del salario minimo e infine, una politica,
anche se non di rado a scapito degli indigeni, nelle foreste amazzoniche
o nel Mato Grosso, mirata a fare delle immense ricchezze del Paese, un
uso per fini sociali, producendo benefici per tutti. La vicenda politica
occorsa negli ultimi quattro anni in Brasile, ci parla però anche del
fallimento totale della democrazia rappresentativa, anzi si può vedere
in essa uno dei colpi mortali inferti al sistema stesso della
rappresentanza, e in generale una formidabile accelerazione non già
verso la post-democrazia (che della democrazia conserva la mera forma),
ma piuttosto da essa verso il “superamento” persino formale della
democrazia.
Una nuova dittatura, in sintesi, si è impadronita del Brasile. Una
dittatura all’insegna della repressione certo ma anche del disprezzo
verso quella sottoumanità di poveri, di meticci, di afroindi, di
afrobrasiliani ricchi solo di musica. Una sottoumanità a cui il
candidato alle presidenziali Jair Bolsonaro, ha dichiarato guerra,
aggiungendo altre categorie che vorrebbe semplicemente eliminare, dalle
donne che protestano contro la piaga dello stupro agli omosessuali, e
via seguitando, in un crescendo farsesco che assume tratti inquietanti
se si pensi che costui rischia di vincere le elezioni, specie dopo
l’attentato (assai dubbio, a dire il vero) di cui è rimasto “vittima”
qualche giorno fa.
Ma il nuovo Brasile di Temer, e forse, ahinoi, di Bolsonaro, è un
paese che disprezza la cultura, un paese che ritiene che le donne siano
“materiale d’uso” per i maschi, un paese che intende ristabilire rigide
gerarchie sociali, respingendo quanto più possibile i subalterni (quale
che sia la loro origine etnica) dalle stanze del potere, facendo svanire
la speranza del riscatto. Al Babel di Bellinzona, la performer,
giornalista, scrittrice, Adelaide Ivanóva (ma si può leggere anche una
intervista concessa a Claudia Fanti, sul Manifesto il 14
settembre) ha tracciato un quadro spaventoso: 1 stupro ogni 11 minuti
(solo calcolando quelli denunciati, il che lascia credere che siano
molti di più, lei calcola uno al minuto), di cui comunque il 99% rimane
impunito; e aggiungiamo i 13 femminicidi al dì. Non dimentichiamo le
uccisioni di personaggi simbolo, come i militanti dei movimenti
indigeni, quelli che si battono per salvaguardare con le terre dei loro
abitanti, anche l’ambiente, a cominciare dal movimento Sem Terra. E non
dimentichiamo quella meravigliosa creatura che risponde al nome di
Marielle Franco, sociologa socialista, coraggiosa combattente per i
diritti delle donne, e in generale i diritti degli ultimi, giustiziata
il 14 marzo scorso, in un attentato che è parso nulla più che
un’esecuzione, naturalmente rimasta senza colpevole finora. Marielle
era reduce da una riunione in cui aveva affrontato il tema della
violenza nelle strade delle grandi città, in particolare proprio di Rio,
dove era consigliare comunale. I dati sono di nuovo terribili; 153
morti per omicidio al giorno, il 25% per armi da fuoco. Cifre superiori
di circa 30 volte a quelle europee.
Il neoliberismo trionfante destina risorse immense alle banche,
investe in armamenti per l’esercito e le sue polizie, ma ritiene che la
cultura sia un inutile orpello. In Brasile regnano i corrotti, andati al
potere con un colpo di Stato, con l'amichevole sostegno degli Usa, e il
silenzio ignavo della "comunità internazionale", a cominciare
dall'Unione Europea. Quello che importa ai nuovi padroni del Brasile è
tenere in soggezione il popolo, quel popolo che acclama Lula presidente,
mentre ancora, illegalmente, l'ex operaio giace in un carcere, e gli
viene negato il diritto di candidarsi alle prossime elezioni
presidenziali, che egli stravincerebbe. Solo pochi mesi fa si era
denunciato su una parte della stampa la situazione del Museo, costretto a
sopravvivere con fondi miseri, avvertendo che la manutenzione era del
tutto inadeguata, e che la sicurezza della istituzione era a rischio. La
direzione del Museo chiedeva invano misure che i tagli selvaggi ai
fondi impedivano. E ora, Temer osa commentare: "Questo è un giorno
tragico per il Brasile"!
La quasi totale distruzione del Museu Nacional do Brasil è un
evento di gravità inaudita, non soltanto per il Brasile, ma per tutta
l'umanità; era il quinto museo al mondo per ricchezza di pezzi, il cui
numero era calcolato in venti milioni. Spesso pezzi unici, di
inestimabile valore archeologico, antropologico e storico ma anche
scientifico più in generale e artistico: vi erano conservate tutte le
più rilevanti tracce delle culture indigene, e afrobrasiliane; culture
di cui evidentemente il Brasile “moderno” di Temer e dei suoi corifei
non sa che fare. Basti ricordare che i pompieri che hanno lottato contro
le fiamme, invano, non avevano trovato neppure il liquido anticendio,
nei pochi estintori funzionanti. Se il crollo del Ponte Morandi il 14
agosto è stato il nostro 11 settembre, l’incendio del Museo di Rio è
l’11 settembre del Brasile, un paese ormai all’orlo della catastrofe.
Malgrado il carcere, Lula può ancor vincere, attraverso il candidato a
cui ha dato il via, Fernando Haddad: si tratterebbe di un’autentica
vittoria della giustizia, una lezione impartita dal “popolo” a chi in
suo nome compie i più gravi crimini. Solo così questo paese-mondo può
sperare oggi di rialzarsi dall’abisso in cui sta precipitando.
(18 settembre 2018)
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