venerdì 21 settembre 2018

Il Brasile sull’orlo dell’abisso.





Con il golpe bianco contro Luiz Inácio Lula da Silva – primo presidente operaio del Brasile, in prigione per aver lottato contro fame e miseria – una nuova dittatura si è impadronita del Paese. Che è sempre più immerso in una gravissima crisi sociale, istituzionale e morale.  



micromega Angelo d’Orsi
“Babel”, un festival dedicato alla traduzione e alla letteratura, che si svolge a Bellinzona, capitale del Canton Ticino, Babel, nella sua XIII Edizione (14-16 settembre), dedicata al Brasile, non ha potuto evitare di trattare il versante politico e sociale. Negli stessi giorni, il Premio Nobel per la pace, l’argentino Adolfo Perez Esquivel, presidente della Lega Internazionale per i Diritti umani e la liberazione dei popoli, rendeva noto una sua lettera aperta in cui chiedeva al mondo di difendere Lula, già presidente della Repubblica Federale del Brasile, ora in carcere: difendere Lula, significa difendere non solo il suo diritto alla libertà e alla partecipazione alla imminente elezione presidenziale, ma anche il diritto del popolo brasiliano all’esercizio della scelta. Com’è noto, in tutti i sondaggi pre-elettorali, Lula era dato come sicuro vincitore, e lo scopo di quello che la quasi totalità dei giuristi di ogni nazione ha chiamato “golpe bianco” appare in tutta la sua nuda e dura evidenza: impedire a Lula di ritornare al potere.

Il golpe era iniziato nel 2014, con una campagna contro la corruzione – male endemico in Brasile, dal quale sono immuni ben pochi soggetti, individuali o collettivi – guidata da un giudice, tale Sergio Moro, il quale diceva di ispirarsi alla campagna di Mani Pulite in Italia.  Moro, uomo di destra, sostenitore delle politiche neoliberiste, non faceva mistero delle proprie intenzioni, in accordo con l’ex candidato alla presidenza, Aécio Neves, sconfitto da Dilma Roussef, la “delfina” di Lula, che diventava così il primo bersaglio. Settori della magistratura, e delle istituzioni militari, con l’evidente sostegno dell’Amministrazione Usa, diretto o indiretto (specie attraverso i governi della vicina Colombia), ma anche un diffuso consenso popolare alimentato da una campagna di stampa fomentata da testate di grandi gruppi finanziari, hanno prima scalzato Dilma dal suo legittimo potere, e poi hanno mirato al bersaglio grosso: Luiz Inácio Lula da Silva, il primo presidente operaio dell’immenso Brasile. Contro di lui si è montato un autentico processo-farsa, nel quale non è stato chiarito né il corpo del reato (si allude a fatti vaghi e indeterminati, con particolare riferimento a un appartamento che sarebbe stato donato all’ex presidente dalla Petrobras, il gigante petrolifero), né sono state portate le prove.

Il diffuso rifiuto della corruzione, indirizzato in modo capzioso contro Dilma e Lula, hanno finito per vincere, benché tanto Nunes quanto soprattutto il presidente giunto al potere senza elezioni, Temer, siano coinvolti pesantemente in scandali appunto di natura corruttiva. Davvero un esempio ineffabile di come si siano rovesciati i princìpi della giustizia. Un leader politico viene imprigionato, e un altro viene fatto decadere, senza che abbiano commesso alcun crimine, e senza neppure la preoccupazione da parte degli accusatori, di salvaguardare le apparenze della giustizia, anche se formalmente vengono richiamati princìpi di legalità. Un puzzle politico-giudiziario, in cui la parte legata alla legge è tutta apparenza.

In altre parole, Lula (e in misura minore la Roussef) era ed è un obiettivo politico. Come scrive Perez Esquivel, sintetizzando, Lula “è in prigione per aver lottato contro povertà e fame, per aver sottratto dalla miseria 36 milioni di brasiliani e brasiliane, per aver restituito loro la dignità come persone, insieme alla capacità di educarsi, di avere casa e lavoro”. Al di là degli errori sicuramente commessi, delle incertezze politiche, Lula rimane il liberatore del Brasile del nostro tempo, una sorta di Spartaco che ha lottato contro i poteri, interni ed esterni, che in nome delle due parole iscritte nella bandiera del  Brasile (“Ordem e Progresso”), hanno per decenni massacrato  in ogni senso i popoli indigeni, e hanno schiacciato quella oltre metà della popolazione brasiliane di origine africana, e in generale tutta la enorme massa di deprivilegiati a cui, appunto, come scrive Perez, Lula ha cercato di restituire dignità. Questa la sua “colpa” irredimibile, in una società dove lo squilibrio economico tra ricchezza estrema e povertà assoluta è immenso e, a partire dalla crisi finanziaria internazionale del 2008, crescente, ma un paese in cui esiste anche uno squilibrio di carattere etnico. In fondo alla scala sociale la popolazione india, per la quale in verità sia Lula, sia Dilma poco hanno fatto, e che, anzi, spesso hanno gravemente trascurato; poi quella maggioranza afrobrasiliana che in parte appunto grazie ai governi progressisti ha compiuto grandi passi avanti, ma che ancora è la componente quasi unica delle prigioni brasiliane, segno di persistente emarginazione e miseria. Lo sforzo di Lula andava nella direzione opposta, e la logica spietata dell’ultraliberismo e del finanzcapitalismo non poteva consentirlo oltre.

Vale la pena di richiamare le principali riforme di Lula presidente, tra il 2003 e il 2011: istruzione scolastica e assistenza sanitaria gratuite; sussidi a milioni di famiglie che versavano nella povertà assoluta; aumenti del salario minimo e infine, una politica, anche se non di rado a scapito degli indigeni, nelle foreste amazzoniche o nel Mato Grosso, mirata a fare delle immense ricchezze del Paese, un uso per fini sociali, producendo benefici per tutti. La vicenda politica occorsa negli ultimi quattro anni in Brasile, ci parla però anche del fallimento totale della democrazia rappresentativa, anzi si può vedere in essa uno dei colpi mortali inferti al sistema stesso della rappresentanza, e in generale una formidabile accelerazione non già verso la post-democrazia (che della democrazia conserva la mera forma), ma piuttosto da essa verso il “superamento” persino formale della democrazia. 

Una nuova dittatura, in sintesi, si è impadronita del Brasile. Una dittatura all’insegna della repressione certo ma anche del disprezzo verso quella sottoumanità di poveri, di meticci, di afroindi, di afrobrasiliani ricchi solo di musica. Una sottoumanità a cui il candidato alle presidenziali Jair Bolsonaro, ha dichiarato guerra, aggiungendo altre categorie che vorrebbe semplicemente eliminare, dalle donne che protestano contro la piaga dello stupro agli omosessuali, e via seguitando, in un crescendo farsesco che assume tratti inquietanti se si pensi che costui rischia di vincere le elezioni, specie dopo l’attentato (assai dubbio, a dire il vero) di cui è rimasto “vittima” qualche giorno fa.

Ma il nuovo Brasile di Temer, e forse, ahinoi, di Bolsonaro, è un paese che disprezza la cultura, un paese che ritiene che le donne siano “materiale d’uso” per i maschi, un paese che intende ristabilire rigide gerarchie sociali, respingendo quanto più possibile i subalterni (quale che sia la loro origine etnica) dalle stanze del potere, facendo svanire la speranza del riscatto. Al Babel di Bellinzona, la performer, giornalista, scrittrice, Adelaide Ivanóva (ma si può leggere anche una intervista concessa a Claudia Fanti, sul Manifesto il 14 settembre) ha tracciato un quadro spaventoso: 1 stupro ogni 11 minuti (solo calcolando quelli denunciati, il che lascia credere che siano molti di più, lei calcola uno al minuto), di cui comunque il 99% rimane impunito; e aggiungiamo i 13 femminicidi al dì. Non dimentichiamo le uccisioni di personaggi simbolo, come i militanti dei movimenti indigeni, quelli che si battono per salvaguardare con le terre dei loro abitanti, anche l’ambiente, a cominciare dal movimento Sem Terra. E non dimentichiamo quella meravigliosa creatura che risponde al nome di Marielle Franco, sociologa socialista, coraggiosa combattente per i diritti delle donne, e in generale i diritti degli ultimi, giustiziata il 14 marzo scorso, in un attentato che è parso nulla più che un’esecuzione, naturalmente rimasta senza colpevole finora.  Marielle era reduce da una riunione in cui aveva affrontato il tema della violenza nelle strade delle grandi città, in particolare proprio di Rio, dove era consigliare comunale. I dati sono di nuovo terribili; 153 morti per omicidio al giorno, il 25% per armi da fuoco. Cifre superiori di circa 30 volte a quelle europee.

Infine, nella deriva di questo paese, immerso in una crisi sociale, istituzionale e morale, forse la maggiore degli ultimi decenni, anche peggiore degli anni della dittatura (1964-1984), non si può non menzionare la notte tra il 2 e il 3 settembre quando è andato a fuoco (ormai si ha quasi la certezza dell’incendio doloso) uno dei più importanti musei del mondo, il più antico del Brasile, il Museo Nazionale a Rio de Janeiro. E tanto per far capire la situazione, si può ricordare che a fine 2015 ancora un incendio aveva colpito un altro, piccolo, ma straordinario museo, a San Paolo, quello della Lingua Portoghese.
Il neoliberismo trionfante destina risorse immense alle banche, investe in armamenti per l’esercito e le sue polizie, ma ritiene che la cultura sia un inutile orpello. In Brasile regnano i corrotti, andati al potere con un colpo di Stato, con l'amichevole sostegno degli Usa, e il silenzio ignavo della "comunità internazionale", a cominciare dall'Unione Europea. Quello che importa ai nuovi padroni del Brasile è tenere in soggezione il popolo, quel popolo che acclama Lula presidente, mentre ancora, illegalmente, l'ex operaio giace in un carcere, e gli viene negato il diritto di candidarsi alle prossime elezioni presidenziali, che egli stravincerebbe. Solo pochi mesi fa si era denunciato su una parte della stampa la situazione del Museo, costretto a sopravvivere con fondi miseri, avvertendo che la manutenzione era del tutto inadeguata, e che la sicurezza della istituzione era a rischio. La direzione del Museo chiedeva invano misure che i tagli selvaggi ai fondi impedivano. E ora, Temer osa commentare: "Questo è un giorno tragico per il Brasile"!

La quasi totale distruzione del Museu Nacional do Brasil è un evento di gravità inaudita, non soltanto per il Brasile, ma per tutta l'umanità; era il quinto museo al mondo per ricchezza di pezzi, il cui numero era calcolato in venti milioni. Spesso pezzi unici, di inestimabile valore archeologico, antropologico e storico ma anche scientifico più in generale e artistico: vi erano conservate tutte le più rilevanti tracce delle culture indigene, e afrobrasiliane; culture di cui evidentemente il Brasile “moderno” di Temer e dei suoi corifei non sa che fare. Basti ricordare che i pompieri che hanno lottato contro le fiamme, invano, non avevano trovato neppure il liquido anticendio, nei pochi estintori funzionanti. Se il crollo del Ponte Morandi il 14 agosto è stato il nostro 11 settembre, l’incendio del Museo di Rio è l’11 settembre del Brasile, un paese ormai all’orlo della catastrofe. Malgrado il carcere, Lula può ancor vincere, attraverso il candidato a cui ha dato il via, Fernando Haddad: si tratterebbe di un’autentica vittoria della giustizia, una lezione impartita dal “popolo” a chi in suo nome compie i più gravi crimini. Solo così questo paese-mondo può sperare oggi di rialzarsi dall’abisso in cui sta precipitando.

(18 settembre 2018)

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