La riflessione che pure dentro al PD, sin dall'atto della sua costituzione e già al tempo del passaggio dal PCI al PDS, è stata avviata e ha provato alcune sperimentazioni, ma non ha prodotto risultati assestati e soddisfacenti. Ora, a me pare che, al di là di ogni pur presente deviazione di stampo leaderistico, il problema nudo e crudo sia che i partiti politici non riescono ad essere più luogo effettivo e riconosciuto di rappresentanza.
Questa difficoltà, che oggi misuriamo sulla incerta definizione della "identità politica" del Partito Democratico, non è un fatto accidentale. È frutto – lo dicevo prima – di una così profonda trasformazione sociale da rendere davvero complessa ogni operazione di rappresentanza politica in senso classico.
A guardare oggi la società italiana è assai difficile ritrovare quel tratto unificante che, ad esempio, tradizionalmente aveva fatto del più grande partito della sinistra il partito del lavoro.
Quale lavoro? Il lavoro (seppure così mutato) nelle fabbriche, il lavoro nei servizi (nelle sue mille accezioni), il lavoro frammentato dei part-time, quello dei contratti a tempo, il telelavoro, il lavoro occasionale, il lavoro delle partite IVA, il lavoro nero o quello dei sottoccupati? Quale lavoro dunque? E di quale disoccupazione parliamo? Degli inoccupati, dei giovani laureati del Mezzogiorno, dei lavoratori licenziati senza ritorno possibile, dei licenziati delle multinazionali, dei lavoratori dell'indotto che sono magari padroncini? Di chi parliamo?
È già difficile – come sappiamo – per il sindacato trovare il nesso unificante che dia sostanza e forza alla rappresentanza, cioè all'identificazione di gruppi sociali in quel soggetto.
Ma non siamo più da tempo "solo" il partito del lavoro. Abbiamo avuto l'ambizione di essere la rappresentanza politica della parte più "moderna" della società italiana, per contribuire alla crescita del Paese imprimendo ad essa il segno delle uguaglianze di opportunità, del contrasto alle disparità e alle discriminazioni, della legalità e della coerenza con un quadro di crescita europea e con le stesse regole dell'Unione.
Bellissimo. Ma non ha funzionato. Le sorti magnifiche e progressive, che pur nel morso della crisi abbiamo giustamente difeso, non hanno parlato all'Italia. Non hanno parlato a quegli elettori che ci hanno preferito il M5S. Non alle élite che ancora costituiscono un bacino importante – il più consistente – degli elettori del PD. Ma agli altri. A cominciare dagli elettori del Mezzogiorno e, come abbiamo visto anche con il risultato referendario, dai giovani.
Molti commentatori politici hanno proposto di leggere la società italiana e il conseguente risultato elettorale sulla scorta del sentimento di paura che vi serpeggia. È certamente una chiave di lettura. Credo personalmente che, di fronte al fenomeno migratorio, la risposta politica – pur razionale e "corretta" – non sia in grado di sconfiggere quel sentimento di paura e che questo, ad esempio, abbia vigorosamente nutrito il voto alla Lega, laddove la risposta semplicistica (e irrealizzabile) del "ve li leviamo di torno" è apparsa comunque rassicurante.
Ma io credo ci sia dell'altro e torno a quelle centinaia di migliaia di nostri elettori che hanno votato M5S. A me pare, infatti, che ancora sotto la paura (che ne è conseguenza), ciò che caratterizza gran parte della società italiana sia la perdita di nesso. Il fatto, cioè, che si siano lacerati tutti quei legami che rendevano la condizione umana, specie le esistenze più difficili e faticose, inserita in una rete di legami che davano a ciascuno l'idea di essere comunque parte di qualcosa di più vasto, e dunque di più forte, e che rendevano dotata di un senso riconosciuto l'esperienza di ciascuno.
Io sono io perché sono siciliano, operaio, impiegato, iscritto al sindacato, militante di un partito, figlio, padre, madre in un contesto familiare ristretto, abitante di quel quartiere. Io sono quei "qualcosa", e non sono solo.
Non ripeto qui – molte volte è stato detto – perché quel nesso, fatto di tanti legami, ciascuno dei quali aveva in sé una propria potenza, dava senso a quella esistenza. La straordinaria frammentazione, e frantumazione, che ha investito la società ha travolto insieme nessi e senso. Il risultato è che sia la solitudine – troppo spesso – il segno della vita di moltitudini di persone. È il trionfo dell'individualismo "debole", del "devo fare da solo", del rancore e della rabbia, della paura.
Il M5S ha offerto alcune soluzioni. A mio avviso sbagliate, inefficienti, ma che assecondano quella condizione e quei sentimenti.
Pensate solo alla possibilità di credere (anche se non è vero) che "uno vale uno", che cioè se clicchi sul tasto il tuo parere vale tanto quanto quello di chiunque altro, anche se non è filtrato da alcuna riflessione, o da alcuna competenza. La possibilità di esprimere la tua potenza, in un illusorio egualitarismo, sorpassa in quel soggetto ogni osservazione critica sul fatto che, come abbiamo già mille volte visto, quello che pensi conterà zero, se il capo del Movimento, Grillo o Casaleggio o chiunque sia, la pensa diversamente.
L'illusione (la mistificazione) della potenza uguale. La possibilità di esprimere rabbia e malcontento, postandole e urlandole sul web, sterilizza momentaneamente la solitudine, che tale però resta, perché uguale resta l'assenza di legame. Ciascuno è disperatamente solo, impaniato dall'illusione. In qualche modo questo ha inciso sullo stesso nobile principio della democrazia diretta, che è stato mal inteso come gerarchicamente sovraordinato e generalmente sostitutivo degli strumenti di democrazia rappresentativa.
Io partirei da qui, dalla categoria, forse non politica, della solitudine, dall'assenza di legame e dalla conseguente perdita di senso della propria esistenza per ricominciare a tessere.
Credo che un enorme lavoro politico, dunque, ci attenda.
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