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Sembra che l’enorme trasferimento di ricchezza verso i ricchi, durato
circa un decennio e noto come ‘quantitative easing’, stia per volgere
al termine. Delle quattro principali banche centrali del mondo – la
Federal Reserve americana, la Bank of England, la Banca Centrale Europea
e la Banca del Giappone – due hanno già abbandonato la politica
di acquisto di attività finanziarie (la Fed e la BoE), e la Bce intende
smettere gli acquisti da dicembre. La Fed dovrebbe infatti iniziare a
vendere nei prossimi due mesi i 3500 miliardi di dollari di titoli
acquistati in tre cicli di Qe. Dal momento che – valutato alla luce
degli obiettivi ufficiali – il Qe è stato un completo disastro, ciò
appare perfettamente sensato. Grazie ad un’“iniezione” di denaro nell’economia,
il Qe avrebbe dovuto portare le banche a prestare nuovamente,
rilanciando gli investimenti e la crescita economica. In realtà, dopo
l’introduzione del Qe il credito bancario totale nel Regno Unito è
invece diminuito, e il credito a piccole e medie imprese – responsabili
per il 60% dell’occupazione – è in caduta verticale.
Come notato da Laith Khalaf, senior analyst presso Hargreaves Lansdown, «dopo la crisi finanziaria, le banche centrali hanno inondato l’economia globale con denaro a buon mercato, ma la crescita globale è tuttora in una situazione di stallo, in particolare in Europa
ed in Giappone, dove sono state prese imponenti misure di stimolo per
fronteggiare il problema». Persino “Forbes” ammette che il Qe ha «in
gran parte fallito nel rivitalizzare la crescita economica». Ciò non
sorprende, o quanto meno non dovrebbe. Il Qe era destinato fin
dall’inizio a mancare i suoi obiettivi dichiarati, perché il motivo per
cui le banche non finanziavano investimenti produttivi non era la
carenza di denaro – al contrario, già nel 2013, molto prima degli ultimi
cicli di Qe, le imprese inglesi disponevano di quasi 500 miliardi di
riserve liquide – ma piuttosto perché l’economia globale si trovava (e si trova tuttora) in una profonda crisi di sovrapproduzione. In poche parole, i mercati erano (e sono) saturi, e non ha senso investire in un mercato saturo.
Per questo motivo, tutto il nuovo denaro creato dal Qe ed “iniettato”
nelle istituzioni finanziarie – come fondi pensione e compagnie
d’assicurazione – non è stato poi investito nelle attività produttive,
ma si è invece riversato nei mercati azionari ed immobiliari, gonfiando i
prezzi delle azioni e degli immobili, senza generare nulla in termini
di ricchezza reale o occupazione. I titolari di beni come azioni e
immobili hanno tratto molti vantaggi dal Qe, che in Uk si stima abbia
accresciuto la ricchezza del 5 percento più ricco mediamente di 128.000
sterline a testa. Com’è stato possibile? Da dove è venuta tutta questa
nuova ricchezza? Dopo tutto, anche se il denaro – a dispetto degli
slogan dei Tory – può essere effettivamente creato “dal nulla”,
precisamente come è stato fatto col Qe, non è così per la ricchezza
reale. Ed il Qe non ha prodotto ricchezza reale. Eppure, il 5%
più ricco oggi dispone di 128.000 sterline extra da spendere in yacht,
ville principesche, diamanti, caviale e così via. Ma da dove viene
questo denaro?
Semplice. La ricchezza che il Qe ha trasferito ai titolari di asset
proviene, in primo luogo, direttamente dai salari dei lavoratori. Poiché
ha praticamente svalutato la moneta, il Qe ha ridotto la capacità
d’acquisto del denaro, il che ha causato nei fatti una svalutazione dei
salari reali, che in Uk sono tuttora del 6% al di sotto dei loro livelli
pre-Qe. Il denaro sottratto ai salari forma dunque parte di quel
dividendo di 128.000 sterline. Ma viene anche dagli ultimi arrivati nei
mercati gonfiati dal Qe – principalmente gli acquirenti di una prima
casa e chi è recentemente andato in pensione. Chi oggi acquista una casa
(che il Qe ha reso molto più cara), ad esempio, dovrà lavorare migliaia
di ore in più per pagare un mutuo a prezzi più alti. Sono queste ore in
più a creare la ricchezza che sovvenziona le stravaganti spese del 5%
più ricco. Ovviamente, questi prezzi immobiliari più alti sono pagati da
chiunque acquisti una casa, non solo da chi lo fa per la prima volta –
ma per chi è già proprietario il costo aggiuntivo è compensato
dall’aumento di prezzo della casa già di proprietà (o delle azioni, per
chi è abbastanza ricco da possederne).
Un’altra conseguenza del Qe è che chi va in pensione adesso è
costretto a sovvenzionare il 5% più ricco. I nuovi pensionati usano il
loro fondo pensione per acquistare una ‘rendita’ – un pacchetto di
titoli azionari fruttiferi che produce reddito. Ma poiché il Qe ha
causato un’inflazione del prezzo dei titoli, ciò ha ridotto il numero di
titoli acquistabili con questo fondo. E dato che all’aumento di prezzo
dei titoli non corrisponde un aumento dei dividendi, ciò si traduce in
una pensione ridotta. In realtà, la teoria che il Qe servisse ad
incoraggiare gli investimenti e stimolare l’occupazione e la crescita è
sempre stata un artificio fantasioso creato per dissimulare quello che
stava realmente accadendo – un colossale trasferimento di ricchezza
verso i più ricchi. L’economista Dhaval Joshi faceva notare nel 2011:
«La cosa più sconvolgente è che, dopo due anni di apparente ripresa, i
lavoratori [inglesi] in realtà guadagnano meno che nel momento più
drammatico della recessione. Salari e stipendi reali sono calati
di 4 miliardi di sterline. I profitti sono aumentati di 11 miliardi. I
benefici della ripresa sono stati distribuiti nel modo più iniquo
possibile».
Nel marzo di quest’anno il “Financial Times” riportava che, nonostante il Pil della Gran Bretagna sia ritornato ai livelli pre-crisi
già dal 2014, i salari reali sono ancora più bassi del 10% rispetto al
2008. «La contrazione dei salari reali in Uk si è arrestata nel 2015»,
aggiungeva, «ma ciò non è destinato a durare». Così è stato. Nello
stesso mese di pubblicazione di quell’articolo, i salari reali hanno
iniziato nuovamente a scendere, e sono da allora in costante
diminuzione. Lo stesso è successo in Giappone, dove, secondo “Forbes”,
«il reddito delle famiglie si è effettivamente ridotto dopo
l’introduzione del Qe». Il Qe ha sortito un effetto simile nei paesi del
sud del mondo: aumentare la ricchezza dei detentori di asset a spese di
chi non ne ha. Così come l’afflusso di nuovo denaro crea bolle nei
mercati immobiliari e finanziari, allo stesso modo crea una bolla nei
prezzi delle materie prime, dovuta ad esempio alla corsa degli
speculatori all’acquisto di quote di petrolio e di materie prime
alimentari.
Per alcuni paesi produttori di petrolio ciò ha comportato effetti
positivi, con la messa a disposizione di denaro inatteso da investire in
programmi sociali, come inizialmente è accaduto nel caso di Venezuela,
Libia ed Iran. In tutti e tre i casi, le forze imperialiste sono state
costrette a ricorrere a vari livelli di intervento militare per
contrastare queste conseguenze indesiderate. Ma l’aumento del prezzo del
petrolio è certamente deleterio per paesi che non ne producono – e
qualsiasi aumento dei prezzi alimentari è sempre devastante. Nel 2011 il
“Daily Telegraph” sottolineava «la correlazione tra i prezzi alimentari
e gli acquisti da parte della Fed di titoli di Stato americani (ossia,
programmi di quantitative easing)…Si può notare come
l’indice dei prezzi alimentari si è pressoché stabilizzato tra la fine
del 2009 e l’inizio del 2010, ed è poi nuovamente salito a partire dalla
metà del 2010 dopo il nuovo avvio del quantitative easing… con un
aumento dei prezzi di circa il 40% durante un periodo di tempo di otto
mesi».
L’aumento dei prezzi ha spinto 44 milioni di persone in povertà nel
solo 2010 – il “Telegraph” riteneva che ciò stesse alla base del
malcontento manifestato nelle cosiddette Primavere Arabe. Robert
Zoellick, ex presidente della Banca Mondiale, all’epoca commentava:
«L’inflazione dei prezzi alimentari è oggi la più grave minaccia
incombente sui poveri del mondo… basta un episodio di maltempo estremo
per finire nel baratro». Sono questi i costi del quantitative easing. I
paesi Brics erano anche critici nei confronti del Qe per un altro
motivo: lo consideravano un metodo subdolo di svalutazione competitiva.
Riducendo artificialmente il valore delle loro monete, la “triade
imperiale” Usa,
Ue e Giappone causavano a tutti gli effetti un apprezzamento delle
valute di tutti gli altri paesi, danneggiando così le loro esportazioni.
Nel 2015 “Forbes” scriveva: «Gli effetti si iniziano già a sentire
anche nei paesi esportatori più dinamici al mondo, nell’est asiatico. Le
loro esportazioni in dollari americani hanno subito una drammatica
variazione, da una crescita annua del 10% ad una contrazione del 12%
nella prima metà di quest’anno, e questi risultati non cambiano, che si
tenga conto o no della Cina». Il vantaggio principale del Qe per i
paesi in via di sviluppo avrebbe dovuto essere l’enorme afflusso di
capitali da esso innescato. Si stima che circa il 40% del denaro
generato dalla prima espansione di credito Qe della Fed (‘Qe1’) si è
spostato all’estero – in particolare nei cosiddetti ‘mercati emergenti’
del sud del mondo – e circa un terzo durante il Qe. Tuttavia,
contrariamente alle apparenze questo non è necessariamente un vantaggio.
Gran parte del denaro, come si è visto, è stato utilizzato
per acquistare scorte di materie prime (rendendo così beni essenziali
come il cibo esorbitanti per i poveri) invece di essere investito in
attività di produzione, ed un’altra buona parte è servita per acquistare
scorte valutarie, causando ancora una volta un apprezzamento nocivo
alle esportazioni.
Per di più, un afflusso di ‘hot money’ (capitali speculativi erranti,
in contrapposizione al capitale per gli investimenti di lungo termine)
accentua la volatilità e vulnerabilità delle valute in caso, ad esempio,
di aumenti dei tassi esteri. Se, ad esempio, i tassi d’interesse
dovessero nuovamente salire in Usa ed in Europa,
ciò rischierebbe di scatenare una fuga di capitali dai mercati
emergenti, che potrebbe innescare un tracollo valutario. Fu infatti
proprio un afflusso di ‘hot money’ nei mercati valutari asiatici, molto
simile a quello visto durante il Qe, a precedere la crisi
valutaria asiatica del 1997. La prossima fine del Qe, con il
conseguente innalzamento dei tassi d’interesse, rischia di riproporre
proprio questa vulnerabilità come una possibilità – se non addirittura
come un’opportunità speculativa.
(Dan Glazebrook, “Quantitative Easing, il più grande trasferimento di ricchezza della storia”, da un editoriale su “Rt” del 22 luglio 2017, tradotto e ripreso da Margherita Russo per “Voci dall’Estero”. Glazebrook
è un giornalista politico freelance che collabora, fra gli altri, con
“Russia Today Rt”, “Counterpunch”, “Z Magazine”, il “Morning Star”, il
“Guardian”, il “New Statesman”, l’“Independent” e “Middle East Eye”. I
suoi saggi esaminano i legami tra la crisi economica, l’ascesa dei Brics, le guerra
in Libia e in Siria e l’“austerità” europea. Attualmente conduce
ricerche per un libro sull’impiego degli “squadroni della morte” contro
Stati sovrani e movimenti politici, dall’Irlanda del Nord e dall’America
Centrale negli anni ‘70 e ‘80 fino al Medio Oriente e all’Africa di
oggi).
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venerdì 9 marzo 2018
Qe, truffa da record: soldi facili alle banche, solo per i ricchi
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