Poco prima della fine della legislatura la Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e la violenza di genere è riuscita a presentare la sua Relazione finale. Dalla quale emerge l'imponenza del fenomeno – che riguarda anche i minori – e l'inadeguatezza delle forme di prevenzione e contrasto.
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micromega Maria Concetta Tringali
È il 18 gennaio del 2017 quando il Senato delibera l’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta avente a oggetto il femminicidio e ogni forma di violenza di genere.
Di femminicidio in Italia muore una donna ogni due giorni. La decisione di istituire una Commissione d'inchiesta segue i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità. L’OMS già con riferimento al 2002 individuava nell’omicidio da parte di persone conosciute, in particolar partner ed ex partner, la prima causa di uccisione nel mondo delle donne tra i 16 e i 44 anni. Con quello del 2013 (141 ricerche effettuate in 81 Paesi) definiva in conclusione la violenza contro le donne come questione strutturale globale.
Se il 35 per cento delle donne subisce o ha subito nel corso nella vita qualche forma di violenza, non siamo di fronte a un’emergenza, ma un problema strutturale. Questa certezza, finalmente acquisita, chiarisce tutta l’inefficienza di un sistema che adotti, nell’azione di contrasto, solo politiche frammentarie e disorganiche.
A distanza di poco più di un anno dalla sua costituzione, la Commissione, guidata dalla senatrice PD Francesca Puglisi, rende pubblica la Relazione finale. Il documento si compone di quattrocentodieci pagine. All’interno, mesi di audizioni di soggetti privati e pubblici, a vario titolo interessati e coinvolti.
Non si legge tuttavia nel report solo di violenza diretta contro le donne. Quello è il focus, sicuramente. Ma un altro dato preme, e con prepotenza, per uscire da quelle pagine.
Se c’è infatti un profilo che ci dà la misura di quanto insufficiente sia la nostra legislazione e di quanto enormemente inefficace sia, alle volte, il sistema di tutele è quello legato agli strumenti di protezione dei minori.
La Commissione si sofferma su quello che è noto come caso Talpis. Il fatto di cronaca risale al 2013 e ci riporta a un figlicidio, accaduto in provincia di Udine. È una di quelle storie che mai si vorrebbero leggere né raccontare. Parla dell’accoltellamento di un diciannovenne, figlio adottivo, per mano del padre. Il ragazzo veniva ucciso mentre cercava di difendere la madre dalle percosse ripetute e violentissime del marito.
Quello che i senatori referenti definiscono “un’inaccettabile discrasia fra codici parimenti vigenti” è davvero una piega oscura del nostro sistema penale, dove non c’è diritto né può trovarsi giustizia.I termini della questione riguardano da una parte il codice civile, per cui i figli adottivi sono parificati ai figli biologici (in base al diritto di famiglia e alla riforma del 2013) e dall’altra parte la legge penale. Il codice Rocco che risale al 1930 mantiene, per contro, sul punto un anacronistico e incomprensibile riferimento ai rapporti di sangue. Nella sostanza è la sola consanguineità a riconoscere e qualificare il figlio come “vero”, in quanto “naturale”. Questo per l’art. 577, comma secondo, del codice. La disposizione nega di fatto la parità tra i discendenti.
Se in linea di principio la norma è tra le più odiose, nell’applicazione pratica manifesta tutta la sua inadeguatezza. Essa infatti permette l’annullamento della condanna all’ergastolo che era stata dapprima inflitta all’uomo, accusato di avere ucciso il figlio adottivo. E ciò poiché la Cassazione si pronuncia per l’impossibilità di applicare alla fattispecie l’aggravante della consanguineità: in altre parole, l’ergastolo gli sarebbe spettato se avesse ucciso il figlio naturale, massacrare il proprio figlio adottivo è, per il sistema penale, reato meno grave.
La Commissione mette nero su bianco la falla e suggerisce modifiche urgenti.
Se è vero che la recente produzione legislativa in tema di femminicidio ha previsto un aumento fino a un terzo della pena nel caso che i figli assistano a episodi di violenza domestica, se è vero che nel gennaio 2018 è stata promulgata una legge che prevede la tutela di minori, rimasti orfani per crimini domestici, tuttavia, non possiamo ancora dirci soddisfatti.
La violenza di genere è fenomeno diffuso in Italia e nel mondo. Che negli ultimi anni esso abbia raggiunto dimensioni enormi è considerazione che facciamo spesso. Ci domandiamo se ci sono campanelli d’allarme dai quali cogliere il pericolo. Ebbene, è la stessa Convenzione di Istanbul (fonte internazionale che per prima definisce la violenza di genere nei termini di una violazione dei diritti umani, recepita in Italia nel giugno del 2013) che impone agli Stati un’attenzione di questo tipo. Così, i lavori della Commissione indugiano sull’input e prendono in esame i principali sistemi di valutazione e prevenzione del rischio, anche di recidiva. Pongono in osservazione i due metodi principali in uso in Italia.
Il primo, è il cosiddetto modello SARA che ruota attorno alla verifica della sussistenza di 15 fattori di rischio e che è definito dal report uno strumento di prevenzione oltre che prognostico; il secondo, modello ISA, si caratterizza nella forma del questionario di autovalutazione.
Qui si sottolinea come occorra un passaggio ulteriore che faccia della partecipazione delle donne una marcia in più, affinché si chiariscano i meccanismi che poi portano alle violenze conclamate.
E i numeri? Ci chiediamo.
Già l’Inchiesta sul femminicidio voluta dal Ministero della Giustizia nel 2016 ci consegnava circa 600 casi registrati, negli ultimi quattro anni. Il documento elaborato dalla Commissione presso il Senato si propone ora di misurare la violenza anche in termini di costo economico. E ciò senza prescindere dal ruolo centrale che essa stessa riconosce all’indagine dell’Istat sulla sicurezza delle donne.
Pare che in generale i dati raccontino di una sottrazione. Un minimo ridimensionamento del fenomeno che tuttavia non intacca lo zoccolo duro, gli stupri e i femminicidi, quando anche sono solo tentati. Nelle stime 2006 - 2014, infatti, alcuni segnali indicano una complessiva riduzione di tutte le forme di violenza subite e una maggiore propensione alla denuncia. Da ultimo a denunciare con maggiore frequenza risultano le donne straniere, forse perché prive di una seppur minima rete amicale o familiare a cui rivolgersi nel momento del bisogno.
La distribuzione territoriale continua ad apparire trasversale, coprendo l’intero Paese. Ci sono percentuali più alte, in termini assoluti, in regioni quali la Lombardia, l’Emilia-Romagna e la Campania.
Il documento registra che la violenza domestica ha un peso economico stimato per difetto nel 2013 in 16.719.540.330 euro. A fronte, la spesa per interventi di prevenzione e contrasto è pari a soli 6.323.028 euro.
E poi ci sono i magistrati. La Commissione ha il pregio di provare a raccogliere, con un questionario, ed elaborare una serie di dati aggregati dalle Procure della Repubblica presso i nostri Tribunali e Corti di appello. L’autorità giudiziaria interpellata, dunque, risponde su numeri e prospettive. Tenta di chiarirci l’iter della giustizia.
E «risulta che il 93 per cento dei procedimenti sia giunto alla sentenza irrevocabile entro i 4 anni dall’iscrizione in procura; tra questi il 68,44 per cento vi giunge entro 3 anni dall’iscrizione. La classe oltre 4 anni è quella meno frequente, ma anche verosimilmente quella più sottodimensionata, perché al momento della rilevazione non poteva comprendere i procedimenti con iter più lungo».
I tempi della giustizia, insomma, non vanno ancora bene. Nemmeno quanto alle misure cautelari concesse e dunque agli interventi dettati dall’urgenza. Fra quelle espressamente censite, a rimanere la più frequente è la custodia cautelare in carcere. Quella pesa il 28,6 per cento. Seguono l’allontanamento dalla casa familiare (17,9 per cento) e gli arresti domiciliari (17,21 per cento).
Il dato è purtroppo parziale. Non tutto è censibile. Ad esempio i quesiti relativi alle Procure che miravano a ricostruire le iscrizioni dei procedimenti per tipologie di reato e la storia processuale, hanno rilevato come ci si debba arrestare davanti a due periodi non omogenei: dal 2011 al 2012 e dal 2013 al 2016. E così il confronto fra gli anni a cavallo del 2013, antecedenti e successivi al cosiddetto «decreto femminicidio», è risultato impossibile.
Nei circondari complessivamente considerati, sappiamo però che sono aumentate le iscrizioni di reato. Questo è un dato. Sono cresciute del 40,9 per cento le iscrizioni per maltrattamenti; del 20,74 per cento quelle per stalking e del 75,95 per cento quelle invece per le percosse e lesioni aggravate.
Vengono fuori numeri e carenze, inevitabilmente, che trasformare in proposte di riforma è d’obbligo.
«Da questa Relazione che siamo riusciti ad approvare all’unanimità prima della fine della legislatura - ci dice la senatrice Puglisi – emergono luci e ombre. Permangono soprattutto delle diversità di approccio e di lavoro tra i vari distretti operativi del nostro Paese. Grandi differenze ci sono sulla presenza di pool di magistrati specializzati e sull’adozione di protocolli di rete che sono efficaci nel contrasto ai fenomeni di violenza contro le donne. Ci sono distretti nei quali la presenza di personale specializzato è piuttosto diffusa, come in quelli di Bologna, Roma, Milano, Firenze e Torino. Ce ne sono altri dove, invece, è quasi del tutto assente, come a Bari, Lecce, L’Aquila, Trieste».
Da oggi la violenza domestica è insomma documentata. Trova spazio in un contesto istituzionale tutto ciò che gli addetti ai lavori e le operatrici dei centri antiviolenza ripetono da tempo: siamo dinanzi a un fenomeno che colpisce le donne in maniera specifica nell’ambito familiare.
Vi si ritrovano anche le motivazioni di questi crimini. I reati contro le donne poggiano su una cultura discriminatoria, definita patriarcale, e che attraversa tutti i Paesi del mondo. Si conta che la Commissione abbia svolto 38 sedute in sede plenaria, mentre l’Ufficio di Presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, si sia riunito 10 volte. Complessivamente le audizioni hanno coinvolto 67 persone. Significativo che la prima sia stata riservata a Lucia Annibali. Avvocata del Foro di Urbino e oggi anche Cavaliere al merito della Repubblica per nomina conferitale l’8 marzo di quattro anni fa dal Presidente Giorgio Napolitano. Il suo nome inevitabilmente evoca la battaglia contro la violenza sulle donne. E ciò perché nell’aggressione con l’acido subita per mano di due sicari, su mandato dell’ex fidanzato Luca Varani, oggi condannato in via definitiva a venti anni di reclusione per stalking e tentato omicidio, Lucia è rimasta gravemente ferita. L’attacco era chiaramente rivolto alla sua identità, era quella che si voleva annientare. Il gesto non era finalizzato a colpire unicamente il suo volto. Oltre diciassette interventi chirurgici le sono stati necessari per una ricostruzione capillare. Tanto dolore, ma in lei anche la forza di ripartire da quell’esperienza e di farne motivo di solidarietà e impegno civile.
Dal racconto dell’avvocata Annibali e da quello di altre vittime, la Commissione è passata all’esame del quadro normativo, ha scandagliato le misure introdotte nel 2013 in termini di efficacia e si è posta il problema della destinazione delle risorse, finendo poi per approfondire l’aspetto tante volte taciuto della comunicazione tra istituzioni coinvolte e associazioni attive sul campo.
Sono state sentite Telefono Rosa, DIRE, Casa delle donne per non subire violenza Onlus e l’UDI, tra le altre.
Tre dati di novità sembrano emergere dal documento finale. Del primo abbiamo detto in apertura. Il focus si è allargato, spostandosi come segnalato dalla donna al minore, eventualmente presente nel contesto della relazione in crisi. E lo sguardo è ritornato sui nostri bambini, ponendosi prepotente sul tavolo il tema della violenza assistita. L’espressione viene dall’inglese, "witnessing violence, e indica quegli atti di violenza fisica, psicologica, sessuale ed economica che vengono compiuti su figure affettive di riferimento, di cui il bambino può fare esperienza e di cui può patire successivamente gli effetti. Ciò è in linea con la costruzione elaborata dai giudici che da tempo definiscono la violenza assistita, riconoscendo abuso o maltrattamento del minore in tutte quelle situazioni di violenza "indiretta" che si verificano quando il bambino assiste a scene di violenza poste in essere da un genitore a danno dell'altro.
Le audizioni sul punto hanno coinvolto la presidente del Coordinamento italiano servizi maltrattamento all’infanzia (CISMAI), quella dell’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza, Penelope, associazione che si occupa di scomparse, e non ultimo Telefono Azzurro che ha reso possibile una riflessione sui più efficaci metodi di ascolto dei minori.
Sono stati sentiti inoltre gli operatori del diritto. In rappresentanza di questi, interpellati l’Associazione italiana degli Avvocati per la famiglia e i minori (AIAF), l’Unione nazionale Camere minorili (UNCM) e l’avvocata Maria Giovanna Ruo, Presidente di CAMMINO – Camera nazionale avvocati per la persona, le relazioni familiari ed i minorenni.
Le sigle sindacali maggiormente rappresentative, le forze dell’ordine e l’ANCI, così anche le Regioni, hanno completato il pezzo mancante del quadro. E ciò in particolare con riferimento alla questione delle risorse, sulla eccezione che non sia risultato ben chiaro quale destinazione le stesse abbiano avuto sinora per mano degli enti locali preposti e sulla necessità di adottare validi standard di trasparenza.
L’assenza di linee guida sul trattamento della violenza e di vademecum ad hoc, compare nel report quale causa primaria della vigenza contemporanea, per esempio, di venti leggi regionali diverse sul tema, non tutte sempre in linea tra di loro e con la Convenzione di Istanbul. Fin qui, punti di criticità, insomma, moltissimi.
Un secondo elemento di novità è invece di tipo propositivo e riguarda intanto la necessità di coordinare formazione scolastica e degli operatori, ma anche di correggere il registro e l’ottica usata dai media, inclusi i social, per raccontare il fenomeno. E poi il capo dedicato agli strumenti non ancora in utilizzo nel nostro Paese. Così, in particolare, l’idea di mutuare dal Regno Unito l’esperienza della domestic homicide review che per brevità si definisce DHR e che è traducibile in italiano con «esame retrospettivo di un omicidio domestico».
Si tratta di una indagine post-mortem che nei paesi anglosassoni viene applicata a casi di femminicidio, procedura divenuta obbligatoria dal 2004.
Sulla definizione di DHR leggiamo che essa è «l’indagine relativa alle circostanze che hanno determinato la morte di una persona avente 16 o più anni, a seguito di violenza, abuso o negligenza, causata da: (a) una persona con la quale era o era stata legata da una relazione intima, o (b) un membro del suo stesso ambito familiare». Lo scopo è chiaro. «La DHR – si legge nel documento della Commissione - deve essere attuata nella prospettiva di trarre lezioni dalla morte della persona uccisa».
Ma è cristallizzato un altro punto importante. Il documento tenta di adattare la procedura anglosassone al nostro sistema, auspicando un terreno di indagine accurato che si centri sulla vittima, le sue relazioni affettive e amicali, quelle familiari, ma anche sul colpevole, sulla sua biografia, per appurare che nessuna falla ci sia stata, oppure per individuare in quale punto della rete di protezione della donna essa si nasconda. Mentre la Commissione fa un’operazione di questo tipo, analizzando venti sentenze rese dai nostri tribunali penali a seguito di altrettanti femminicidi, viene fuori come in trasparenza un nodo.
La Relazione dà atto di una svolta: il rifiuto del «raptus di follia» come motivo estemporaneo a causare l’omicidio. La Commissione richiama la Cassazione recente, per dire con forza che il reo va punito, che non ci sono appigli né spazi per esimenti o scriminanti, che non c’è incapacità ma premeditazione e preparazione. Le donne muoiono perché i carnefici vogliono che sia così.
«La totalità delle sentenze (con l’eccezione forse di una) indica che gli omicidi sono il frutto di pregresse violenze, minacce, pedinamenti, ovvero di un accumulo di rabbia e di frustrazione nel tempo, tale da determinare l’irrevocabile decisione di uccidere, senza nessun ripensamento o volontà di recedere dal proposito».
Il report dà inoltre conto di un mutamento nella lettura di questi fatti criminosi che si deve alla mobilitazione popolare, alle donne scese in piazza, al coraggio delle vittime e dei familiari di quelle uccise che, insieme, nel corso di questi anni hanno contribuito a una inversione storica della prospettiva. Il lavoro di formazione, prevenzione e sensibilizzazione svolto dai circa 160 centri antiviolenza, mappati da La Casa delle donne per non subire violenza, Onlus nel nostro Paese, sulla scorta della Convenzione di Istanbul pare cominci a dare i suoi frutti.
Il terzo elemento di novità sviluppato dalla Commissione è legato alla necessità di trattare l’autore delle violenze. Dai dati raccolti e dalle audizioni pare che nei Paesi in cui sono previsti percorsi obbligatori di recupero degli uomini maltrattanti, nella forma per esempio propedeutica alla possibilità di fare accesso a misure alternative alla detenzione, i femminicidi siano diminuiti. E ciò anche sulla scorta di precedenti esperienze carcerarie di trattamento, quale quello praticato ai sex offenders che ha interessato i reclusi di Bollate, per la prima volta in Italia. Si è dunque auspicato di percorsi, anche successivi all’esecuzione della pena, e di centri per uomini maltrattanti, pure in linea con la funzione rieducativa della sanzione penale.
La Relazione che aveva aperto annotando la dimensione del fenomeno, chiude con l’individuazione di alcune aree destinate a una sicura riforma. In particolare l’ambito delle misure cautelari, ritenute finalmente insufficienti nella loro durata.
Tre mesi, in una situazione di violenza domestica o atti persecutori, non è un tempo congruo entro il quale confinare la custodia in carcere o gli arresti domiciliari del maltrattante. Questo tema implica una rivisitazione dei parametri di valutazione del rischio che andrebbero rivisti in un’ottica di maggiore omogeneità.
Anche da un punto di vista strettamente connesso all’attività giudiziaria emergono critiche importanti. Il giudice civile non riesce a stabilire con quello penale, nella maggior parte dei casi, il necessario livello di condivisione dei dati. Ed è già gravissimo così. Ma la Commissione dice di più e arriva a parlare di «sostanziale disinteresse nel contesto civile rispetto a quanto denunciato e riscontrato in sede penale quale prassi piuttosto diffusa, come se gli agiti violenti del genitore maltrattante e/o persecutore fossero elementi trascurabili nella valutazione della capacità genitoriale».
È questa una circostanza di cui tante donne fanno diretta esperienza nelle aule di tribunale e con loro gli avvocati che le assistono, nei procedimenti per l’affidamento dei figli minori. Ma non è la sola discrepanza. Manca per esempio nell’ambito del processo civile quella deroga che in sede penale ammette il ricorso al gratuito patrocinio a prescindere dai limiti di reddito previsti dalla norma, nei casi di violenza domestica. Sarebbe opportuno, in ottica di riforma, operare un’estensione anche in questo contesto. L’intento dovrebbe essere quello di giungere ad una armonizzazione dei sistemi di tutela e dell’accesso a questi ultimi.
La Relazione suggerisce allora al sistema di contrastare la svalutazione della vittima, stortura diffusa in talune prassi giudiziarie, assicurandole per contro il doveroso rispetto. E apre all’idea di uno statuto per la vittima di reato.
Sui luoghi delle donne, il report conferma che dal Piano Straordinario in poi manca qualsiasi riconoscimento delle esperienze storiche significative dei centri antiviolenza che ne rimangono pertanto depotenziati ed equiparati a qualsiasi altro soggetto del privato sociale che presti un servizio.
C’è un ultimo profilo che, del resto, non avrebbe potuto essere tralasciato in un lavoro di questa mole. La Commissione, con chiarezza estrema, pone un obiettivo. È quello di rimuovere gli ostacoli al reinserimento della donna violata, per ricondurla in un contesto di pienezza e serenità.
Sono il lavoro e la casa, ovviamente, i punti di criticità. L’esperienza racconta che le donne che sono tornate con l’autore di violenze sono quelle più anziane, quelle con maggiori probabilità di essere senza un reddito. Autonomia economica ed abitativa sono allora traguardi, non negoziabili.
Nessun obiettivo concreto per le donne, altrimenti, potrà mai dirsi raggiunto.
(22 marzo 2018)
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