Da Bruxelles blindati, navi, alta tecnologia. Per fermare i profughi in fuga dalla Siria. Sparandogli se si avvicinano al muro.
Il volto dell’Unione Europea è un muro di ferro e cemento. Alto tre metri, lungo più di 800 chilometri, pattugliato notte e giorno da mezzi militari pagati anche con fondi di Bruxelles. È così che si presenta il confine lungo l’intera Turchia a chi cerca oggi di fuggire alle stragi in corso in Siria. Un’inchiesta condotta dai media danesi Politiken e Danwatch , in collaborazione con L’Espresso e il consorzio investigativo EIC, può rivelare come l’Unione abbia fornito oltre 80 milioni di euro ad Ankara per l’acquisto di mezzi militari blindati, apparecchi per la sorveglianza e navi per il pattugliamento delle frontiere. Fra le centinaia di contratti legati alla gestione dei profughi siriani e all'avvicinamento agli standard Ue, infatti, non ci sono solo aiuti umanitari. Ma anche il supporto tecnico per quella che si presenta ora come una frontiera invalicabile. E che rischia di diventare un monumento imbarazzante per l’Europa dei diritti. Perché quei sistemi bellici regalati alla Turchia sono ora al centro di un fronte di guerra. Nelle mani dello stesso esercito impegnato ad attaccare i curdi, alleati dell’Occidente, in un’operazione estranea a ogni regola internazionale e che sta provocando centinaia di morti. Come ad Afrin, nella Siria settentrionale, dove le milizie appoggiate dai turchi stanno operando un massacro.Il 18 marzo 2018 l’intesa stretta fra l’Unione Europea e il presidente turco Tayyp Erdogan per la gestione dei profughi siriani ha compiuto due anni. È in base a quell’accordo che la Turchia ospita oggi più di tre milioni e ottocentomila rifugiati - il numero più alto al mondo in un singolo Stato - senza permettere che lascino il paese alla volta di Atene, Colonia, Roma, Parigi. Un’accoglienza quasi obbligata, per la quale l’Europa ha stanziato tre miliardi di euro fra il 2016 e il 2017, ed ora si prepara a rinnovare l'impegno. In occasione dell’anniversario, la Commissione ha pubblicato un rapporto in cui sottolinea i «risultati concreti ottenuti nel ridurre gli irregolari» e nel diminuire le morti di chi cercava di raggiungere il Nord in ogni modo possibile, attraverso la rotta balcanica. Niente più stazioni gremite, niente più file di famiglie in cammino nel gelo ungherese.
La relazione di marzo dedica l’ultimo paragrafo alla visibilità di quanto fatto. Centinaia di articoli e post, applaude la Commissione. Pochissimi dedicati però all’altro volto dell’accordo. E alle sue conseguenze. Nel corso dell’ultimo anno Ankara ha infatti completato il muro che la divide ora dalla Siria. Barre di cemento alte tre metri e mezzo, sormontate da filo spinato, sono state alzate lungo quasi tutti i 900 chilometri di frontiera, ad eccezione di poche zone troppo impervie. A intervalli regolari torri d’avvistamento ordineranno in tre lingue alle persone vicine di allontanarsi immediatamente, spiegano i media locali. «Mentre l’America ancora dibatte sulla costruzione del muro», scriveva orgoglioso pochi giorni fa su Twitter il console turco a Chicago, Umut Acar: «La Turchia ha già costruito il suo».
Stando al console, e al governo, l’attraversamento «resta aperto a chi fugge dai regimi». Chiuso solo ai terroristi e al rischio di attentati, che avevano colpito duramente il paese negli ultimi anni. Ma così non è secondo le organizzazioni umanitarie. L’Osservatorio siriano per i diritti umani stima infatti che 42 civili siano stati uccisi solo negli ultimi sei mesi in prossimità del confine. L’Istituto internazionale per gli Studi strategici ha sancito a giugno che la Turchia «ha reso praticamente impossibile per i richiedenti asilo l’attraversamento legale della frontiera». Human Rights Watch ha scritto di 14 persone uccise, fra cui 5 bambini, fra il settembre 2017 e il marzo 2018. Anche l’organizzazione delle Nazioni unite per i rifugiati, l’Unhcr, ammette che «soltanto alle persone gravemente malate o ferite è concesso il passaggio per chiedere protezione». Chi vive nei villaggi prossimi alla zona rossa conferma: la barriera è chiusa; verso chi tenta di superarla, si spara.
«In base alla convenzione di Ginevra è vietato respingere rifugiati», commenta all’Espresso Laura Ferrara, europarlamentare del Movimento 5 stelle esperta di questioni migratorie: «ma chiaramente l’Unione non lo può controllare, questo, in territorio Turco». Lontana dagli occhi, la tutela delle vittime di guerra viene sottratta così a ogni verifica democratica. Gli avvocati di Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, la definiscono «esternalizzazione della frontiera e delle politiche d’asilo». «Spingendo ai margini la gestione», spiegano: «si rendono sempre meno visibili le violazioni dei diritti umani».
E un muro non è solo cemento. Come ha dichiarato lo stesso ministro della Difesa turco Nurettin Canikli, lo sbarramento in questo caso prevede sorveglianza, monitoraggio con i droni, sistemi armati a controllo remoto, posti di guardia. Quello che può rivelare l’inchiesta del consorzio EIC è ora che una parte di questo massiccio controllo militare è stata pagata attraverso fondi comunitari. Nel novembre del 2015 infatti la più grande azienda privata di difesa turca, la Otokar, ha vinto un contratto europeo da 47,5 milioni di euro per fornire 66 veicoli blindati equipaggiati per la sorveglianza, con radar e telecamere ottiche. Un mese dopo, Otokar ha dichiarato di esser pronta a garantire nuovi “Cobra II” per il controllo dei confini alla forze armate turche. Le specifiche tecniche del contratto Ue mostrano come si tratti degli stessi veicoli, mezzi filmati ora mentre pattugliano giorno e notte la linea del muro.
Fra le specifiche richieste dall’Unione c’è ad esempio un braccio telescopico per il rilevatore termico, allungabile di almeno quattro metri dal suolo: esattamente quanto serve per vedere oltre la barriera di cemento. I sensori termici devono essere in grado poi di intercettare «tre persone a una distanza di 10 chilometri» e riconoscerle a una distanza di quattro. In altre parole l’attrezzatura finanziata dall’Europa serve a scoprire già a distanza quei potenziali richiedenti asilo che ora rischiano la vita ad avvicinarsi; anche se alle spalle hanno le bombe di Goutha o le violenze dell’Isis.
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Non solo. I “Cobra II” sono dei mezzi strategici, per Ankara. Rendono infatti il confine fra Siria e Turchia ancora più impenetrabile, e inattraversabile, dalla popolazione curda che si estende etnicamente in entrambi i paesi. È un dettaglio importante. Tanto più adesso. Il modello di cui sono l’evoluzione, il “Cobra”, è infatti uno dei più utilizzati dall’esercito turco (che ne possiede oltre 700). Ed è ben visibile in questi giorni nelle immagini che arrivano da Afrin, la città bombardata da Erdogan proprio per cacciare le forze curde, alleate degli Stati Uniti e dell’Occidente nella lotta contro lo Stato Islamico. Per l’Onu si tratta di una «invasione illegale». Ma Ankara intende continuare la campagna militare. E l’Unione, che condanna l’ostilità, non può che trovarsi in imbarazzo. «L’accordo sui rifugiati siriani è un ricatto attraverso il quale Erdogan può permettersi di fare e ottenere qualunque cosa voglia, inclusa questa tremenda operazione in Siria», commenta l’europarlamentare del M5S Laura Ferrara.
I “Cobra II” non sono i soli mezzi militari forniti ad Ankara attraverso fondi europei. L’emergenza profughi è infatti alla base di altri due appalti militari. Il primo riguarda sei navi da pattugliamento destinate alla Guardia Costiera, dal valore di 18 milioni di euro, prodotte dalla olandese Damen. Il secondo è più complesso. Nel maggio del 2017 l’Europa stanzia 29,7 milioni di euro per la fornitura di 50 veicoli per la sorveglianza del confine fra Turchia e Grecia, in questo caso. Venti di questi mezzi, necessari a «prevenire l’immigrazione illegale, il traffico di essere umani e il contrabbando», come si legge nei documenti europei, devono essere blindati al punto da resistere a mine e granate.
Una delle società interessate, perplessa per la sproporzione fra la finalità del servizio e l’armatura prevista, chiede spiegazioni di quella richiesta «chiaramente eccessiva». Ma le istituzioni Ue ribadiscono: la corazza è necessaria. L’ordine viene vinto da due aziende turche. Aselsan, di cui l’esercito detiene l’84 per cento, produce l’apparato elettronico. Katmerciler mette invece a disposizione il veicolo, chiamato Hizir. La Katmerciler è un’azienda che sta a cuore al presidente Erdogan. Appartiene infatti a Ismail Katmerci, ex parlamentare molto vicino al Sultano, tanto che questi era presente, di persona, all’inaugurazione del nuovo blindato. Il risultato è un mezzo pesante armato di radar, telecamere a infrarossi e sistemi elettronici. «La presenza di tali apparati è grave di per sé», commenta Martin Lemberg-Pedersen dell’Università di Aalborg, in Danimarca: «Possono essere usati anche contro la stessa popolazione».
In una risposta inviata giovedì al consorzio EIC, la Commissione europea ha confermato l'appalto sui Cobra II, finanziato al 75 per cento da fondi Ue, e aggiunto che i veicoli consegnati alla fine sono stati 82. Spiegando come la protezione delle frontiere sia uno degli elementi per cui sono stati previsti fondi alla Turchia nell'ambito del processo di avvicinamento agli standard Europei. «È importante sottolineare», ha scritto: «Che l'Unione non fornisce nessuna attrezzatura militare o letale alla Turchia». Ma sia i Cobra II che gli Hizir sono, di fatto, veicoli militari che hanno il potenziale di essere usati in scenari di conflitto. «Dopo la consegna», ha aggiunto: «L'attrezzatura fornita da contratto sarà usata solo per il controllo dei confini. Qualsiasi altro utilizzo o modifica dell'equipaggiamento deve essere autorizzata dalla Commissione».
Nell’ultimo incontro del comitato che sovrintende l’accordo tra Ue e Turchia - i cui membri non sono mai stati resi noti - alcuni rappresentanti hanno iniziato a sollevare preoccupazione per le conseguenze diplomatiche e umane dell’intesa. Ma fermare l’esodo resta la priorità. Per cui i fondi continueranno. E così le ronde e i muri alle frontiere. Benvenuti in Europa.
Hanno contribuito all'inchiesta: Emilie Ekeberg, Danwatch - John Hansen, Politiken - Craig Shaw, The Black Sea - Zeynep Şentek, The Black Sea - Şebnem Arsu, The Black Sea - Maximilian Popp, Der Spiegel - Hanneke Chin, NRC
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