giovedì 17 agosto 2017

Un mare di sospetti attorno al caso di Giulio Regeni. La debole precisazione italiana al Nyt alimenta la pista degli interessi.

I dubbi sul filo diretto che lega l'Eliseo con Haftar e Al Sisi. "C'è chi ha inteso sfruttare il dramma per costruire relazioni privilegiate con l'Egitto".

Un mare di sospetti. Affari e geopolitica. Armi e petrolio. Pugnalate alle spalle dei "fratelli coltelli" europei e di gole profonde di oltre Oceano. Interviste "sospette", pilotate per chiudere il caso, e raìs senza scrupoli che in cambio del contenimento dei migranti chiedono miliardi di dollari oltre che il silenzio assoluto sui crimini interni. Libia ed Egitto. Lager e Regeni. Un mare di sospetti nell'estate dei veleni. Fuori dall'ufficialità, fonti governative italiane non nascondono l'irritazione per le rivelazioni "ad orologeria" del New York Times sul caso Regeni. Il Governo italiano afferma di non aver ricevuto "elementi di fatto" dagli Usa, né tantomeno "prove esplosive", ma il Nyt cita ben tre rappresentanti dell'amministrazione Obama e la precisazione debole di Palazzo Chigi non dissolve le nebbie, né attenua l'indignazione dei genitori di Giulio: "Riteniamo che sia stata una modalità inaccettabile e siamo contrari all'invio dell'ambasciatore perché rappresentava l'unica nostra arma per fare pressione sul governo egiziano che finora non ha dato segni di collaborazione se non l'invio di questo faldone che non si sa ancora cosa contenga" afferma il padre, Claudio Regeni, al Gr1.

La polemica interna esplode mentre si guarda a Washington come a Parigi, Berlino, Bruxelles per capire di più sul perché sia deflagrato il caso a livello internazionale e, soprattutto, se dietro quell'articolo-bomba vi siano interessi che confliggono con quelli italiani. "C'è chi ha inteso sfruttare il dramma di Regeni e la reazione italiana per costruire relazioni privilegiate con il regime egiziano, cosa che oggi stanno ripetendo in Libia", si lascia andare una fonte diplomatica con l'HuffPost. Una considerazione resa esplicita da Nicola Latorre, presidente della Commissione difesa del Senato. L'Italia guarda con preoccupazione al filo diretto che lega l'Eliseo con Haftar e al-Sisi.
Poi ci sono gli interessi dell'Eni che hanno spinto Palazzo Chigi e Farnesina a riportare il nostro ambasciatore al Cairo (Gianpaolo Cantini sarà operativo da settembre) e per ristabilire normali relazioni diplomatiche con l'Egitto. La ragione principale sta nell'individuazione (nel 2015) da parte del Cane a sei zampe di un giacimento nell'offshore egiziano (Zhor) con un potenziale di risorse fino a 850 miliardi di metri cubi di gas. Lo sfruttamento del giacimento petrolifero potrebbe essere operativo entro la fine dell'anno, e sono in molti, non solo a l'Eni, a temere che l'asse Macron-Sisi possa avvantaggiare la francese Total. E c'è chi, alla Farnesina, in questa burrascosa estate, ricorda come l'allora presidente francese Francois Hollande, "si fosse precipitato in Egitto mentre la tensione diplomatica tra l'Italia e Il Cairo era all'apice, e in quell'occasione si fosse guardato bene dal sollevare con al-Sisi il caso-Regeni, nonostante l'Ue avesse solidarizzato con l'Italia. L'importante era fare affari con il presidente egiziano...".
Sospetti percorrono le due Sponde del Mediterraneo. Al centro, le rivelazioni del New York Times. Fonti citate dal Nyt affermano: "Non è chiaro chi avesse dato l'ordine di rapire e, presumibilmente, quello di uccidere" Regeni, ma "quello che gli americani sapevano per certo, e fu detto agli italiani, è che la leadership egiziana era pienamente a conoscenza delle circostanze dell'uccisione" del ricercatore. Di più: "Non abbiamo dubbi di sorta sul fatto che questo fosse conosciuto anche dai massimi livelli. Insomma, non sapevamo se fosse loro la responsabilità, ma sapevano, sapevano".
Nel frattempo i sette magistrati italiani inviati al Cairo "venivano depistati ad ogni piè sospinto" e lo stesso ambasciatore italiano Maurizio Massari "presto smise di usare le email e il telefono per le comunicazioni delicate, ricorrendo a una vecchia macchina che scriveva su carta sulla base di un codice criptato". Anche perché "si temeva che gli egiziani impiegati presso la sede diplomatica italiana passassero informazioni alle agenzie di sicurezza egiziane". Su raccomandazione del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca - spiega ancora il New York Times in una lunga ricostruzione della vicenda - gli Stati Uniti hanno passato questa conclusione al governo Renzi. ''Non era chiaro chi avesse dato l'ordine di rapire e, presumibilmente, ucciderlo'', ha detto un'altra fonte. Ma quello che gli americani sapevano per certo - e che avrebbero condiviso con gli italiani - era che la leadership egiziana era totalmente consapevole delle circostanze della morte di Regeni, si legge ancora sul Nyt. "Non avevamo dubbi che questa faccenda era conosciuta ai massimi livelli", ha spiegato una terza fonte dell'amministrazione Obama: "Non so se avessero la responsabilità ma sapevano".
"Sempre più lutto!" scrive la mamma di Giulio Regeni, Paola Deffendi, in un post sul proprio profilo Facebook nel quale pubblica le foto della bandiera italiana listata a lutto esposta dal giorno della morte del giovane sul Municipio di Fiumicello (Udine), dove vive la famiglia Regeni. La stessa foto, da oggi, è utilizzata da Paola Deffendi come immagine del proprio profilo Fb. Nel post, in un'altra foto, insieme alla stessa bandiera, si vede un pezzo del manifesto di colore giallo "Verità per Giulio Regeni". Una verità lontana, probabilmente irraggiungibile.
Non è la prima volta che il New York Times tratta la vicenda Regeni. Un passo indietro nel tempo. Tre fonti egiziane coinvolte nelle indagini sull'omicidio riferiscono al Nyt che Giulio sarebbe stato "preso" da alcuni agenti di polizia al Cairo lo scorso 25 gennaio. Secondo una delle fonti, Regeni sarebbe stato portato via perché avrebbe reagito in maniera brusca agli agenti che lo avevano fermato. "Era stato molto scortese ed aveva agito come un duro", ha dichiarato la fonte, che come le altre due ha preferito mantenere l'anonimato. Tutte e tre le fonti intervistate separatamente dal Nyt spiegarono che Regeni aveva sollevato sospetti negli agenti a causa di contatti trovati sul suo cellulare con alcune persone legate ai Fratelli Musulmani, organizzazione islamica al bando in Egitto, e con il movimento del "6 Aprile", tra i protagonisti della rivoluzione che nel 2011 portò alla caduta del regime di Hosni Mubarak. "Gli agenti - ha proseguito una delle fonti - pensavano che fosse una spia. Dopo tutto chi viene in Egitto a studiare i sindacati?". Un testimone, citato sempre dal quotidiano statunitense, ha confermato che il ricercatore sarebbe stato fermato da due agenti. Uno gli avrebbe perquisito la borsa, mentre l'altro gli avrebbe controllato il passaporto. I due agenti avrebbero, poi, portato via Regeni. Secondo il testimone, uno dei due poliziotti avrebbe fatto domande sul giovane ai residenti del quartiere nei giorni precedenti la sua scomparsa. Il Nyt evidenziava inoltre che, nel percorso da casa alla stazione della metropolitana che Giulio Regeni avrebbe dovuto prendere, il ragazzo è passato davanti a quattro negozi, che hanno telecamere di sorveglianza, dalle quali sarebbero potuti emergere elementi importanti. Tuttavia i rivenditori riferiscono che la polizia non ha richiesto di visionare i filmati, sottolineava ancora il New York Times", aggiungendo che questo può essere indice di negligenza o di un tentativo di insabbiamento. In ogni caso, spiegano i rivenditori, ogni prova che sarebbe potuta emergere dai nastri si è persa perché i video si cancellano automaticamente alla fine del mese.
L'8 febbraio il ministro egiziano degli Interni, Magdy Abdel Ghaffar, aveva risposto con un "no" secco a una domanda dei giornalisti sull'ipotesi che la polizia tratti la vicenda come un caso di spionaggio. "Trattiamo il caso del giovane italiano come fosse un egiziano", aveva dichiarato il ministro, aggiungendo che Regeni "non era mai stato arrestato da qualsiasi organo della polizia", affermando ancora una volta che la vicenda è "sicuramente un atto criminale": cosa che gli inquirenti italiani hanno sempre considerato una pista "più che improbabile". Non c'è giorno in questi 19 mesi che dall'Egitto non arrivino nuove rivelazioni che danno sempre più corpo alla pista "assassinio di Stato". Due testimoni anonimi hanno confermato alla"Associated Press" che sarebbe stata un'esecuzione "a sangue freddo" perpetrata dalle forze dell'ordine il presunto "scontro a fuoco" in cui furono uccisi al Cairo i rapinatori presso cui sono stati rinvenuti documenti d'identità di Giulio Regeni. I testimoni hanno precisato che i 5 uomini uccisi non erano armati e che sette veicoli della polizia accerchiarono il minibus su cui viaggiavano e iniziarono a sparare. L'uccisione avvenne verso le sei del mattino: mentre la polizia crivellava di colpi il veicolo alcuni uomini sono saltati fuori dal mezzo e hanno cominciato a correre per essere poi uccisi "a sangue freddo", ha detto un testimone. In seguito la polizia ha confiscato le riprese di videocamere di sorveglianza di case vicine, hanno detto i due testimoni più altri quattro presenti sul posto dopo la sparatoria. I corpi furono lasciati sulla strada per circa dieci ore, hanno riferito ancora i testimoni sotto anonimato per paura di ritorsioni.
L'accusa di aver ucciso a freddo i componenti della banda era già stata mossa in varie interviste da Rasha Tarek, la figlia del cosiddetto "capo". Il ministero dell'Interno, dando conto delle cinque uccisioni avvenute il 24 marzo, in un comunicato parlò di uno "scontro a fuoco" in cui però le forze dell'ordine avevano lamentato solo danni a proprie vetture. Rasha inoltre ha esplicitato le proprie accuse già mosse in maniera meno diretta al governo egiziano circa una responsabilità nell'uccisione di Regeni e successivi depistaggi dicendo all'Associated Press: "Accuso il ministero dell'Interno di tentare di coprire le proprie malefatte uccidendo la mia famiglia". Tra l'altro, il giorno del rapimento di Regeni, tre componenti della cosiddetta "banda" erano lontani da Il Cairo.
Mostrando anche foto di lavori svolti, i due figli di Tarek hanno confermato quanto riferito alla Cnn: ossia che il marito di Rasha era solo un imbianchino che si stava recando a compiere un lavoro a Tagammu al-Khamis, quartiere della periferia est del Cairo dove poi fu ucciso dalla polizia assieme al suocero, al cognato, a un amico pregiudicato e all'autista del minibus su cui viaggiavano. - Su queste accuse non è stato possibile ottenere commenti da diverse autorità egiziane. Abdel-Wahab Youssef, l'avvocato della famiglia autista Farouk (26 anni), ha detto all'Ap che gli è stato negato l'accesso agli atti dell'indagine tra cui le autopsie: "la segretezza dell'indagine solleva dubbi", ha detto il legale. Rasha ha riferito che la polizia era solita perquisire le abitazioni della famiglia a causa di precedenti problemi con la giustizia e ha ripetuto che padre e fratello il giorno in cui furono uccisi erano con suo marito perché lei aveva chiesto loro di seguirlo temendo che la tradisse.
Sono solo alcuni episodi di una lunga serie di ricostruzioni improbabili e di depistaggi a go go inanellati dalle autorità egiziane per nascondere la verità: quello di Giulio Regeni è un "omicidio di stato". Sul caso Regeni "l'ultimo periodo ha dimostrato chiaramente che l'Egitto fornisce ogni forma di aiuto. C'è stata trasparenza totale nelle inchieste e ci sono contatti tra la procura generale egiziana e quella italiana", insiste il portavoce del ministero degli Esteri del Cairo, Ahmed Abou Zeid, in una intervista alla tv privata Dream e pubblicata sul suo profilo Twitter. Nessun'autocritica, tutto sarebbe avvenuto alla luce del sole, nessun depistaggio, nessuna bugia venduta come verità. Il portavoce spiega che "ciò che ha complicato le relazioni tra Italia ed Egitto è stato che durante questo periodo la vicenda è stata trasformata da un caso penale a un affare politico. E abbiamo chiesto molte volte all'Italia di non fare questa confusione". Insomma, non è l'Egitto, ai suoi massimi livelli, ad essere responsabile di una innumerevoli depistaggi, ma è l'Italia ad essere colpevole per aver "politicizzato" un "caso penale". Su queste basi, pensare che un diplomatico, per quanto capace come è l'ambasciatore Contini, possa incrinare il Muro dell'omertà innalzato dall'Egitto, più che un'illusione sembra un insulto alla ragione. "Quando c'era l'ambasciatore Massari in quei terribili giorni - ricorda Claudio Regeni - è un ambasciatore stimato, lui si era immediatamente attivato, ma non ha avuto risposte. Come farà un nuovo ambasciatore che arriva ora, anche se molto competente, con gli stessi interlocutori che fin dall'inizio hanno depistato?".

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