giovedì 31 agosto 2017

La politica, arte di guardare lontano.

Ancora qualche riflessione a partire dalla ricorrenza del primo anno dal sisma che distrusse città e villaggi del Centro Italia lo scorso 24 agosto 2016, a poche ore dalla piccola scossa che ha fatto seri danni, e un paio di morti e qualche ferito, a Ischia. Con una impudenza straordinaria il ceto politico si ripete negli annunci, nelle garanzie, nelle promesse. Faremo, porteremo, sgombreremo: una sovrabbondanza di tempi futuri per gente che reclama il presente. E l’immancabile fervorino ai soccorritori (ma che devono fare i professionisti del ramo, se non soccorrere?!), e soprattutto lo stucchevole richiamo allo Stato che “non lascerà sole queste popolazioni”.



micromega Angelo d'Orsi


Poi si spengono le luci della ribalta mediatica, accade un’altra disgrazia o un evento da prima pagina, e le popolazioni, accarezzate 48 ore prima, vengono tosto dimenticate. Lo Stato se ne frega, in sintesi. Davvero è una storia comica, se non fosse drammatica, e spesso tragica, per la gente colpita da terremoti, alluvioni, frane.

E allora vien da chiedersi, quali sono i doveri dei politici di professione? O alzando il tiro, interrogarsi sulla stessa politica. La quale potrebbe essere definita come ha fatto qualcuno, nel secolo XIX (il giurista tedesco Georg Jellinek), l’arte di guardar lontano. Ossia, prima di assumere una decisione, occorre la capacità di esaminare gli effetti, prevedere le conseguenze, indagare i possibili esiti, sia quelli strettamente inerenti alle scelte compiute, sia quelli indipendenti da esse, ma che possono, appunto, essere innescati da quelle scelte.
Perciò, tanto più nelle società complesse, ciascun attore politico ha bisogno di ricorrere al sapere, e alle tecniche relative a ciascun sapere. In altri termini, i politici hanno la necessità di chiedere agli esperti di ciascun ramo, specie se, come accade in Italia, gli stessi uomini e le stesse donne passano da un ministero all’altro con assoluta disinvoltura: il primo dato che emerge, dunque, è l’assoluta “in-competenza”, ossia il contrario della “competenza”. La classe politica è composta di persone che non hanno, di regola, nessun know  how in nessun campo, e quindi possono tranquillamente transitare dall’Agricoltura all’Istruzione, dai Trasporti alla Cultura, dall’Industria alla Difesa… Aggiungasi che la classe politica è composta di persone di regola prive persino di un livello basico di istruzione, e quando pure siano riuscite “a strappare uno straccetto di laurea alla svogliatezza e al lasciar passare dei professori” (così Antonio Gramsci, un secolo fa), esse, perlopiù, non hanno neppure idea di che cosa significhi “cultura”.


Quando ascoltiamo le dichiarazioni di ministri e sottosegretari, di presidenti di Regione o di sindaci di comuni capoluogo (anche importanti), persino di semplici deputati e senatori, proviamo sgomento, talora raccapriccio, voglia di urlare improperi. Eppure a costoro spetta il compito di occuparsi della cosa pubblica, e se non sono in grado di specializzarsi in un ramo, dovrebbero ascoltare i pareri di chi davvero sa. Ma in un Paese endemicamente corrotto, persino i “consulenti” sono scelti in base alla logica del “familismo amorale”, o semplicemente di “amici degli amici”. Sicché l’incompetenza del politico si somma a quella del suo consulente, il governante sgoverna anche grazie alla rozzezza e alla superficialità dei “tecnici” da lui prescelti. Con poche eccezioni, i veri “esperti” vengono tenuti ai margini, si tratti di arte o di geologia, di vulcanologia o di geografia, di economia o di politica estera, di istruzione o di mineralogia.

Certo, Aristotele aveva definito la politica “la più architettonica delle arti”, perché in sostanza il politico dovrebbe sommare in sé tante competenze: cosa già difficile ai tempi di Aristotele, figurarsi oggi. Da cui la necessità degli esperti, dei tecnici, di quelli veri, che non siano cioè al soldo di qualcuno o non siano in cerca di ingaggi politici, fornendo ai potenti di turno consulenze di comodo. In altri termini, le vere competenze esistono, numerose, in ogni ramo, ma vengono ignorate, o disattese. Gli esperti autentici esistono, e a loro, nella più favorevole ipotesi, viene concesso lo ius murmurandi: siamo liberi di fare critiche, insomma. Tanto “Loro” (o, per evocare il grande Fortebraccio, genio della satira, “Lorsignori”) vanno avanti, comunque. La TAV va avanti, ecco l’esempio più clamoroso della cecità di un intero ceto politico.

Sicché accade che a dispetto della scienza,  e della competenza, i politici assumono quasi sempre decisioni gravemente sbagliate, le cui conseguenze non calcolate, si abbatteranno su intere generazioni, su intere aree geografiche, in definitiva su un intero Paese. Sempre senza badare al dopo, sempre inseguendo, la logica della mai abbastanza vituperata “emergenza”. Sulla spinta, emotiva, opportunamente pompata dai Citizen Kane di casa nostra, ossia dai media, si assumono decisioni grottesche, prive di qualsiasi logica di vera e buona politica. A volte sono i media stessi a dettare l’agenda alla classe politica, sulla base di calcoli che a noi profani sfuggono, ma che invece vengono fatti, e valutati: quante copie  in più si venderanno se parliamo di “emergenza migranti”? Quanto salirà lo share della rete tv se lanciamo la campagna della spending review? Quanti lettori/ascoltatori/telespettatori acchiapperemo se diciamo “via le province e gli enti inutili!”? Quanto saremo graditi al governo o alla Confindustria se pigiamo sul tasto dell’“eccellenza” e del “merito”?

Così accade che nel plauso generale sono state cancellate le Province, organo previsto dalla Costituzione, e anche se fortunatamente il referendum del 4 dicembre 2016 ha bocciato tutto il pacchetto “riforme”, ora le Province sono in una sorta di limbo assurdo. Che cosa implica questo? Che la rete delle strade provinciali giace praticamente senza manutenzione. Idem dicasi per le scuole di competenza di quegli organi amministrativi: solo per fare due esempi. Possibile che nessuno ci avesse pensato prima di dismettere le Province?

E che dire dell’abolizione del Corpo Forestale dello Stato? Uno dei pochi strumenti utili in una pletora di organi superflui? Inserito, da corpo civile qual era, in una struttura militare, addirittura l’Arma dei Carabinieri, il Corpo è stato scientemente reso inerte, con una serie di conseguenze gravissime che abbiamo toccato con mano nella recente devastante stagione estiva degli incendi. In attesa che la Corte Costituzionale dichiari illegittimo il provvedimento (firmato dalla incredibile “Ministra” Madia, che non ne ha azzeccata una che sia una), dobbiamo solo sperare nella pioggia.

E come non fare almeno un cenno a un’altra geniaccia della politica, la ministra “della Salute” Lorenzin che dopo aver inanellato una serie di figuracce se ne è uscita con i dodici vaccini obbligatori, poi ridotti a dieci, provvedimento discutibile sul piano medico e intollerabile su quello politico, ma soprattutto provvedimento di complicatissima attuazione, come risulta dai contenziosi immediatamente nati tra istituti scolastici, ASL, Regioni e altre varie autorità. Di nuovo: possibile che, ammesso trattarsi di una  decisione in teoria (solo in teoria) corretta, nessuno avesse provato a ragionare sul “che cosa succederà, dopo?”.

Ma vorrei anche ricordare il 112, “Numero unico per le emergenze” affidato a call center privati, con un gesto che non si sa se sia più disonesto o cretino. Quanti morti, quante aggressioni non sventate, quante rapine non fermate, si dovranno mettere in conto al genio che ha fatto quella scelta? Perché non si è guardato ad altri Paesi, prima di procedere? Perché non tener conto dell’esperienza altrui, prima di avventurarsi in decisioni azzardate?

E ritorniamo ai terremoti. Paese sismico, Paese fragile, Paese “leggero”, sentiamo ripetere: e il terremoto, in un’epoca in cui ormai quasi tutto si prevede e ci si prepara a fronteggiare, viene presentato come un evento imponderabile, davanti al quale nessuno ha colpa: i privati che soprelevano senza permesso, i costruttori che usano materiali scadenti, i politici che chiudono un occhio o anche entrambi. E in fondo in fondo, un terremoto può avere anche i suoi lati positivi, come le famigerate telefonate tra imprenditori e politici ai tempi infausti del devastante sisma dell’Aquila. V’è dunque sempre chi si frega le mani; anche davanti allo scempio di case e di cose, di vite e di sogni; un terremoto, un maremoto, una slavina, la rottura di una diga, o persino una guerra. V’è sempre un  pugno di uomini che se la gode. E gli altri, la grande, la stragrande maggioranza, crepano o si svenano per sopravvivere. Nel silenzio o peggio, nella complicità attiva o passiva del ceto politico. Che invece di guardare lontano, vive di selfie e di tweet.

(29 agosto 2017)

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