giovedì 24 agosto 2017

Amatrice. «Noi, sopravvissuti al sisma di Amatrice, vi raccontiamo cosa è successo nell'ultimo anno».

A dodici mesi dal terremoto che ha sconvolto il centro Italia, siamo tornati a intervistare le stesse persone che avevamo incontrato dopo il disastro. Per scoprire dai loro racconti cosa è stato fatto. E come cambia la vita. 

L'Espresso Federica Bianchi

«Noi, sopravvissuti al sisma di Amatrice, vi raccontiamo cosa è successo nell'ultimo anno»

Specchiarsi in quei volti. I volti del 24 agosto 2016. I volti del terremoto. La tragedia che ha colpito i territori di quattro regioni e devastato i comuni di Amatrice, Accumoli, Pescara e Arquata del Tronto. E farlo un anno dopo tornando a incontrare gli uomini e le donne che avevamo ritratto allora. Simboli di un dolore che ha spezzato il cuore dell’Italia. Vittime di un mostro invisibile che non hai mai davvero dato loro tregua, tornando ad accanirsi il 30 ottobre, il 18 gennaio e, in forma minore, anche qualche giorno fa. Complicando e allungando ancora i tempi dell’opera di ricostruzione.
Gara di solidarietà
Ritrovare Giuseppe, il maggiore dei tre fratelli Milano, proprietari della Thermomilano, una società di impianti idraulici, a un anno di distanza vuol dire imbattersi in difficoltà spicciole, ma anche in uno straordinario intreccio di storie di solidarietà. Lui e la moglie Elisabetta, proprietaria del ristorante La Conca, che sta riaprendo nell’“area food” tanto voluta dal sindaco Sergio Pirozzi, sono oggi ospiti di un’elegante coppia di pensionati di Modena, che all’ombra di una frazione di Amatrice ha trovato il suo buon ritiro. Dopo anni passati a viaggiare, Talal Kaadana, siriano emigrato in Italia una vita fa ed ex direttore commerciale della Marazzi per Africa e Medio Oriente, aveva progettato di passare gli ultimi anni in semi solitudine tra alberi centenari, libri, musica e qualche bottiglia di ottimo vino, ospitando d’estate gli amici di sempre, con cui condividere lunghe chiacchierate. Poi l’imprevisto.


Con il terremoto lui e la moglie modenese si sono resi conto che la loro è una delle poche case antisismiche di Amatrice. E che l’appartamento per gli ospiti ben si prestava ad accogliere nuovi conoscenti come i Milano e i loro anziani genitori. «Adesso la casa è un porto di mare», sospira tra il divertito e lo stanco Maria Gabriella Longoni. Modena e Amatrice, due città tanto diverse quanto le loro genti, l’idraulico e il manager, unite da una tragedia che crea inaspettate geometrie. E inaspettato è stato anche il regalo di Ignazio Catalano, il vigile del fuoco che si è commosso davanti alla bicicletta del nipote di Giuseppe distrutta dalla scossa del 30 ottobre, breve e violenta. E che, a qualche giorno dalla fine del suo turno di lavoro, tornato a casa, ne ha spedita al ragazzo una nuova di zecca. O quello di un gruppo di vigili del fuoco di Verbania, che ai Milano hanno addirittura regalato un container-magazzino, dopo avere racimolato i soldi spogliandosi per un calendario fatto in casa. E ancora, quello ricevuto da Elisabetta, a cui alcuni clienti di San Sepolcro hanno portato non solo medicinali veterinari per l’azienda agricola di famiglia, ma anche una scatola piena di soldi, tutti versati dai loro amici durante una camminata per Amatrice.


Burocrazia cieca
Festine Dinushi, una cinquantenne albanese che, tra un lavoro da badante e un altro da donna di fatica, ha cresciuto le figlie a Grisciano, vicino Accumoli, non ha mai smesso di piangere. L’avevamo incontrata in un tendone blu della Protezione civile mentre faceva colazione a caffè e biscotti con la figlia minore Daniela, studentessa liceale con gravi disturbi del metabolismo. Era intontita dal dramma, quasi non potesse appartenerle. A distanza di un anno, insieme con la casa, il terremoto le ha portato via anche l’anima. E quell’isola di felicità che aveva trovato tra gli Appennini del reatino. «Mi hanno distrutto tutto», spiega mentre guarda ancora una volta quel cumulo di sassi che chiamava casa. Dopo la seconda scossa, quella terribile del 30 ottobre, la casa è diventata pericolante ed era necessario abbatterla insieme alle due vicine. «Doveva avvenire un venerdì mattina e noi ci eravamo organizzati per arrivare con il pullman da San Benedetto del Tronto», dove la famiglia è alloggiata in albergo dall’estate scorsa in attesa dell’abitazione provvisoria. «E invece hanno abbattuto la mia casa il giovedì pomeriggio, senza avvertirci e così abbiamo perso tutte le nostre cose, che avevamo radunato in cantina. Ci avevo provato nelle settimane precedenti ad andarle a recuperare, ma i vigili mi dicevano di aspettare il mio turno». Un turno che non è mai arrivato. «Non siamo bravi a fare male e subiamo il male», sussurra con un filo di voce. «Non ho nemmeno fatto in tempo a prendere il lampadario bianco con il bordo azzurro».

Il sindaco di Accumoli, Stefano Petrucci, spiega che è un problema dei Vigili del Fuoco. Il coordinatore del Centro operativo intercomunale (Coi) di Amatrice e Accumoli, Fabrizio Cola, dice che tutto è andato secondo quanto previsto dall’ordinanza. Certo, l’abbattimento della particella dei signori Dinushi sarebbe dovuta avvenire il venerdì, ma avendo finito di demolire le unità circostanti in anticipo, i vigili hanno aggredito l’edificio il giovedì pomeriggio. Niente di grave per la macchina degli aiuti. Un vero dramma per chi sotto quelle macerie aveva tutte le proprie cose. «Quando sono arrivata il venerdì mattina ho visto la busta delle camicie che avevo preparato sotto la ruspa. Mi dispiace tanto». Gli occhi sono rossi sulla maglietta da lavoro. «Ho avuto tre disgrazie nella vita: l’emigrazione, le malattie delle mie figlie e il terremoto. Ma io sono una sola».

Forzati del mare
Giovanni Adduci, la moglie e il figlio Federico hanno un enorme sorriso stampato sul volto quando si accomodano sulla veranda dell’hotel Parco a San Benedetto del Tronto in un caldo pomeriggio estivo. I bagnanti in costume tornano dalla spiaggia affollata di uomini e di ombrelloni, ordinatamente disposti su dodici file. Adduci senior si tocca il ventre voluminoso. «Lo so, sono ingrassato ma come devo fare? Qui ci danno ogni ben di Dio e non si può mica buttare nulla», esclama mentre afferra una bruschetta dal piatto dell’aperitivo. Non tutti, non sempre nelle campagne di Accumoli mangiavano tre portate più volte al giorno, racconta Federico: «E ora invece c’è chi si lamenta della sistemazione in albergo, ma poi mette i soldi della pensione da parte perché è tutto pagato, vitto e alloggio. Nessuna bolletta. Perché lamentarsi?» Gli Adduci vorrebbero restarci fino all’inverno a San Benedetto, nonostante il sindaco dica che a fine agosto alla maggior parte della popolazione sarà assegnata una casa temporanea nel paese dove abitava. Ma loro, a differenza di altri, non hanno fretta di tornare a Villanova. Nessuno ha un lavoro che lo attende. Nemmeno Federico, che un’occupazione la cerca anche, ma non è disperato per il fatto di non trovarla. Il pensiero di tutti è superare il trauma della morte di Rosella, la figlia ventenne che lavorava in un negozio di Amatrice e che quella sera in cui il destino le si è accanito contro era ospitata a casa di un’amica lungo il corso principale. Lei non c’è più e il momento in cui ne parla è l’unico in cui gli occhi della madre luccicano mentre tira fuori un santino con la foto della giovane ragazza dalle méches rosa. Ma qui è lontana dai luoghi del trauma, dalle macerie di pietra. «Non li ho mai portati al mare i miei figli. Una volta volevo, ma la pediatra mi disse “Non abiti in montagna? La montagna è meglio del mare. Vai più in alto, non in basso”». Nessuno in famiglia sa nuotare. «Una volta a nove anni andai a fare fieno in calzoncini corti», ricorda lui: «La sera fu un dramma. Le gambe erano rosse e facevano un male incredibile. Ho giurato che non avrei mai più indossato i calzoncini corti. E non l’ho più fatto. Ma con i pantaloni lunghi in acqua non ci posso mica andare».

Pini e sale hanno comunque fatto tornare il colore sulle guance di Giovanni, lo stesso che avevamo incontrato accanto all’obitorio di Amatrice quando ancora le sorti della figlia erano incerte. Di quell’incontro nella sua memoria non rimane nulla. Avvolto come era in un impermeabile blu, resistente alla pioggia ma non al dolore.

Business macerie
Seduto su una panchina sul lato opposto della strada rispetto all’hotel Bruna a Martinsicuro, un paesino poco a sud di San Benedetto del Tronto, Giuseppe Di Girolamo, detto Beppe, è l’icona dell’attesa. Attende che gli venga data una casa. Attende di tornare a lavorare. Attende che si sblocchi la pratica per la ricostruzione (provvisoria) del suo bar. Niente funziona come vorrebbe. Ad Accumoli il sindaco ha scelto di non distribuire una parte delle donazioni ricevute sotto forma di contributo per il mancato reddito a tutti i commercianti, come invece ha fatto Pirozzi ad Amatrice. Ci devono pensare direttamente i privati donatori. Ma la cosa non è semplice. Se la Confederazione nazionale dell’Artigianato ha ricostruito il bar chiavi in mano a un altro operatore di Grisciano, la Confcommercio ha solo offerto i soldi per la costruzione delle mura di legno del bar di Di Girolamo, senza però mettere a disposizione un tecnico per le pratiche burocratiche, richiesta del certificato di stabilità presso il Genio civile inclusa. Di Girolamo ha sì assunto un suo tecnico, Tonino Priori, ma questi, fino al giorno del nostro arrivo, era lontano dal riuscire a sbrigare in fretta le pratiche per riaprire l’attività. Eppure rimettere in moto i vecchi esercizi non è certo una questione di denaro. I soldi sono arrivati in abbondanza in questo territorio piccolo e fragile. Ma la burocrazia italiana non è famosa per essere semplice e in tempi di emergenza le inefficienze a cui ci siamo ipocritamente abituati pesano più del normale. E poi ci sono le invidie di paese e i tentativi di incassare più soldi del dovuto, magari ingigantendo con i tecnici della Regione la vera entità delle perdite subite, ad esempio negli arredi della propria attività, nella speranza che con quattro soldi in più si possa ripartire meglio. Sempre che non si sia costretti a certificare ogni euro di spesa futura. Un gioco del cane e della volpe che finisce però con allungare i tempi del disagio per tutti.

All’Aquila è meglio
Occorre scendere a valle per andare a trovare Elena Serafini, la signora settantenne che piangeva senza sosta il giorno dopo il terremoto del 24 agosto nel giardino della casa di un vicino, a pochi metri dalle crepe devastanti del suo appartamento, frutto dei risparmi di una vita. A valle verso l’Aquila e verso la sua ampia spianata, dove nel 2009 il governo Berlusconi, dando un calcio a ogni regolamento che garantisse l’assenza di corruzione, diede in pochi mesi un tetto a 70mila persone. Le famose “casette”. Alcune - molte sono oggi in rovina - stanno godendo di una seconda vita: qui, a Pagliari di Sassa, dopo avere rifiutato una stanza di albergo sulla costa adriatica, hanno scelto di vivere alcuni abitanti di Amatrice. Cambio di città e di prospettiva. In attesa delle casette vere, le loro. Ma l’attesa, si sa, può riservare sorprese. «Quando Berlusconi consegnò queste casette io vidi in televisione la gente che ci entrava e rimasi incantata, condividendo le loro emozioni come se me lo sentissi che ci sarei venuta pure io», racconta Elena: «D’inverno la casa è caldissima. La rimpiangerò. E poi nei dintorni non manca nulla. I supermercati sono riforniti di qualsiasi cosa. Da qui Amatrice sembra un paesetto. E senza i romani che portano soldi e vita, è proprio vero che morirà». Serafini è un fiume in piena. Come l’anno scorso. Ma questa volta le acque non sono più nere. «Una coppia di Amatrice si è trasferita con il bambino autistico, che ora va in una scuola dove gli insegnanti sono gentili e preparati. Il bimbo ha cominciato a parlare. Sta molto meglio. Loro indietro non ci vogliono più tornare». Sopra e accanto alla stufa nera nell’angolo del saloncino i ninnoli a lei così cari sono tornati a vivere: la foto del matrimonio, quando era una diciassettenne dal volto tondo, un trullo in ceramica, un vecchio orologio da tavolo, un cestino di limoni bianco e giallo, qualche angioletto, una matrioska, lo scudetto della Roma. «Molti si sono rotti per sempre, ma conosco una signora di qui che forse alcuni li può riparare».

Agricoltori fortunati
All’allevatore Antonio Filodei di Arquata del Tronto la casetta temporanea è appena arrivata, completa di cucina, televisore, ferro da stiro e persino di phon per i capelli. Unico problema: le dimensioni. In base alle norme, una famiglia di quattro persone con due figli di sesso diverso dovrebbe vedersi assegnare una casetta di 80 metri quadrati, non di sessanta, più adatta a una coppia con un figlio solo o con due dello stesso sesso. «Lo dice lei che è colpa dell’invidia», si sfoga la moglie Tiziana. Il problema è che a Pescara del Tronto, nella disgrazia, i più fortunati di tutti sono stati proprio gli allevatori: hanno ricevuto in donazione stalle e fieno per gli animali, veicoli da lavoro, soldi liquidi. E perfino bestie nuove. Ma Antonio non è contento. Scende dal trattore in quel campo che, dall’altra parte della Salaria, si affaccia ogni giorno sulla valanga di macerie in cui si è trasformato il paese. «Prima di avere la casetta stavamo ad Ascoli Piceno in affitto, con i soldi del contributo regionale», racconta. I figli erano entusiasti, aveva detto la moglie sull’uscio di casa. «Un disastro», dice Antonio. Lui sta per riaprire la macelleria che gestisce con la moglie all’interno di uno dei container che faranno da centro commerciale di Pescara del Tronto. Lì sulle sponde del fiume, vicino a dove presto aprirà i battenti un nuovo stabilimento della Tod’s «Quando c’è stata quell’orribile nevicata di gennaio la zona è rimasta isolata per una settimana e le mie capre sono morte di sete e di fame. Le ho dovute portare a braccia giù a valle». Adesso le capre e le pecore è riuscito a recuperarle grazie a una donazione. Rimane, però, l’indignazione. «È mai possibile che all’Aquila in tre mesi abbiano risolto il problema e qui riusciamo ad entrare solo un anno dopo?».

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