"Dopo 16 anni di errori, dall'Afghanistan dobbiamo solo andare via". Intervista al generale Franco Angioni
"La storia ci dovrebbe aver insegnato che lo strumento militare non può sostituire o surrogare una strategia politica"
"Non dobbiamo uscire dall'Afghanistan per paura,
ma per mettere a frutto le esperienze, anche negative, di questi sedici
anni di errori". A sostenerlo, in questa intervista esclusiva concessa
all'HuffPost, è il generale Franco Angioni, già comandante delle truppe
terrestri Nato nel Sud Europa e del contingente italiano in Libano negli anni più duri della guerra civile che dilaniò il Paese dei Cedri.
"L'Afghanistan
così come l'Iraq c'insegnano – sottolinea Angioni – che lo strumento
militare, anche quando si rivela necessario, non deve mai sostituire una
strategia politica o surrogarla, perché quando è così, si producono
solo disastri".
Generale Angioni, il presidente degli Stati Uniti, Donald
Trump, ha deciso di rilanciare la presenza militare degli Usa in
Afghanistan e si accinge a chiedere anche agli alleati di seguirlo su
questa strada. Dobbiamo farlo anche noi?
"Direi proprio di no. E non per viltà ma per lungimiranza. Vede, il
fatto è che quando si commette un grave errore, gli errori successivi
sono come le onde sussultorie di un terremoto seguito all'onda
principale. Il problema dell'Afghanistan nasce nell'ottobre del 2001 e
si chiama George Bush. Dopo lo choc dell'11 Settembre, la turbativa
mondiale, e non solo americana, è stata grande.
Ma l'errore maggiore è
conseguente all'attacco alle Torri Gemelle, quando Bush, avendo
individuato le cause e i colpevoli di quell'attacco, non aveva alcuna
necessità di reagire in maniera massiccia, bombardando a tappeto quattro
città dell'Afghanistan e uccidendo molti afghani, inconsapevoli del
perché di tale tragedia.
L'obiettivo dichiarato dalla Casa Bianca e dal
Pentagono di quell'azione militare era di catturare due personaggi:
Osama bin Laden e il Mullah Omar. Ma per raggiungere un tale risultato
non era necessario intervenire in maniera così massiccia e devastante su
una popolazione inconsapevole dei motivi, quando invece sarebbe stato
più opportuno e produttivo lavorare con l'intelligence al fine di punire
giustamente i veri colpevoli. Cosa che è stata fatta successivamente e
non attraverso operazioni massicce, invasive. Bin Laden è stato "punito"
non con i bombardamenti a tappeto, ma attraverso un sistematico lavoro
d'intelligence che, al momento opportuno, ha consegnato il capo di
al-Qaeda nelle mani delle forze scelte statunitensi. Ma non basta. Dopo
nemmeno tre anni dall'inizio dell'avventura afghana, lo stesso George
Bush, decide di invadere l'Iraq. Giustizia il dittatore iracheno, Saddam
Hussein, e senza una strategia politica affida il governo di questo
Paese a una moltitudine di dirigenti impreparati e disonesti. Il
risultato è che i seguaci di Saddam, soprattutto gli ufficiali del
disciolto esercito iracheno, si riuniscono e danno spessore militare
allo Stato islamico. Molto si parla e si favoleggia su Abu Bakr
al-Baghadi, ingigantendone le capacità operative, invero alquanto
mediocri, tralasciando il fatto che nella catena di comando militare
dell'Isis il ruolo chiave l'hanno giocato gli ex ufficiali di Saddam. A
questo punto una domanda sorge naturale...".
Qual è questa domanda, generale?
"Dopo 16 anni non pensiamo che sia finalmente giunto il tempo di
porre fine a questa successione ininterrotta di errori politici?
La risposta, sia pure indiretta, offerta da Donald Trump non
induce all'ottimismo. Qual è in merito, e sulla base della sua lunga e
impegnativa carriera di comando militare, la sua opinione?
"Occorre finalmente adottare una linea politica di prospettiva e non
di inutile vendetta. Nessuno mette in discussione la necessità di
contrastare lo Stato islamico e quanto di esso rimane, sia in Iraq e
Siria che, soprattutto, in Afghanistan, dove i talebani hanno ricevuto
una potente cura ricostituente dalla dabbenaggine politica
internazionale e dal sostegno di Paesi arabi e musulmani che venivano
considerati alleati. L'attuale presidente degli Stati Uniti nella sua
campagna elettorale tumultuosa aveva promesso di mettere la parola fine
all'avventura afghana. L'opinione pubblica americana era preoccupata non
tanto dal fine ma dal "come". Invece, delusione cocente, siamo
costretti a constatare che queste promesse elettorali sono state
tradite. Trump anche in questo è deludente. La decisione annunciata
finirà per fornire benzina a un incendio che invece stava estinguendosi.
E' tempo di dire basta. Il problema afghano-iracheno va risolto
d'intesa con tutti i Paesi interessati e stavolta sotto la guida delle
Nazioni Unite, e alla luce di una strategia di lungo termine che deve
necessariamente dimostrarsi attenta ed efficace sul piano dei diritti
umanitari, rinunciando a percorrere itinerari nati sull'errore politico e
che nel corso di questi sedici anni hanno aggiunto errori ad errori. In
Afghanistan, è bene ricordarlo, l'Italia ha pagato un alto tributo di
vite umane garantendo un impegno sul campo, e questi nostri ragazzi in
divisa vanno ricordati con onore e affetto. Essere alleati, sinceri e
impegnati, non significa essere vassalli. A volte, dire dei "no" è prova
di forza politica e non di debolezza o codardia. L'Afghanistan può
essere il banco di prova".
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