Il palazzo di Piazza Indipendenza, abitato da 800 persone, che da anni si autogestivano in maniera eccelsa e assolutamente integrati all’interno del quartiere, è stato sgomberato all’alba del 19 agosto.
Centinaia di agenti in tenuta antisommossa si sono calati dall’alto, rompendo finestre e porte e hanno fatto irruzione in quello che forse pensavano essere un fortino inespugnabile. Probabilmente sarebbe bastato anche meno. Meno agenti, meno violenza, meno tattica spicciola. Ma siamo a Roma e dai tempi dell’Onorevole Angelina e della sua lotta per i diritti alla dignità c’era chi rispondeva “Dentro sto negozio il padrone so io e faccio come me pare”.
Eh sì, famo come ce pare.
Abbiamo fatto come ci pareva anche quando dopo tre giorni di materassi per terra e valigie usate come cuscini si è deciso di “sgomberare gli sgomberati” anche dai fatiscenti giardinetti al centro della Piazza, e sempre perché ce pareva così, abbiamo cacciato dallo stabile anche le donne incinte, i bimbi, e gli invalidi. Ci è parso di fare così ieri mattina, quando gli idranti hanno invaso, sempre all’alba, una piazza dormiente. Ancora più violenza, ancora più agenti, ancora più tattica, non di quelle studiate a tavolino, ma di quelle facilmente intuibili, siamo ad agosto, la città è popolata quasi esclusivamente da turisti, la soglia di attenzione dei movimenti e delle associazioni è inevitabilmente abbassata, le istituzioni sono più latitanti che mai, parlare di tavoli e interlocuzioni è difficile se non impossibile.
Arrivano gli agenti, colpevoli di eseguire ordini con una benda che gli copre metaforicamente gli occhi, ma il peperoncino che le donne, come sempre protagoniste, oggi come negli anni degli assalti ai forni, hanno gettato in aria per difendersi deve averglieli fatti aprire, e così è arrivata quella foto, una carezza consolatoria sulla guancia di una donna attonita, ma se ieri Anna Magnani, nella stessa città, affermava con forza: “Non c’è niente da fotografà, non semo divi del cinema” oggi gli uomini e le donne di Piazza Indipendenza i giornalisti non li vogliono vedere, non ci vogliono più parlare. Tutto ai loro occhi appare inutile, loro sanno, vivono qui da 15 anni, hanno capito come noi e più di noi che la situazione è difficilmente risolvibile, e che poche battute rilasciate cambieranno poco la situazione.
“Vivo in Italia da 14 anni, dalle 21.00 alle 4 di mattina lavoro qui a Termini”, “Sono un infermiere, ho un contratto regolare”, “Io non sono povero, mia mamma lavora e io vado a nuoto”, “Assistevo una signora anziana da quasi dieci anni, vivevo e mangiavo con lei, purtroppo la mia mamma italiana è morta ed io mi ritrovo qui”, “Ho ottenuto il ricongiungimento con la mia famiglia, sono arrivati a Roma il giorno prima dello sgombero, ora dove dobbiamo andare?”.
Ma noi continuiamo a fare come ce pare.
Il palazzo, in disuso da molti anni prima dell’inizio dell’occupazione, appartiene a un fondo immobiliare, sono 32mila metri quadri al centro di Roma, non ci vuole una mente eccelsa per capirne il valore, non era un segreto che i proprietari volessero indietro l’immobile, ma la decisione dello sgombero è arrivata “tempestiva” e “accorta” così lungimirante che gli 800, prima sono stati brutalmente cacciati e poi si sono ritrovati senza nessuna alternativa. La lunga giornata di ieri è passata così, pochi metri più giù, sui marciapiedi di via Montebello, due lunghe file di persone sedute frontalmente ai margini della corsia a senso unico lungo cui continuavano a passare macchine e poi enjera, zighinì, lenticchie, acqua, aranciata, bibite, caldo, sudore, riunioni, novità? NO, soluzioni? NO, alternative? NO, notizie delle tre persone in carcere (accusate di oltraggio a pubblico ufficiale, due uomini e una donna), aggiornamenti sulle persone in ospedale (ferite durante le colluttazioni), telecamere, fotografi, e poi ancora enjera, zighinì e lenticchie.
Io c’ero, non sono autoreferenziale, ma io stavo li, seduta per terra, l’unico utensile per dare una mano era il mio telefono, chiamare persone, fare rete, cercare di costituire un gruppo che potesse fornire un supporto, non chiamiamolo aiuto, qui non serve, il caffè se lo possono pagare da soli. E’ arrivata la sera, sono le 22.30, le persone si sono dirette “In piccoli gruppi, per non dare fastidio agli altri cittadini” – dice Simon – verso il piazzale del Baobab, rimaniamo in una ventina, di cui sono 4 o 5 migranti. In quell’esatto momento appaiono tre persone, fino a poco prima appoggiate noncuranti al muro (avrei sostenuto prima), furbescamente affermerei ora. Sono la SOS, la squadra operativa sociale, un nome altisonante per un team tutt’altro che risolutivo, vengono da me: “Salve, siamo la Sos (mi guardo in giro pensando che da un momento all’altro arrivassero dei super eroi, ma dopo che mi indicano la pettorina capisco che non devo aspettarmi nessun altro), volevamo sapere se c’è qualche emergenza e bisogno di qualche posto letto per la notte”.
“Sì, 800”. Non li hanno. Ne offrono 14 per le donne e 11 per gli uomini. Divisi. I figli anche se maschi possono stare con le mamme – tengono a sottolineare –. “No grazie” – risponde un papà. “Ah quindi lei rifiuta l’aiuto che le offre il comune di Roma? Voi, dichiarate di rifiutare?” – chiede con un sorriso placido, che si trasforma nel giro di niente in un ghigno, l’omino con la pettorina.
Sì, effettivamente è assurdo che delle persone che sono in Italia da tanti anni, e che nello stesso orario, fino a pochi giorni prima stavano probabilmente accendendo lo zampirone sul davanzale della propria casa, come tutti facciamo nelle afose sere estive romane, rifiutino di andare a dormire nel “Circuito della Sos” (???), dove non potrebbero cucinarsi, ma mangerebbero grazie al servizio di un catering esterno, dove avrebbero degli orari rigidi di entrata e uscita, dove sarebbero divisi coattivamente dal resto delle loro famiglie.
Sara Nunzi
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