Ma
c'è una volta in cui la politica si preoccupi del bilancio della vita
delle persone? Quanto meno, una volta in cui ci si ponga una domanda
rispetto all'andamento della vita delle persone che lavorano in questo
paese e delle persone che lavorano in maniera saltuaria o non lavorano
proprio?
Temo
di no. Perché come sempre, la risposta che il sistema offre ai problemi
complessi della modernità è un arretramento, sul piano dei diritti, sul
piano delle condizioni di vita e di lavoro, sul piano dei salari e
della previdenza. "Lavora di più", continuano a dire.
E
poco importa se i lavoratori italiani sono di già quelli che lavorano
più di tutti in Europa, nel corso di un anno. Sono anche un po' stanco
di continuare a ripeterlo, ma lavoriamo quasi 1.800 ore all'anno,
rispetto a francesi e tedeschi (già, proprio loro) che ne lavorano in
media circa 400 in meno. Uno schiaffo in faccia alla disoccupazione,
considerando i numeri dei disoccupati: oltre l'11% complessivi, e quasi
il 40% fra i giovani.
Senza
tenere conto, poi, un altro aspetto, ovvero dove finisca tutta la
ricchezza prodotta, visti i bassi livelli delle retribuzioni italiane,
con le disuguaglianze in netto aumento. I poveri sempre più poveri e i
ricchi sempre più ricchi. In quali tasche si accumula la ricchezza
prodotta dalle 1.800 ore lavorate l'anno per ogni lavoratore?
Per
chi e per cosa lavoriamo così tanto, in sostanza? Per quale ragione ci
ammazziamo letteralmente la vita, lavorando ore e ore al giorno?
Credo
sia giunto il momento di porre con forza e decisione nella politica
italiana il tema della riduzione del tempo di lavoro, senza rinunce e
senza arretramento di retribuzioni, sia chiaro, che come detto, sono già
fra le più basse in Europa.
Alla
base c'è certamente un obiettivo che potremmo considerare strutturale:
ovvero la necessità di redistribuire le quote di lavoro presenti. A
maggior ragione se il progresso scientifico, l'aumento dell'automazione
nei processi produttivi, provocherà nei prossimi anni una riduzione di
posti di lavoro di circa 5 milioni di unità in tutta Europa.
La
scienza e gli analisti ci avvisano da anni e già buona parte del tempo a
disposizione della politica, per compiere delle scelte è andato
perduto, visto che si tratta di un processo iniziato con maggiore vigore
alla fine degli anni '80.
Dobbiamo
continuare a vivere i processi di automazione come una minaccia sul
futuro di milioni di persone, o vogliamo invece incrociare le
possibilità che il progresso scientifico offre e puntare
sull'automazione per migliorare la qualità della vita delle persone?
Le
macchine che lavorano al posto dell'uomo non possono continuare ad
essere elementi a esclusivo vantaggio dell'industria, delle
multinazionali e dei datori di lavoro, che con costi di produzione
nettamente più bassi e tempi di produzione molto più avanzati rispetto a
quelli che potrebbe reggere un corpo umano, riescono a estrarre molta
più ricchezza e molto più plus valore dal singolo prodotto. Anche questa
è una ricchezza che va redistribuita, offrendo ai lavoratori i vantaggi
che una maggiore automazione può offrire.
I
temi della qualità della vita, della qualità del tempo libero a
disposizione, della necessità di liberarsi dal lavoro, inoltre, sono
ormai anche questi centrali. In una società a capitalismo avanzato,
l'impianto della vita delle persone è centrato fondamentalmente sulla
produzione e sulla produttività, con una scarsa considerazione, invece,
per tutto ciò che ha a che fare con la qualità, con il tempo a
disposizione della persona. Per la verità, anche il tempo libero è
entrato con forza nella dimensione della produzione e del consumo, in
particolare negli ultimi 20 anni.
Ed
è questo aspetto della vita che va liberato, va rimesso nelle mani e
nelle scelte delle persone, che sempre più spesso rinunciano alla
propria dimensione affettiva, sacrificano la famiglia, le amicizie o
anche le proprie passioni, per rispondere al ricatto
produttivo/occupazionale.
Le
donne più degli uomini sono costrette a tempi irragionevoli, talvolta
disumani, per continuare a poter avere una occupazione dignitosa e
conciliare con questa i tempi del lavoro di cura.
Credo
che la sinistra, quindi, in Italia debba avere questo compito storico,
una sorta di missione: porre al centro del dibattito il tema della
redistribuzione del lavoro, della riduzione del tempo dedicato al lavoro
e del miglioramento della qualità della vita e del mondo in cui
viviamo.
Anche
perché, come spesso accade nelle dinamiche sociali, in cui i rapporti
di forza vengono determinati dalla capacità di intraprendere e
organizzare il conflitto, il tema della riduzione dell'orario di lavoro
sta diventando sempre più uno strumento di ricatto nelle mani dei grandi
gruppi industriali, durante i momenti di crisi. La dirigenza della
Bosch a Bari, ad esempio, propone la riduzione d'orario
come misura strutturale nel proprio piano industriale, per rispondere
alla crisi del diesel, che le stesse multinazionali dell'auto hanno
contribuito a creare. Il grande inganno è che la riduzione dell'orario
di lavoro è accompagnata da una contestuale riduzione dei salari dei
lavoratori fino a un 30% di quanto percepito oggi.
Come
dire che per gli errori della dirigenza continuano a pagare sempre e
solo i lavoratori, che di improvviso potrebbero ritrovarsi con più tempo
libero, certo, ma con stipendi da 700 o 800 euro.
Un inganno inaccettabile. Il momento per prendere in mano un tema così fondamentale per il futuro di milioni di persone, è ora.
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