Seminare paradisi terrestri, ma anche rinnovare cuori umani. Ecco la
portata della rivoluzione di Fukuoka: una scelta di vita radicale di cui
c’è sempre più bisogno.
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Imparare a “non fare” è molto di più del semplice “essere passivi di
fronte a”; e ancora molto, molto di più del “disimparare a fare”. È
l’applicazione pratica e quotidiana della convinzione che se la persona
abbandona temporaneamente la volontà umana e si lascia guidare dalla
natura, questa risponde provvedendo a tutto. Utopia? Nient’affatto, ma
di certo difficilissimo a farsi. È la visione della vita attraverso la
cura della terra che il microbiologo giapponese Masanobu Fukuoka ha
regalato al mondo grazie ai suoi libri sull’agricoltura naturale e alle
conferenze tenute nei cinque continenti fino alla sua morte, nel 2008.
Un approccio talmente radicale e lontano dal modo di vivere moderno, che
fatica a trovare ampia diffusione, soprattutto in Occidente. Lo spiega
bene l’americano Larry Korn, discepolo di Fukuoka alla fine degli anni
’70 del secolo scorso e convinto divulgatore del suo pensiero nei
decenni a seguire, autore della biografia di Sensei, il maestro, termine che usa con affetto e ammirazione parlando di lui. L’agricoltura del non fare ,
questo il titolo del libro di Korn edito da Terra Nuova, accompagna il
lettore in un viaggio fisico e metafisico, dai terreni di Fukuoka,
riportati ad una nuova e originaria verginità, fin dentro la sua
rivoluzionaria visione del mondo. Fukuoka non “predica” una tecnica,
bensì fornisce un esempio di vita, ponendo l’uomo di fronte a una scelta
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Ribaltare la prospettiva
«L’uomo ha fatto dell’agricoltura uno strumento per imporre la sua influenza sulla natura, ma può benissimo diventare, ribaltando la prospettiva, un’opportunità per lasciarsi guidare dalla natura stessa» spiega Korn. Ma occorre, appunto, ribaltare la prospettiva.
«Molte persone considerano lo sviluppo dell’agricoltura come causa dei nostri attuali problemi sociali e ambientali» prosegue Korn, «ma il suo avvento ha semplicemente coinciso con un cambiamento più profondo: l’essere umano ha deciso che era superiore alle altre forme di vita, che la natura era stata creata per noi, per fare ciò che più ci fosse piaciuto e che il nostro destino era quello di conquistare e dominare il mondo. In altre parole, l’uomo è arrivato a credere di essere al di sopra della legge di natura. Quindi, il cambiamento ha avuto più a che fare con il potere e il controllo che con l’agricoltura, anche se quest’ultima ha dimostrato di essere uno strumento efficace per diffondere l’influenza umana. I popoli nativi non hanno avuto problemi legati alle decisioni sul loro stile di vita, perché è rimasto largamente immutato nel corso delle generazioni. Quando l’uomo separa se stesso dalla natura si taglia fuori dalle fonti tradizionali della conoscenza, dalla comprensione intuitiva, dall’apprendimento diretto dalle altre creature e dalla guida costituita da ciò che le generazioni precedenti hanno fatto. Non riesce più a vedere l’unicità del Creato; deve invece affidarsi all’intelletto, che può comprendere solo piccoli pezzi della realtà, uno alla volta. Questo modo frammentario di vedere il mondo si è tradotto infine nella scienza ed è diventato lo standard secondo cui le persone organizzano l’esperienza e decidono cosa fare. Le società tribali erano considerate società dell’abbondanza perché producevano tutto ciò di cui avevano bisogno con il minimo sforzo. La nostra società moderna, invece, ha un appetito insaziabile. Anziché l’economia dell’abbondanza, il nostro sistema, così altamente produttivo, è da considerarsi “l’economia della scarsità” perché non importa quanto produce, la certezza è che non sarà mai abbastanza. Il nostro sistema economico istituzionalizza il bisogno di espansione, nel tentativo, assolutamente futile, di autoalimentarsi. Ciò viene chiamata crescita, o progresso, e, nella sua applicazione pratica, si traduce nell’estrazione delle risorse naturali con la maggiore velocità ed efficienza possibili».
Le non-azioni diventano soluzioni
Qual è stata dunque l’intuizione di Fukuoka e quale la “soluzione” che propone?
«Ha compreso che la natura è perfettamente organizzata e produce in abbondanza così com’è. Le persone, con la loro limitata comprensione, cercano di correggerla pensando che il risultato possa essere migliore, ma invariabilmente appaiono effetti collaterali. Di conseguenza, adottiamo misure per contrastare tali effetti collaterali ed emergono problemi ancora maggiori. Ormai praticamente tutto ciò che si sta facendo è mitigare i problemi causati da precedenti azioni sbagliate e tutto questo lavoro è solo fatica sprecata. Fukuoka era convinto che sarebbe stato meglio per tutti non fare nulla fin dall’inizio».
Da allora in poi ha smesso di arare e di allagare i suoi campi di riso. Ha smesso di seminare il riso in semenzaio in primavera e ha iniziato invece a spargere i semi in autunno, quando sarebbero naturalmente caduti sul terreno. Invece di arare per liberarsi delle erbacce, ha imparato a controllarle spargendo un pacciame di paglia di riso e orzo e mantenendo il terreno costantemente coperto di trifoglio bianco. «Quando è riuscito a ottenere condizioni un minimo favorevoli alle proprie colture» spiega ancora Korn, «Fukuoka ha interferito poi il meno possibile con le piante e gli animali presenti nei suoi campi e nel suo frutteto. Mano a mano che passava il tempo comprendeva che meno faceva, più la terra rispondeva in maniera produttiva. E si è riferito al suo metodo con il nome di agricoltura naturale». Ma, come sottolinea bene sempre Korn, «non può esistere un’agricoltura naturale senza persone naturali».
«Fukuoka riteneva che fosse necessario, prima di tutto, venire a contatto diretto con la natura come veramente è, per poter poi comprendere con chiarezza l’agricoltura naturale; solo allora si può decidere se seguirla o meno. Ci sono certi passi che possiamo fare per allinearci all’ordine naturale, sia dentro che fuori di noi, per poi poter vedere il mondo come lui lo vedeva. È soprattutto un processo di rimozione degli ostacoli, di abbandono delle illusioni e occorre vivere una vita semplice, vicina al cuore della natura. Occorre esaminare i propri pensieri e individuare quelli che ci sono stati inculcati dalla nostra cultura, per capire quali abbandonare. È dura lasciarsi alle spalle tutto; in fin dei conti, ci sono valori e convinzioni potenti che condividiamo collettivamente. Essi possono definire il nostro senso del sé e la nostra determinazione. Abbandonare queste convinzioni può spaventare, può sembrare rischioso ed estremo. Ma io penso che alla fine si scopra che è molto più facile liberarsi di tutte quelle informazioni sbagliate piuttosto che portarsele dietro».
La libertà del non-possedere
«Il passo successivo è valutare come conviviamo con l’idea di ridurre le proprietà materiali, limitare l’acquisto di beni di consumo e servizi, prendere decisioni ragionate e compatibili con l’ambiente quando si tratta di trasporti, casa, cibo e intrattenimento e produrre meno rifiuti possibile. Ciò non solo rende la vita più semplice, ma ci dà anche un senso di indipendenza e responsabilizzazione personale. L’economia delle nostre vite personali si sposterà dall’economia della scarsità a quella dell’abbondanza; prenderemo dal mondo solo ciò di cui abbiamo bisogno e nulla più. Ciò necessariamente implica che dobbiamo sganciarci dalla convinzione che, compiendo grandi cose e accumulando beni materiali, arriveremo a una vita più comoda e più appagante. Fin da bambini ci sentiamo ripetere che dobbiamo lavorare sodo a scuola per poter avere carriere di successo, preferibilmente che abbiano a che fare con qualcosa che ci farà fare un sacco di soldi; ma i beni materiali sarebbero dunque una prova della felicità personale? Per molti, l’attaccamento ai beni materiali si traduce in una vita di desiderio insaziabile, una dipendenza che ci ruba la speranza di raggiungere una vita appagante e ci priva dell’empatia verso gli altri. Ci lega anche a un mondo di relatività, dove non c’è libertà ma solo confusione continua e conflitto. Non sarebbe meglio portare avanti con calma la nostra routine quotidiana, vivere semplicemente, mangiare e dormire bene e gioire di essere vivi? Vivere semplicemente lascia lo spazio per godere del quotidiano, ci insegna a considerare il valore delle esperienze piuttosto che di ciò che possediamo. Allinea le nostre vite a ciò in cui crediamo e ci porta a un’attitudine più positiva e fiduciosa. Portare abiti semplici, mangiare cibi semplici e vivere una vita umile e ordinaria eleva lo spirito umano, portandoci più vicino alla fonte della vita stessa».
La vitalità per l’uomo e la terra
Si riscopre così la vitalità, per l’uomo e per la terra. Per l’uomo quel sentimento sincero e diretto di gioia e gratitudine per essere parte di un tutto, per la terra la ricchezza e l’abbondanza di esseri viventi che le riconsegnano il ruolo di Madre. È quello che ha notato anche Giovanni Cerrano, giovane agricoltore di Colle Val d’Elsa che ha riportato alla vita cinque ettari di terreno dove coltiva antiche varietà di cereali toscani che usa poi per la panificazione, alla quale provvede lui stesso. «L’approccio di Fukuoka è rivoluzionario e impegnativo» spiega. «Mi sono ispirato a lui per restituire vigore e anima al terreno che ho scelto di lavorare, anche se poi ho maturato le mie personali riflessioni e seguito la mia strada. Ci sono voluti 3 anni, ma è stata una soddisfazione impagabile vedere in ogni zolla un brulichio di creature che restituiscono pienezza a ciò che hai di fronte. La terra viene svuotata dallo sfruttamento eccessivo e dalla chimica, ma quando ritrova la sua anima sviluppa una forza che è capace di contagiarci».
«Quella di Fukuoka è stata più di un’intuizione, è stata una sorta di illuminazione: la terra ha in sé tutto quanto è necessario per accogliere a far crescere la vita» aggiunge Gigi Manenti, fondatore dell’omonima azienda agricola nel Biellese che, partendo dall’agricoltura naturale del microbiologo giapponese, ha elaborato, strada facendo, un suo metodo per preservare la fertilità dei terreni senza bisogno di concimazione alcuna. «È importante partire da questa visione d’insieme, poi chiaramente sulle singole coltivazioni ciascun agricoltore rispettoso della natura mette del proprio per raggiungere gli obiettivi che si prefigge. Il passaggio fondamentale che va compreso e accettato per imboccare la strada indicata da Fukuoka implica l’abbandono del meccanicismo e un cambio radicale di paradigma, soprattutto quando si parla, o si pensa di parlare, di scienza».
Onorio Belussi, classe 1942, dalla terra era partito, lavorando da ragazzino insieme ai genitori mezzadri, e alla terra è tornato dopo la pensione, portandosi dietro «una sensibilità nuova, maturata dopo avere letto le parole di Fukuoka» spiega. Ad Adro, nel Bresciano, coltiva da quasi trent’anni un podere seguendo fedelmente i princìpi dell’agricoltura del non fare. Ha imparato molto dal greco Panaiotis Manikis, noto allievo del maestro giapponese e divulgatore dell’agricoltura naturale in Europa, poi ha dato corpo al suo desiderio di sempre: «Volevo seminare paradisi terrestri e ci sono riuscito». Ma non si è fermato qui: «Quando ho incontrato Fukuoka di persona ho capito cheil mio obiettivo non poteva essere solo quello. Bisognava andare oltre: rinverdire deserti e rinnovare cuori umani. Ho abbracciato questi pensieri e li ho fatti miei». Giovanni, Gigi e Onorio, insieme a molti altri, hanno cominciato a muovere i passi necessari, dai campi alla vita, per innescare e diventare quella rivoluzione che, sì, può partire da un filo di paglia. E che ciascuno di noi, volendo, può fare sua.
L’agricoltura del non fare secondo Fukuoka
Non arare Non concimare
Non usare fertilizzanti e pesticidi
Non diserbare Non potare
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