E per rispondere correttamente, forse la forma migliore è risalire alla
base della questione: quanti non addetti ai lavori sanno che quando si
parla di rischio (vulcanico, sismico, idrogeologico) non si parla di un concetto, ma di un valore concreto e calcolabile?
Allora
proviamo a spiegarlo questo benedetto rischio, con la tristezza nel
cuore di pensare che in un paese come il nostro, tutti dovrebbero
conoscerlo e questo post dovrebbe essere inutile, ma a quanto pare non
lo è.
Il rischio a cui è esposto un luogo, una comunità, un società è dato dal prodotto di tre fattori.
1) La pericolosità.
Indica la probabilità che si verifichi un fenomeno di una determinata
intensità in un dato luogo in un certo intervallo di tempo. Che vuol
dire? Che se siamo in una zona in cui è alta la probabilità che si
verifichi ogni 100 anni un terremoto di magnitudo superiore a 5, questo
valore è alto. Se invece siamo in una zona in cui ogni 500 anni è
probabile che si verifichi un terremoto di intensità non superiore a 3,
diciamo, la pericolosità è bassa;
Questo
è il fattore nella definizione di rischio che dipende esclusivamente
dalla natura. L'unica cosa che possiamo provare a fare è studiare i
fenomeni per tentare una prevedibilità, sempre di tipo probabilistico.
Cosa che le attuali conoscenze scientifiche, soprattutto in campo
sismico, non consentono di fare.
2) La vulnerabilità.
Indica la propensione a subire un danneggiamento da parte di cose e
persone se avviene il fenomeno in questione. Cioè: se la casa è
antisismica, la vulnerabilità si abbassa, perché quell'edificio ha una
minore "propensione" al danneggiamento. Se la casa è costruita con
materiali scadenti, su terreni instabili, o nel caso dei vulcani, molto
vicino al centro di eruzione, il valore sale pericolosamente;
3) Il valore esposto.
Indica il numero di persone o cose esposte al fenomeno. In Italia, uno
dei paesi con la densità abitativa più alta d'Europa, con picchi record a
livello mondiale, ci sono molte case e persone esposte a diversi tipi
di fenomeni.
Ecco, ora analizziamo tutto questo per il caso di Ischia.
Il sisma di ieri è stato di intensità media, amplificata probabilmente
dalla bassa profondità e dai terreni del substrato dell'isola. Ma tutto
ciò che ha a che fare con la parte scientifica è ancora oggetto di
analisi, quindi consiglierei vivamente a chi non se ne intende di
lasciare perdere per ora a lanciarsi in teorie strampalate sulla
differenza tra un sisma tettonico e uno vulcanico, in voli pindarici sui
motivi per i quali la magnitudo non è stata ancora definita
univocamente così come la profondità esatta (vorrei ricordare che la
misura della magnitudo
è indiretta, per intenderci, non è come misurare la febbre mettendo il
termometro a contatto con il corpo di cui vogliamo misurare la
temperatura, quindi soggetta a correzioni ed errori). Lasciate stare gli
esperti dell'Ingv a lavorare tranquilli e non tartassateli con domande
inutili che in questo momento non aggiungono nulla alla comprensione di
quello che è accaduto.
Ciò
che è accaduto a Ischia è che malgrado l'Italia sia un paese in cui il
primo fattore del rischio, cioè la pericolosità, può raggiungere valori
elevati sia per la frequenza con cui può avvenire un fenomeno in una
determinata area, sia per l'intensità, gli altri due fattori la fanno da
padrone. Siamo tanti, seduti su faglie, su vulcani, su terreni
instabili dal punto di vista idrogeologico. E se non possiamo fermare o
ridurre i fenomeni naturali, e neanche migrare in massa per uscire dalle
aree a rischio, l'unica, sola, urgente e trascurata soluzione è ridurre
la vulnerabilità.
Si
sente parlare di patrimonio artistico e architettonico ogni volta che
crollano case nel nostro paese. Se consideriamo tutte le speculazioni
edilizie e gli abusivismi diffusi nell'intero territorio nazionale e la
refrattarietà del singolo e delle istituzioni ad affrontare un discorso
serio e a lungo termine sulla messa in sicurezza delle nostre
abitazioni, il corto circuito è fatto. La scelta è nostra: possiamo
sprecare giorni a parlare di magnitudo, a farne una questione regionale
tra Nord civile e Sud arretrato, a crederci con un certo perverso
orgoglio un paese con dei fenomeni naturali unici al mondo per la loro
catastroficità (come ci piace essere unici in tutto a noi italiani).
Oppure
fare un riflessione reale su qualcosa che sì, davvero ci rende unici:
il concetto così diffuso di condono edilizio e ciò che porta con sé. In un articolo di diversi anni fa, lo scrittore casertano Antonio Pascale raccontava:
Davanti a un pubblico misto, italiano e tedesco, tradotto in simultanea, dissi le parole: condono edilizio. La traduttrice mi sussurrò: non abbiamo la parola per tradurre condono edilizio. Ah no? No! Allora cominciamo dal principio: si costruisce là dove non si può costruire. E un tedesco subito alzò la mano: e allora perché costruite? Cominciai a balbettare: perché? E... E... Perché è abusivo. E perché non abbattete? E perché? A fine presentazione il tedesco mi chiese: ma se volessi costruire una casa davanti al Colosseo, potrei farlo? No, dissi. No? Boh? Non ci capivo più niente.
La causa
dei disastri non è il condono in sé, ma quello che rappresenta. Un
principio che va contro qualsiasi pianificazione urbanistica e abitativa
virtuosa. Non solo non siamo soliti pianificare a lungo termine degli
interventi conservativi o di ristrutturazione dell'esistente per rendere
meno influente il fattore della vulnerabilità nel computo finale del
rischio, ma prevediamo dal punto di vista legislativo una pianificazione
del perdono. Si costruisce sapendo che eventuali errori saranno
accettati perché ormai già fatti in certi termini di volumi e di tempi,
in barba alle leggi esistenti.
In
uno scenario di questo tipo, il primo fattore del rischio, il fenomeno
naturale in sé, perde quasi valore. Non c'è nessuna natura che si
ribella o che si vendica per qualcosa che le abbiamo fatto. I fenomeni,
come dice il termine stesso, sono tali perché avvengono malgrado noi. Il
modo in cui ci esponiamo ad essi dovrebbe essere sempre il primo e
unico argomento di discussione. E dovrebbe essere fatto prima che
avvenga un disastro, altrimenti il calcolo non è più quello di un
rischio, ma di una mera constatazione postuma delle conseguenze.
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