mercoledì 23 agosto 2017

Il terremoto a Ischia è il tipico esempio del solito dito con la solita luna.

Nel marasma di interviste, post, blog, articoli spesso improvvisati e buttati giù per essere i primi a dire la magnitudo corretta, il numero di dispersi, le condizioni delle abitazioni crollate, a riprendere i salvataggi, credo sia importante riportare la discussione al punto fondamentale: perché un terremoto di energia relativamente forte, benché superficiale, provoca danni e vittime in Italia?
 

E per rispondere correttamente, forse la forma migliore è risalire alla base della questione: quanti non addetti ai lavori sanno che quando si parla di rischio (vulcanico, sismico, idrogeologico) non si parla di un concetto, ma di un valore concreto e calcolabile?
Allora proviamo a spiegarlo questo benedetto rischio, con la tristezza nel cuore di pensare che in un paese come il nostro, tutti dovrebbero conoscerlo e questo post dovrebbe essere inutile, ma a quanto pare non lo è.
Il rischio a cui è esposto un luogo, una comunità, un società è dato dal prodotto di tre fattori.
1) La pericolosità. Indica la probabilità che si verifichi un fenomeno di una determinata intensità in un dato luogo in un certo intervallo di tempo. Che vuol dire? Che se siamo in una zona in cui è alta la probabilità che si verifichi ogni 100 anni un terremoto di magnitudo superiore a 5, questo valore è alto. Se invece siamo in una zona in cui ogni 500 anni è probabile che si verifichi un terremoto di intensità non superiore a 3, diciamo, la pericolosità è bassa;
Questo è il fattore nella definizione di rischio che dipende esclusivamente dalla natura. L'unica cosa che possiamo provare a fare è studiare i fenomeni per tentare una prevedibilità, sempre di tipo probabilistico. Cosa che le attuali conoscenze scientifiche, soprattutto in campo sismico, non consentono di fare.
2) La vulnerabilità. Indica la propensione a subire un danneggiamento da parte di cose e persone se avviene il fenomeno in questione. Cioè: se la casa è antisismica, la vulnerabilità si abbassa, perché quell'edificio ha una minore "propensione" al danneggiamento. Se la casa è costruita con materiali scadenti, su terreni instabili, o nel caso dei vulcani, molto vicino al centro di eruzione, il valore sale pericolosamente;
3) Il valore esposto. Indica il numero di persone o cose esposte al fenomeno. In Italia, uno dei paesi con la densità abitativa più alta d'Europa, con picchi record a livello mondiale, ci sono molte case e persone esposte a diversi tipi di fenomeni.

Ecco, ora analizziamo tutto questo per il caso di Ischia. Il sisma di ieri è stato di intensità media, amplificata probabilmente dalla bassa profondità e dai terreni del substrato dell'isola. Ma tutto ciò che ha a che fare con la parte scientifica è ancora oggetto di analisi, quindi consiglierei vivamente a chi non se ne intende di lasciare perdere per ora a lanciarsi in teorie strampalate sulla differenza tra un sisma tettonico e uno vulcanico, in voli pindarici sui motivi per i quali la magnitudo non è stata ancora definita univocamente così come la profondità esatta (vorrei ricordare che la misura della magnitudo è indiretta, per intenderci, non è come misurare la febbre mettendo il termometro a contatto con il corpo di cui vogliamo misurare la temperatura, quindi soggetta a correzioni ed errori). Lasciate stare gli esperti dell'Ingv a lavorare tranquilli e non tartassateli con domande inutili che in questo momento non aggiungono nulla alla comprensione di quello che è accaduto.
Ciò che è accaduto a Ischia è che malgrado l'Italia sia un paese in cui il primo fattore del rischio, cioè la pericolosità, può raggiungere valori elevati sia per la frequenza con cui può avvenire un fenomeno in una determinata area, sia per l'intensità, gli altri due fattori la fanno da padrone. Siamo tanti, seduti su faglie, su vulcani, su terreni instabili dal punto di vista idrogeologico. E se non possiamo fermare o ridurre i fenomeni naturali, e neanche migrare in massa per uscire dalle aree a rischio, l'unica, sola, urgente e trascurata soluzione è ridurre la vulnerabilità.
Si sente parlare di patrimonio artistico e architettonico ogni volta che crollano case nel nostro paese. Se consideriamo tutte le speculazioni edilizie e gli abusivismi diffusi nell'intero territorio nazionale e la refrattarietà del singolo e delle istituzioni ad affrontare un discorso serio e a lungo termine sulla messa in sicurezza delle nostre abitazioni, il corto circuito è fatto. La scelta è nostra: possiamo sprecare giorni a parlare di magnitudo, a farne una questione regionale tra Nord civile e Sud arretrato, a crederci con un certo perverso orgoglio un paese con dei fenomeni naturali unici al mondo per la loro catastroficità (come ci piace essere unici in tutto a noi italiani).
Oppure fare un riflessione reale su qualcosa che sì, davvero ci rende unici: il concetto così diffuso di condono edilizio e ciò che porta con sé. In un articolo di diversi anni fa, lo scrittore casertano Antonio Pascale raccontava:
Davanti a un pubblico misto, italiano e tedesco, tradotto in simultanea, dissi le parole: condono edilizio. La traduttrice mi sussurrò: non abbiamo la parola per tradurre condono edilizio. Ah no? No! Allora cominciamo dal principio: si costruisce là dove non si può costruire. E un tedesco subito alzò la mano: e allora perché costruite? Cominciai a balbettare: perché? E... E... Perché è abusivo. E perché non abbattete? E perché? A fine presentazione il tedesco mi chiese: ma se volessi costruire una casa davanti al Colosseo, potrei farlo? No, dissi. No? Boh? Non ci capivo più niente.
La causa dei disastri non è il condono in sé, ma quello che rappresenta. Un principio che va contro qualsiasi pianificazione urbanistica e abitativa virtuosa. Non solo non siamo soliti pianificare a lungo termine degli interventi conservativi o di ristrutturazione dell'esistente per rendere meno influente il fattore della vulnerabilità nel computo finale del rischio, ma prevediamo dal punto di vista legislativo una pianificazione del perdono. Si costruisce sapendo che eventuali errori saranno accettati perché ormai già fatti in certi termini di volumi e di tempi, in barba alle leggi esistenti.
In uno scenario di questo tipo, il primo fattore del rischio, il fenomeno naturale in sé, perde quasi valore. Non c'è nessuna natura che si ribella o che si vendica per qualcosa che le abbiamo fatto. I fenomeni, come dice il termine stesso, sono tali perché avvengono malgrado noi. Il modo in cui ci esponiamo ad essi dovrebbe essere sempre il primo e unico argomento di discussione. E dovrebbe essere fatto prima che avvenga un disastro, altrimenti il calcolo non è più quello di un rischio, ma di una mera constatazione postuma delle conseguenze.

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