Per la prima volta l'internazionalizzazione di chi insegna è stata esaminata dal punto di vista dei docenti anziché degli studenti, intervistando 480 insegnanti e 63 dirigenti delle scuole secondarie di secondo grado rappresentative delle diverse aree geografiche.
Gli insegnanti si valutano e si bocciano. Un giudizio netto: non si sentono internazionali, sanno di conoscere poco l’inglese, ammettono di non avere le capacità per formare cittadini europei e di essere poco aperti a collaborare con le scuole di altri Paesi. Solo il 18% si può definire davvero un docente “global” con esperienze all’estero in passato o collaborazione con colleghi stranieri. I professori italiani preferiscono restare “local”. A denunciare questa situazione è la Fondazione Intercultura che stamattina ha presentato al ministero dell’Istruzione il settimo rapporto dell’Osservatorio nazionale sull’internazionalizzazione delle scuole.Per la prima volta il fenomeno è stato esaminato dal punto di vista dei docenti anziché degli studenti, intervistando 480 insegnanti e 63 dirigenti delle scuole secondarie di secondo grado rappresentative delle diverse aree geografiche. Lo scenario che emerge dalla ricerca è quello di un Paese dove la scuola non può ancora definirsi internazionale: secondo gli stessi docenti, il nostro sistema d’istruzione non merita la sufficienza piena su nessuno degli aspetti analizzati, dall’accoglienza degli studenti stranieri, alla collaborazione con scuole estere, al sostegno di programmi di mobilità studentesca. Non solo.
La bocciatura più eclatante è quella che riguarda le lingue: il 57% dei docenti valuta la propria conoscenza dell’inglese bassa o medio/bassa.
“Siamo di fronte – spiega il dossier presentato dalla Fondazione che da anni si occupa di favorire gli scambi all’estero di migliaia di studenti – ad una scuola generalmente restia al cambiamento e con un corpo docenti che non rileva l’opportunità di crescita professionale”. I dati emersi la dicono lunga: solo il 22% degli insegnanti intervistati ha seguito un percorso di formazione internazionale di breve durata (corsi di lingua etc) o scambi e gemellaggi. Anzi, il 60% non è mai stato all’estero per motivi professionali.
I nostri prof, nemmeno prima di salire in cattedra, erano uomini e donne aperti alle esperienze oltre confine: solo il 10% ha partecipato all’Erasmus e appena il 6% ha ottenuto un master o dottorato all’estero. Ci troviamo di fronte alla figura del docente “local”: 50enne, di ruolo, prevalentemente donna con oltre vent’anni di esperienza da insegnante. Caratteristiche che cambiano, a detta dei dati raccolti da Intercultura, anche il modo di fare lezione. I prof “global” si percepiscono più aggiornati e innovativi, maggiormente inclini a sperimentare metodi di insegnamenti alternativi. Resta molta strada da fare per rendere le nostre aule più internazionali: lo scorso anno scolastico le nostre scuole hanno attivato nel 58% dei casi qualche tipo di attività internazionale per gli studenti ma a fronte di questo dato emerge che è stato fatto poco o nulla per assicurare una pari formazione internazionale degli insegnanti. “La sfida che abbiamo – ha spiegato Roberto Ruffino, segretario generale della Fondazione – è quella di innescare un processo virtuoso per sostenere i docenti nella loro formazione internazionale. I dirigenti, grazie anche all’autonomia di cui godranno, avranno un ruolo fondamentale per questa evoluzione”.
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